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In rotta verso il futuro a bordo di un cargo

Durante la traversata possono trascorrere settimane senza incrociare altre navi. (Peter Haffner, Das Magazin)

Questo articolo è stato pubblicato il 1 agosto 2008 sul numero 755-756-757 di Internazionale.

Essere a bordo di una nave che sta per attraversare il più grande oceano del mondo dà una sensazione unica. In treno si può scendere quando si vuole, e perfino il volo aereo più lungo è un balzo in confronto a una traversata del Pacifico come quella che stavo per cominciare: ero l’unico passeggero di una nave porta­container in rotta per la Cina.

La Msc Texas è l’Arnold Schwarzenegger delle portacontainer. Viste dal ponte, le colossali chiatte del porto di Long Beach sembrano barchette in una vasca da bagno. La nave ha una massa talmente grande che non mi sono neanche accorto quando si è staccata dalla banchina, a cui era ormeggiata con gomene grosse come un braccio, legate a bitte che pesano tonnellate. Sotto i miei occhi il varco tra la banchina e lo scafo ha cominciato ad allargarsi impercettibilmente, un millimetro dopo l’altro.

Era piacevole stare lassù. Eravamo in rotta da Long Beach al porto di Oakland, l’ultimo scalo prima della traversata dell’oceano. La gente a bordo dei traghetti e delle imbarcazioni turistiche nella baia di San Francisco ci salutava e faceva suonare le sirene. Quando mi sono affacciato al parapetto, mi sono sentito come un ragazzino che indossa i pantaloni lunghi per la prima volta. La Msc Texas si faceva strada con calma solenne in mezzo alla flottiglia di bianche imbarcazioni a vela, costringendole ad allontanarsi come uno sciame di mosche fastidiose. Quando ha virato per entrare nel porto di Oakland e attraccare, sembrava che navigasse nella melassa: tutto si è svolto al rallentatore con l’aiuto di piloti, rimorchiatori e ormeggiatori, che hanno diretto il nostro colosso nella manovra. A pieno carico, con la sua massa di 135.530 tonnellate, la nave sarebbe capace di travolgere e abbattere un ostacolo all’apparenza insormontabile: i pilastri del Bay bridge di San Francisco insieme all’interstatale 80 e al traffico che ci scorre sopra.

L’idea di questo viaggio mi è venuta mentre, sulla costa del Pacifico, mi godevo quel panorama di cui ormai non posso fare a meno. Nel deserto d’acqua che si apre di fronte alla California si può ammirare quello che di solito i maghi vedono nella sfera di cristallo: il passato e il futuro del mondo. Scogliere selvagge e solitarie, leoni marini, pellicani e balene azzurre si presentano allo spettatore con le stesse sembianze che dovevano avere quando nella regione non c’era ancora traccia di esseri umani: un mondo primordiale, grandioso nella sua indifferente bellezza e nella costanza implacabile con cui le onde continuano ad abbattersi, da millenni, sulla costa.

Qui il passato è vicino. Ma lo è anche il futuro: nei porti della costa occidentale americana si vede chiaramente che la Cina ha oltrepassato la linea d’ombra della storia mondiale e si avvia a occuparne l’area centrale. Il sismografo di questo cambiamento è la California, il laboratorio in cui il futuro continua a essere reinventato al computer, dove si elabora di tutto, dalla moda del fitness fino al web 2.0. Il Golden State progetta quello che la Cina si limiterà a produrre: dalle scarpe da ginnastica fino all’iPod. Ma tutti sanno che il Celeste Impero ha aspirazioni più alte che essere la fabbrica del mondo. Per questo la sua vertiginosa crescita viene seguita con un misto di fascinazione e di timore. Nella Cina gli americani riconoscono un rivale che è protagonista di una straordinaria avventura simile alla loro: la rapida ascesa da una condizione umile fino al rango di potenza ammirata e rispettata in tutto il mondo. Quanto all’Europa, più passa il tempo e meno interessa agli Stati Uniti: il vecchio continente è passé, è storia. Il baricentro politico ed economico (presto anche culturale) del pianeta non è più la regione atlantica, ma quella del Pacifico.

La rinascita della navigazione sul più grande oceano della terra, che fino al settecento era ancora una distesa d’acqua in gran parte inesplorata, ha incollato la Cina agli Stati Uniti. La classica rotta dell’Atlantico settentrionale ha perso importanza: oggi la maggior parte della navigazione mercantile si svolge lungo le coste dell’Asia e, attraverso il Pacifico, in direzione dell’America settentrionale. Dove fanno rotta le navi, arriva anche il flusso di merci che trasportano: l’economia si sviluppa e spuntano dappertutto città. La rotta transpacifica è la via della seta di oggi.

Da Los Angeles a Hong Kong

Il porto di Long Beach, vicino Los Angeles, è uno dei più importanti scali americani, ma non riesce a stare dietro al potenziamento degli scambi commerciali. Anno dopo anno sono sempre più frequenti le navi che salpano e approdano, sempre più numerosi i container che vengono scaricati e caricati. Questi enormi scatoloni di lamiera d’acciaio sono l’unità di misura del commercio globale e forniscono un’esemplificazione della sua diseguaglianza: partono per la Cina vuoti o pieni di carta e rottami metallici da riciclare, e ritornano pieni di tutte le merci che riforniranno i centri commerciali americani, dai giocattoli ai dispositivi elettronici.

Come i lillipuziani
Quando mi sono trovato nel mezzo dell’area portuale, non potevo immaginare che quello davanti ai miei occhi era niente in confronto a ciò che avrei visto in Cina a Xiamen, Chiwan, Hong Kong e Yantian, i porti toccati dalla Msc Texas. I non addetti ai lavori non arrivano mai troppo vicino alle gru a cavaliere, agli autocarri pesanti, ai magazzini per i container e alle navi da carico, ma restano impressionati anche osservandoli da lontano. Quando poi ci si trovano in mezzo, si sentono come i lillipuziani a Brobdingnag: vedono macchine di dimensioni tali da sembrare del tutto sproporzionate rispetto all’esiguo numero di persone che le manovrano. I gruisti, infatti, sono chiamati “insetti spaziali”: lavorano in piccole cabine ad altezze vertiginose e manovrano la forca da container, una piastra d’acciaio quadrata da cui partono quattro ganci che si inseriscono nei container sulla banchina, li sollevano sulla nave e li calano nella stiva o li posano sul ponte superiore. Questi giganteschi scatoloni devono essere posati con precisione sulle guide per la movimentazione, in modo da non ammaccarsi e da poter scendere dolcemente, come la cabina di un ascensore, ai piani inferiori della stiva. I giovani manovratori, che si sono fatti le ossa sui simulatori, svolgono il loro compito con velocità e precisione. Ogni container, che pesa 32 tonnellate, viene stivato in novanta secondi. In un’ora, quindi, vengono movimentate 1.280 tonnellate di merci. Tutto il lavoro è scandito al ritmo di novanta secondi: l’arrivo e la partenza dei camion portacontainer, il prelevamento e lo scarico dei container da parte della gru a cavaliere, lo smistamento e la movimentazione nella stiva. In questa coreografia di uomini e macchine si alternano, un turno dopo l’altro, le squadre di portuali con gli elmetti gialli di plastica, le tute arancioni e le scarpe di sicurezza con le punte rinforzate in acciaio. Ciascuna delle sei gru a cavaliere lavora su una delle sezioni della nave: le operazioni di carico e scarico avvengono contemporaneamente. Non è ammesso neanche un secondo di ritardo se non si vuole perdere il ritmo.

Una volta i cinesi importavano gli impianti portuali, ora li copiano come i software

Per entrare nel porto, ho dovuto presentarmi da un agente portuale di Long Beach, un americano di origini arabe che si chiama Mehdi Hejazi. La nave su cui avrei trascorso le tre settimane seguenti era ormeggiata sul molo A. L’equipaggio, di 25 uomini, è formato da ufficiali tedeschi e marinai filippini. Della nave non sapevo molto, a parte alcune cifre con cui è facile fare impressione. La Msc Texas è una portacontainer da 8.200 Teu. L’unità di misura Teu (twenty foot equivalent unit) indica il numero di container che una nave può caricare.

Il comandante Trümper
Ma i numeri non bastano a farsi un’idea di quello che mi aspettava. Con tutti quei container impilati uno sull’altro si potrebbe costruire una torre alta 21 chilometri, più del doppio della quota a cui viaggia un Boeing 747. La nave è lunga più di tre campi di calcio ed è nove metri più larga del canale di Panama (per questo appartiene alla cosiddetta classe post-panamax, che non può superare il sistema di chiuse tra l’Atlantico e il Pacifico). La Msc Texas è stata costruita dal cantiere Hyundai heavy industries, in Corea del Sud, ed è stata varata nel 2004. Il porto di Long Beach ha dovuto prepararsi un anno intero per accoglierla, dato che non era adatto a navi di queste dimensioni. I canali di accesso sono stati dragati, allargati e approfonditi: a pieno carico, la Msc Texas ha un pescaggio di 14,5 metri.

Il capitano di un mostro simile viene chiamato master. Quello della Msc Texas è Horst Trümper. Ha navigato in tutti i mari del pianeta e sembra abbastanza contento di essere vicino alla pensione. è cresciuto a Brema e ha sempre amato il mare, il suo movimento e quella solitaria tranquillità che si prova solo sull’acqua. Quest’uomo dall’ironia malinconica sa sorprendere per la sua “delicatezza d’animo”, come quando mi ha spiegato perché non ama avere a bordo passeggeri: è per via di tutte quelle scartoffie che gli tocca compilare in caso di decesso.

In realtà non diceva sul serio, voleva solo divertirsi. Mi ha concesso il privilegio di sedere alla sua mensa insieme agli ufficiali e agli ingegneri. Quel posto a tavola era un buon punto d’osservazione per capire la rotta che stava prendendo non solo la nave ma anche il mondo. Questi uomini sono testimoni diretti della trasformazione globale: hanno visto con i loro occhi come i villaggi di pescatori della Cina meridionale siano diventati delle città con milioni di abitanti nello stesso arco di tempo che in Germania si impiega per aggiustare un marciapiede. Il fatto che nel loro paese tutto sembri bloccato, che il progetto di costruzione di una strada si fermi solo perché è stata avvistata una specie rara di uccelli, gli sembra assurdo rispetto alla mancanza di scrupoli nei confronti delle persone, del diritto e dell’ambiente che la Cina dimostra nell’avanzata con cui ha già scavalcato la Germania, un tempo campione mondiale dell’esportazione. Una volta i cinesi importavano gli impianti portuali, ora li copiano con la stessa efficienza con cui prima duplicavano software, cd musicali e film.

Comandare una nave come la Msc Texas è un affare serio. Portacontainer di queste dimensioni costano circa sessanta milioni di euro e spesso portano un carico in merci che può valere più di un miliardo. Quanto basta per riempire con ogni tipo di prodotti un centro commerciale con una superficie di vendita di centomila metri quadrati: vestiti, scarpe, giocattoli, articoli sportivi, videogiochi, mobili e molto altro ancora. Master Trümper è pronto a scherzare su molte cose, ma quando si tratta di sicurezza non vuole sentire battute. Non bisogna essere un fisico per capire che l’inerzia di un “proiettile” del genere, com’è solito chiamarlo lui, può far sì che una manovra sbagliata si traduca in una catastrofe. Con i suoi 25 nodi (pari a 47 chilometri all’ora), la Msc Texas ha una velocità quasi pari a quella dei delfini che abbiamo visto durante la traversata: ma a differenza di loro, non può frenare rapidamente.

Msc Texas. Una giornata di maltempo. A destra: l’ufficiale di macchina Holger Wust.

La mia cabina si trovava sul ponte F, sotto quella del master. Quando sono salito a bordo Udo Wölms, il primo ufficiale, mi ha accompagnato fino alla porta. Anche lui è cresciuto in una località di mare tedesca, ma dall’altra parte della cortina di ferro: a Stralsund, nell’ex Ddr. Wölms è responsabile delle condizioni della nave e del carico: lavora sempre con delle tabelle che regolano la disposizione dei container sulla nave. È un compito che si esegue con una matita, un po’ di matematica e quella dose di intuito che solo l’esperienza può fornire. Wölms non sa cosa c’è nei singoli container. Non lo sa nessuno a bordo, neanche il comandante. A meno che non si tratti dei container bianchi refrigerati, che contengono generi alimentari come frutta, verdura, vino o gamberi e devono essere allacciati a una presa elettrica, oppure dei container con merci pericolose, che devono essere stivati in zone particolarmente sicure e non devono mai finire fuori bordo, come può succedere quando c’è cattivo tempo. Tuttavia accade che dopo un paio di giorni di viaggio si cominci a sentire l’odore della merce nei container. Per esempio di quelli pieni di pelli di mucca, che vengono spedite in Cina per essere conciate: dopo un po’ cominciano a cuocersi nella calura subtropicale e dai container fuoriesce una brodaglia maleodorante insieme a nugoli di mosche. Ho chiesto a Wölms che generi di materiali pericolosi possono esserci nei container speciali. Pensavo che mi parlasse di sostanze chimiche, di combustibili nucleari o di armi di distruzione di massa. Invece mi ha risposto: “Profumo, lacca per capelli e cotone, che può bruciare per autocombustione”.

A parte queste merci, la sistemazione del carico è decisa in base a criteri legati al peso: se i pesi sono disposti male, infatti, la nave può inclinarsi. La Msc Texas ha un sussulto quasi impercettibile mentre inghiotte nella stiva i container più pesanti. Per il resto, è solida come un palazzo. D’altronde è una specie di edificio. A parte gli oblò, l’interno della mia cabina è in tutto e per tutto simile a una buona camera d’albergo: letto matrimoniale, divano, cinque sedie, tavolino, due scrivanie, frigorifero e bagno con doccia e toilette. Ho contato 25 stipi e 13 cassetti di ogni dimensione, e mi sono chiesto come avrei dovuto ripartire il contenuto della mia piccola valigia. Le sedie da ufficio, prive di ruote, sono assicurate alle scrivanie con degli elastici, le porte degli stipi hanno un sistema di chiusura sicuro, e per poter aprire i cassetti occorre sollevarli.

Wölms ha liquidato con un sorriso la mia osservazione che il Pacifico è tranquillo in confronto all’Atlantico e ha mormorato qualcosa a proposito dei tifoni che spazzano le coste dell’Asia sudorientale. Per precauzione mi sono assicurato che ci fosse il salvagente nell’apposito cassetto, quello contrassegnato da una scritta luminosa. Ho studiato le istruzioni da seguire in caso di allarme generale (sette scampanellate brevi, una lunga) e mi sono impresso nella memoria il segnale di abbandono della nave: breve, semilungo, breve, semilungo. Mentre pensavo all’eventualità di cadere in mare nel mezzo dell’oceano, ho calcolato che un buon nuotatore impiegherebbe poco meno di due anni per attraversare i circa settemila chilometri che lo separano dalla riva più vicina.

Un simbolo della globalizzazione
Sulla mia cabina c’è scritto owner (armatore). Dal suo aspetto si direbbe che il proprietario della nave non ci abbia mai messo piede. La Msc Texas è di per sé un simbolo della globalizzazione: naviga sotto bandiera tedesca ed è immatricolata ad Amburgo, ma come molte altre navi mercantili non ha mai visto il suo porto di appartenenza. Dopo il viaggio inaugurale dalla Corea del Sud in America, ha continuato ad andare avanti e indietro come un autobus tra la Cina e gli Stati Uniti in base a una tabella di marcia fissa e con scali sempre uguali. è stata presa a nolo dalla Mediterranean Shipping Company (Msc), che ha sede in Svizzera, precisamente a Ginevra, ma è una compagnia marittima italiana fondata nel 1970. è la seconda al mondo nel settore del trasporto via container e gestisce 346 navi: oltre al suo ufficio tecnico di Sorrento e al quartier generale di Ginevra, la Msc ha 390 uffici in 146 paesi con trentamila dipendenti in tutto il mondo.

La proprietaria della Msc Texas è la tedesca Conti-Unternehmensgruppe di Monaco di Baviera. La gestione della nave è stata affidata alla Niederelbe Schiffahrtsgesellschaft (Nsb), che ha sede a Buxtehude, vicino ai porti di Amburgo e Brema. La Nsb, che ha appena festeggiato il suo venticinquesimo anniversario, è una della più importanti imprese armatoriali tedesche: è specializzata in container e ha filiali in Florida, a Mangalia, in Romania, a Pusan, in Corea del Sud, e a Singapore. Dà lavoro a 180 impiegati amministrativi e a 2.500 marittimi, e gestisce cento navi. Nel suo centro di addestramento di Buxtehude ha un simulatore per il pilotaggio delle navi, in cui gli ufficiali imparano a eseguire manovre che coinvolgono pilotine, elicotteri e pescherecci e a fronteggiare situazioni di pericolo, come il rischio di collisione con una petroliera in condizioni di visibilità ridotta e con il vento forza dieci. La Nsb è un esempio del boom vissuto dal trasporto marittimo per merito della globalizzazione, che ha creato nuove opportunità dopo la crisi degli anni ottanta. Rinomate società di navigazione con le loro accoglienti sedi, impregnate di fumo di sigari e vapori di cognac, si sono lasciate sfuggire l’occasione di inserirsi nel nuovo giro d’affari, mentre sono cresciuti da un giorno all’altro dei novellini che non avevano ancora i contatti giusti. I porti mercantili che vivacchiavano a stento hanno fatto appena in tempo ad attrezzarsi per accogliere il traffico in continuo aumento, e da allora registrano un record dopo l’altro nel fatturato.

Hanno conosciuto una vera rinascita anche i cantieri navali, che fino a poco tempo fa erano solo un motivo di preoccupazione per le economie nazionali. Le prenotazioni di nuove navi arrivano fino al 2010: nei prossimi anni saranno costruite più di mille portacontainer con una capacità complessiva di cinque milioni di Teu, quattro quinti delle quali nei cantieri della Corea del Sud, del Giappone e della Cina, che dal 1990 hanno quadruplicato la produzione. Anche le dimensioni delle navi continuano ad aumentare: attualmente la più grande è la Emma Maersk, che ha una portata di undicimila container standard. Ma sui loro tecnigrafi gli ingegneri stanno già progettando navi da 21mila Teu. Ci sarà bisogno di rafforzare gli equipaggi, e già oggi c’è carenza di marinai, ufficiali di macchina, ingegneri, ufficiali di coperta e capitani.

I marinai dell’ex blocco sovietico
Il boom è arrivato al momento giusto per i marinai provenienti dall’ex blocco sovietico. Mentre molti loro compatrioti facevano fatica a salvare professionalità e occupazione nella società capitalista, gli ufficiali della marina mercantile della Polonia, delle repubbliche baltiche e dell’ex Ddr erano accolti a braccia aperte. Non solo il primo ufficiale ma anche il primo e secondo ufficiale di macchina e uno dei due meccanici della Msc Texas sono originari dell’ex Ddr: sono tornati tutti alla navigazione dopo aver provato altre attività. Questo tuttavia non basta a soddisfare la richiesta di marittimi: per riempire le lacune, le scuole nautiche lanciano campagne di arruolamento e le compagnie di navigazione propongono corsi di tedesco per gli ufficiali nautici dell’Unione europea.

Il comandante Trümper non si fida molto del boom. “Sovracapacità”, osserva con noncuranza. “Prima o poi crollerà tutto”. Come nell’aviazione, è una lotta tra simili: può crescere solo chi assorbe un concorrente. Presto i cinesi saranno in grado di trasportare da soli e in modo più conveniente le loro merci: hanno già due società di navigazione di stato, la Cosco e la China Shipping. Intanto, però, la Germania è diventata una delle nazioni di punta nel settore della navigazione mercantile: un terzo delle tremila portacontainer che navigano ogni giorno nelle acque del globo fanno capo a società di navigazione tedesche. I tassi di sviluppo nel trasporto marittimo sono ancora a due cifre, le previsioni sono brillanti, i posti di lavoro assicurati. La Cina produce e il mondo consuma.

Tuttavia non è solo la straordinaria produttività della Cina a tenere gli americani con il fiato sospeso. L’anno scorso il gigante asiatico ha spedito container pieni di merci in tutto il mondo al ritmo di uno al secondo, praticamente ventiquattr’ore su ventiquattro. Ogni anno undici milioni di questi container arrivano sulle coste americane, nel paese in cui perfino i turisti in visita devono farsi prendere le impronte digitali e lasciarsi fotografare. I critici non ci hanno messo molto a sottolineare che i terroristi potrebbero introdurre con meno difficoltà un’atomica “sporca” nel paese sfruttando i porti, invece di passare per le frontiere sottoposte al controllo dell’immigrazione e per gli aeroporti. Come fare allora a controllare e a sorvegliare milioni di scatole d’acciaio?

Msc Texas. A destra: il guardiamarina Lars Hoffsommer.

È vero che le autorità di frontiera americane richiedono l’elenco delle merci contenute in ogni container destinato agli Stati Uniti: il documento deve essere trasmesso in forma elettronica ventiquattr’ore prima del carico sulla nave. Se notano qualcosa di allarmante, possono chiedere al porto straniero di verificare il contenuto del container o rifiutarne l’importazione. Oltre a questa misura obbligatoria c’è un accordo volontario che garantisce procedure più scorrevoli allo spedizioniere se s’impegna a rispettare le misure di sicurezza delle autorità statunitensi. è un’offerta di cui approfittano tutti i grandi importatori. Resta il fatto, però, che il trasporto di un container può coinvolgere più di venti soggetti: gli acquirenti e i venditori delle merci, il trasportatore, la linea marittima, l’ufficiale del dazio, il doganiere, i broker marittimi, gli investitori e i funzionari governativi. Una singola transazione può produrre più di 36 documenti, ciascuno dei quali riguarda merci per diversi clienti. Questo vuol dire che per ogni nave vengono prodotte decine di migliaia di documenti. Ci sono abbastanza opportunità, quindi, di falsificarne uno per contrabbandare in un container merce illecita.

Se ci si mette nei panni di un terrorista, non c’è che l’imbarazzo della scelta su chi avere come complice: lo spedizioniere o l’impiegato del magazzino, il portuale o i suoi superiori. È vero che le aree portuali adibite alla movimentazione dei container sono sempre protette da alti recinti, ma a causa della loro grandezza hanno degli accessi di servizio difficili da sorvegliare, buchi e porte che restano aperte per sbaglio. La maggior parte dei camionisti nei porti sono latinoamericani e, in molti casi, si tratta di immigrati clandestini. Se dovessero essere controllati tutti rigorosamente, mi ha confessato Bill Brush, della Custom and border protection, a Long Beach ci sarebbe una spaventosa mancanza di autisti. I piani per dotare tutti i trasportatori di documenti a prova di falsificazione sono rimasti sulla carta, così come l’idea di installare nei container dei sensori che registrino luogo, temperatura, irradiazione e contenuto di anidride carbonica, cioè valori in grado di fornire indizi sulla presenza di materiale pericoloso. È tutto troppo complicato.

I marittimi della Msc Texas ci vedono solo il disperato tentativo di mostrare che si sta facendo qualcosa. Ma in realtà è un’altra seccatura per loro e, soprattutto, una maggiore quantità di quella cosa che più odiano: le scartoffie. E poi c’è anche la faccenda delle radiazioni. Tutti i container passano attraverso un portale che misura i raggi gamma, ma il problema è che molti materiali del tutto innocui emettono radiazioni naturali capaci di far scattare l’allarme: per esempio la maiolica, la terracotta e la sabbia per i gatti. Molti sensori sono troppo rozzi per distinguere tra i vari tipi di radiazione e per questo reagiscono al materiale fissile nucleare allo stesso modo in cui scattano per l’acciaio contaminato o per le banane, che emettono una radiazione dell’isotopo di potassio-40. Quanto più sono frequenti questi allarmi per le radiazioni, tanto maggiore è il rischio che non siano presi sul serio.

I porti come Long Beach sono i luoghi in cui si concentrano le paure e le preoccupazioni delle superpotenze mondiali: la preoccupazione per la sfida cinese e la paura del terrorismo. La protezione che i due oceani hanno assicurato per tanto tempo agli Stati Uniti si è dimostrata ingannevole, e la sensazione che i barbari siano alle porte sta aumentando come ai tempi dell’antica Roma.

A bordo non c’erano molte distrazioni. C’era una gerarchia di tipo militare: ogni parola è un ordine

Al confronto le mie preoccupazioni personali erano di poco conto. Ho dovuto presentare un certificato medico e sottoscrivere una dichiarazione in cui assicuravo che in caso di mio decesso né il comandante né la società di navigazione sarebbero stati chiamati a rispondere del fatto che la Msc Texas non aveva un medico di bordo. Inoltre ho dovuto farmi vaccinare contro la febbre gialla, non perché questa malattia sia endemica in Cina ma perché è una vaccinazione obbligatoria per gli equipaggi dei cargo mercantili. La vaccinazione l’ho fatta nella sede dei servizi sanitari di Santa Rosa, dove una simpatica signora mi ha informato su tutti i possibili e immaginabili rischi sanitari in Cina, e mi ha consegnato un voluminoso prontuario in cui erano elencate malattie dai sintomi così spaventosi che solo a leggerlo mi sono venute le pustole. Alla fine mi ha chiesto se prevedevo di avere rapporti sessuali in Cina. Era, come avrei capito in seguito, una domanda molto ragionevole.

Lunedì alle sei di mattina la nave ha mollato gli ormeggi da Oakland e ha puntato verso il mare aperto. Le banchine del porto erano deserte, non c’era ancora nessuno in giro. Solo un paio di luci intermittenti gialle continuavano a funzionare. Cominciava appena a schiarire: le gru a cavaliere si stagliavano come profili di forbici contro il cielo, che all’orizzonte andava tingendosi di arancione e blu. L’estremità del Golden Gate verso cui facevamo rotta stava per essere inghiottita dalla nebbia, che calava pigramente dalle colline e scintillava come zucchero filato sotto i primi raggi di sole. Lo skyline di San Francisco era quasi scomparso alle nostre spalle, mentre a babordo il faro mandava i suoi lampi di luce oltre il mare. Poi siamo passati accanto ad Alcatraz, la prigione dove Al Capone ha trascorso gli ultimi anni della sua vita e da cui si dice che nessun detenuto sia mai riuscito a evadere.

Davanti a noi si è presentata la più grande massa d’acqua del pianeta: un’infinita distesa verde smorto e azzurro acciaio sotto il cielo ancora grigio. Si vedevano le ultime boe e i gabbiani, che accompagnano sempre le navi in partenza, come se non fossero disposti ad ammettere che la Msc Texas e il suo equipaggio avrebbero trovato la rotta giusta in quel deserto d’acqua.

Ho rivolto un ultimo sguardo ad Alcatraz. Ora non era più possibile tornare indietro, non avevo altra scelta che restare a bordo. Non c’era altro che potessi o dovessi fare. Mi sono sentito sopraffatto da una sensazione di felicità. O forse di libertà.

Separati dalle famiglie
Quando si chiede a un marinaio com’è la vita sulla nave, spesso risponde con questa battuta: è la prigione che mi sono scelto. Ciascuno dei 25 uomini a bordo della Msc Texas ha scelto di imbarcarsi per dei motivi particolari, ma tutti hanno almeno una cosa in comune: hanno accettato di restare separati a lungo dalla moglie e dai figli. Gli ufficiali tedeschi, gli ufficiali di macchina e i macchinisti restano lontano da casa fino a sei mesi all’anno; i marinai filippini, che qui guadagnano molto più che in patria, fino a nove. è il prezzo da pagare per sostenere le loro famiglie.

Tutti hanno in comune anche la passione per il mare. Il comandante Trümper ha avuto il suo primo imbarco da ragazzo, su un cargo diretto in Sudamerica, prima di riuscire a ottenere il brevetto. Suo padre, un agricoltore, gli aveva permesso di frequentare il liceo nautico. I matrimoni della maggior parte dei suoi colleghi, racconta Trümper, sono andati in frantumi. Il suo ha tenuto, ma ha dovuto promettere alla moglie che smetterà di navigare. Suo figlio, invece, non ha mai capito cosa ci trovi di bello in quella vita. Trümper sogna una barca a vela con cui poter navigare ogni tanto quando andrà in pensione.

Lo capisco benissimo. Non vedere per giorni altro che l’acqua e le nuvole è tranquillizzante e allo stesso tempo eccitante. Non c’è un attimo che sia uguale
all’altro, cielo e mare sembrano un organismo che assume continuamente forme e colori nuovi. Come il deserto e i ghiacci eterni, anche l’oceano diventa lo specchio dell’anima: ma per accorgersene bisogna avere l’occasione di restare soli. E una traversata del Pacifico dalla costa occidentale americana a quella cinese offre molte opportunità.

A bordo non c’erano molte distrazioni. C’era un’organizzazione di tipo militare: ogni parola era un ordine, anche se di solito i superiori andavano in giro in tuta sportiva (tengono in serbo l’uniforme gallonata per il momento dell’approdo). Master Trümper non dava del tu a nessuno dei suoi ufficiali, per principio. è un tipo che ama la solitudine, ma è anche un profondo conoscitore della natura umana. Era abbastanza soddisfatto del suo attuale equipaggio: sono tutti veri marinai, a differenza della nuova generazione di “operai” e “tranvieri” che comincia a prevalere nel mondo delle porta­container.

Msc Texas. Questo cargo è lungo tre campi da calcio.

Due volte al giorno facevo il giro del ponte superiore, un percorso di quasi un chilometro che passa sotto i container ordinatamente disposti accanto al parapetto. Di solito non incontravo anima viva. Sotto la poppa della Msc Texas l’elica solleva una turbolenta scia di schiuma bianca, larga come una carreggiata, che si perde in lontananza all’orizzonte. Se qualcuno finisse fuoribordo in quel punto della nave, nessuno potrebbe accorgersene e gettare in mare uno degli anelli di salvataggio con sagola e boetta luminosa che sono a portata di mano ogni due o tre metri.

Il responsabile della sicurezza era l’ufficiale in seconda Elron Jiongco, originario di Bulacan, vicino Manila. Naviga già da 26 anni. Prima di imbarcarsi, aveva avuto appena il tempo di vedere la sua prima nipotina. Jiongco non mangiava nella mensa ufficiali, ma con i suoi connazionali, che secondo lui si trattano meglio a tavola. “Ma non sempre”, ha aggiunto con un sorriso. A volte, infatti, i marinai non permettono a un ufficiale di sedere a tavola con loro.

Sulla Msc Texas ci sono due scialuppe di salvataggio, una per ogni lato della nave. Ognuna può trasportare 34 persone, abbastanza per l’intero equipaggio. Se la nave dovesse inclinarsi, infatti, se ne potrebbe usare solo una. Le scialuppe sono dotate di razzi luminosi, cassette per il pronto soccorso, viveri d’emergenza e serbatoi d’acqua potabile.

Un giorno è scattato il segnale d’allarme, ma si trattava solo di un’esercitazione. è stato simulato un incendio nell’officina della sala macchine: tra l’ululato della sirena, le grida e il gracchiare dei radiotelefoni è partita una squadra di spegnimento rapido. Alla fine tutti i membri dell’equipaggio, obbedendo agli ordini del primo ufficiale, si sono diretti con il casco da lavoro e il giubbetto salvagente verso la scialuppa, dove Udo Wölms ha provato ad avviare il motore. Solo master Trümper è rimasto in plancia: il comandante è sempre l’ultimo ad abbandonare la nave.

Con il mare calmo tutto sembra facile. Ma in caso di maltempo perfino la scialuppa può diventare pericolosa perché, una volta calata in acqua, potrebbe sfracellarsi contro la murata della nave. Per questo il cargo viene abbandonato solo in caso di estrema necessità: spesso è il posto migliore in cui sopravvivere a una catastrofe. Ed è anche quello più comodo, dato che nella scialuppa non c’è il bagno. Per eventuali bisogni, ha suggerito Wölms, si può usare il casco.

I cargo come la Msc Texas inviano in continuazione un segnale radio con delle informazioni che permettono di identificare la nave, la sua posizione e la rotta. Grazie al sistema Ais (automatic identification system), inoltre, è possibile sapere quali navi si trovano nei dintorni. Ma la mia speranza di incontrarne almeno una è rimasta delusa. Niente dimostra l’immensità del Pacifico più del fatto che in questo trafficatissimo oceano non sono riuscito ad avvistare una sola nave in due settimane.

La scoperta dell’America
È un’ironia della sorte il fatto che oggi il Pacifico sia diventato l’autostrada tra due coste che si sono ignorate per millenni. In un certo senso, prima del 1500
quest’oceano non esisteva ancora: gli abitanti della costa asiatica non sapevano fino a dove arrivasse, mentre gli europei si accorsero della sua esistenza solo dopo la scoperta dell’America. Vasco Núñez de Balboa, che nel 1513 attraversò l’istmo di Panama, fu il primo europeo a dare la notizia che a occidente del nuovo mondo c’era un altro oceano. Gli spagnoli ripetevano il viaggio ogni anno: lo attraversavano con i loro galeoni, affrontando una navigazione che durava da novanta a cento giorni, per rifornire le loro colonie nelle Filippine e caricare le navi con spezie e oro. Anche allora, però, molti credevano che i continenti dell’America e dell’Asia fossero uniti e che il Pacifico fosse solo un enorme golfo.

Tutte le mappe di questo oceano sono efficaci illustrazioni dell’horror vacui umano. Il fatto che un territorio così grande contenesse solo acqua era difficile da accettare per i cartografi, che riempivano il deserto acqueo con terre inesistenti. Company Land, Terra Essonis, Lesso erano i nomi con cui veniva indicato il gigantesco continente al centro del Pacifico: una delle più tenaci fantasmagorie della storia della cartografia. Per fare definitivamente chiarezza furono necessari i tre viaggi del capitano James Cook nella seconda metà del settecento. Questo, però, non impedì al geografo svizzero Samuel Engel, nel suo libro dedicato ai viaggi di Cook, di presentare Asia e America come due continenti separati solo da un sottile canale.

Engel, tuttavia, merita di essere considerato un profeta: ha attribuito allo specchio d’acqua tra Cina e America le dimensioni che la globalizzazione gli avrebbe fatto assumere due secoli dopo. Una volta i cinesi consideravano il loro paese il centro del mondo. Il loro sguardo era rivolto all’interno: percorrevano il Pacifico solo per andare alla ricerca dell’erba che conferisce l’immortalità. Speravano di trovarla nelle “isole benedette”, probabilmente il Giappone. In quella grande acqua che li unisce al resto del mondo non hanno ancora trovato l’erba miracolosa, ma si sono procurati la ricetta per far fiorire il commercio: per ogni paio di scarpe sportive venduto negli Stati Uniti per 50 dollari i costi di trasporto arrivano al massimo a 75 centesimi.

Oakland, Stati Uniti. Le gru per il carico dei container.

Il Pacifico contiene la metà di tutta la massa d’acqua del pianeta. Con la Fossa delle Marianne è anche il mare più profondo del globo: se ci sprofondasse il monte Everest, la vetta resterebbe sommersa da oltre due chilometri d’acqua. Questo, però, non significa che non ci siano, perfino in mezzo all’oceano, dei bassi fondali. Quando ho visitato il ponte di comando e ho potuto seguire la piccola freccia che rappresentava la nostra nave nella sua lenta avanzata sulla carta elettronica, non credevo ai miei occhi: avevamo superato un punto in cui il mare era profondo appena una decina di metri. Era la vetta più alta di una catena vulcanica rispetto alla quale le Alpi sono delle catene montuose insignificanti. Sarebbe bastato un errore di navigazione per far finire la Msc Texas contro quelle rocce.

Nella mia cabina ho appeso una carta su cui avevo segnato le fosse, le catene montuose, le pianure e le vallate sulle quali stavamo avanzando. Lo specchio d’acqua dell’oceano è piano solo in apparenza: le immagini dal satellite mostrano come un vulcano sottomarino alto duemila metri e con un diametro di quaranta chilometri crei una discontinuità gravitazionale che forma nell’acqua un avvallamento di due metri.

Nel corso del tempo gli scienziati hanno scoperto sempre più cose: oltre alle carte nautiche, che riportano statistiche dei venti e delle correnti consentendo di ridurre i tempi di traversata, sono stati raccolti dati sui campi magnetici, sulle variazioni della salinità e del contenuto di ossigeno, sulle profondità, sulle forme di vita negli abissi. Sono stati prelevati campioni della crosta terrestre e, grazie alle tecniche sonar e satellitari, è stato possibile mappare accuratamente i fondali marini. Così accuratamente che un certo Lloyd Stewart Carpenter, “cartografo” e “inventore”, al volgere del millennio ha potuto presentare una scoperta epocale: l’intero oceano Pacifico è un viso, il profilo di un uomo che piange. Un messaggio di Dio, se non addirittura il suo volto corrucciato, come sostiene questo visionario religioso, che ha rielaborato alla luce delle attuali conoscenze scientifiche le fantasie alimentate dal Pacifico.

Una discarica a cielo aperto
Nel frattempo una delle più incredibili fantasie dei suoi predecessori è diventata realtà. Il continente che i cartografi da sempre avevano collocato in mezzo
all’oceano esiste realmente, è grande come la Germania ed è fatto di immondizia. è la Great Pacific garbage patch (la grande chiazza di spazzatura del Pacifico), che si estende tra la California e il Giappone, nei dintorni delle isole Hawaii. In questa zona di convergenza subtropicale si forma una spirale di correnti che raccoglie i rifiuti galleggianti delle coste dell’America, dell’Asia, dell’Australia e della Russia: un tappeto di sacchetti di plastica, reti, corde, tavolette, bottiglie, giocattoli, spazzolini da denti, bombolette spray, cannocchiali, coperchi, accendini, applicatori di tampax, ricambi d’auto, palloni da basket, bustine di eroina e altro, per un peso complessivo stimato di 3,5 milioni di tonnellate. Il più grande oceano del globo è anche la sua più grande discarica a cielo aperto. Uccelli, mammiferi marini e pesci muoiono perché ingeriscono quei rifiuti o ci restano intrappolati. In un articolo ho visto l’immagine di una testuggine marina la cui possente corazza è rimasta deformata perché, quando era piccola, si era impigliata in un cappio di plastica. Un’immagine raccapricciante. Carpenter aveva ragione: chiunque sia rappresentato sul fondale dell’oceano Pacifico – Dio, Gesù o Al Gore – ha buoni motivi per piangere.

Lungo la rotta della Msc Texas non abbiamo incontrato rifiuti, anzi l’acqua era di un blu splendido, trasparente e calda. Per questo Udo Wölms non ha esitato a invitare a bordo il Pacifico: ha fatto riempire la piscina accanto alla palestra e io mi sono ritrovato a bagno nella fresca acqua di mare, come un’aringa in scatola. Sul fondo della piscina sentivo sotto i piedi nudi le vibrazioni della sala macchine. A volte mi svegliavo di notte e ascoltavo il pulsare del motore che spinge questa enorme canoa attraverso i flutti. Doveva essere proprio una macchina colossale. Il primo e secondo ufficiale di macchina, Siegfried Küter e Holger Wust, mi hanno guidato per una ripida scala di ferro, su e giù per corridoi e passerelle, attraverso gli inferi della nave, in cui regnano calore, frastuono, sibili e rumori. Ci vogliono undici uomini per far funzionare il motore: in gergo li chiamano “spiriti delle cantine”, “piedi oliati” o semplicemente “neri”.

Küter e Wust, uno basso e l’altro spilungone, formano una squadra ben affiatata. Entrambi provengono dall’ex Ddr. Mentre Wust è tornato alla navigazione solo di recente, Küter non l’ha mai abbandonata. Per entrambi la navigazione mercantile è stata un’opportunità per vedere il mondo: i porti del Pireo, dell’Africa occidentale, del Vietnam e della Cina. Un tempo solo chi aveva famiglia poteva andare per mare: era la garanzia che non avrebbe tagliato la corda. Quei tempi sono passati. Oggi Wust è tenuto d’occhio solo dal suo pappagallo, che parla e se la prende a male quando lui sta via per troppo tempo.

Sorvegliano il loro regno con evidente fierezza. “L’accuratezza tecnica dell’ingegneria è una dote che continuiamo a coltivare”, ha osservato Wust. Certo, è un concetto fuori moda che contraddistingue chi si occupa di meccanica. La sala macchine è il luogo in cui ci si rende conto che la nave è un organismo vivente e il motore è ciò che la tiene in vita: dall’aria condizionata al sistema idraulico, tutto dipende dal funzionamento della sala macchine. La sala di controllo – con i monitor dei computer, gli strumenti, gli indicatori, le lampadine, i regolatori, gli interruttori e le leve – è così imponente che se quei due mi avessero detto che da lì potevano lanciare un razzo sulla Luna ci avrei creduto.

Msc Texas. Il comandante Horst Trümper (a destra) e al suo fianco il primo ufficiale Udo Wölms.

“Fa un certo effetto, no?”, mi ha chiesto Küter raggiante, con le mani puntate sui fianchi e le cuffie antirumore in posizione da Topolino. Avevamo appena finito il nostro giro d’ispezione del motore centrale, un dodici cilindri diesel con pistoni grandi quanto un’utilitaria e cinque volte più pesanti. Ha una potenza che corrisponde a più di 93mila cavalli. E consuma di conseguenza: a pieno carico la Msc Texas brucia circa 250 tonnellate di gasolio al giorno.

I mostruosi serbatoi per il carburante, il grasso, l’acqua potabile, l’acqua di zavorra, le caldaie, gli scambiatori di calore, i tubi grossi come silos o i ventilatori, assordanti e grandi quanto una stanza, che risucchiano l’aria dall’esterno per il motore principale: niente ha dimensioni umane. Mi ha colpito la vista di una montagna di gusci di nocciole, come se un esercito di milioni di scoiattoli avesse deciso di sfamarsi proprio in quel punto. “Granulato di gusci di nocciole”, mi ha spiegato Wust. “Serve a ripulire le turbine”.

All’occorrenza, si potrebbero sostituire in mare due cilindri insieme ai loro pistoni: l’officina della sala macchine è una specie di piccola fabbrica. Küter e Wust ci hanno costruito, saldando insieme le ceste dei pezzi di ricambio, un forno per affumicare le trote ordinate a Long Beach. E ora le stanno cucinando per la gioia dell’equipaggio. Dal ponte E si diffonde il profumo di carbonella di mesquite, su cui si stanno dorando, a 50 gradi esatti di temperatura, i pesci precedentemente marinati in sale, zucchero e cannella. E per trascorrere le due ore che richiede la procedura, non c’è niente di meglio di un paio di birre.

La plancia di comando è l’esatto contrario della sala controllo macchine. Il suo aspetto non è meno complicato di quello della cabina di un Jumbo, con la differenza che la console è disposta in spazi più ampi. C’è spazio in abbondanza per monitor radar, schermi per la cartografia, strumenti di misurazione, stampanti, bussole e bottoni di ogni genere, compreso “l’allarme dell’uomo morto”: è un dispositivo che, se non viene disinnescato ogni venti minuti dall’ufficiale in turno di guardia, fa suonare un campanello che tira giù dal letto il comandante.

Il tifone Danas
Nonostante tutti gli automatismi, la macchina non può sostituire gli uomini. Un giorno master Trümper ci ha avvisato che era in arrivo il maltempo: un tifone di nome Danas che infuriava da qualche parte intorno al Giappone. Sono andato tutto speranzoso sul ponte, pregustando una vera avventura marinaresca con onde alte come case che si abbattono sulla nave, spazzano via dal ponte i container, affondano il cargo, mentre io riesco ad aggrapparmi a una di quelle scatole di latta e, unico superstite, approdo su un’isola paradisiaca solo soletto come Robinson Crusoe.

Era cominciata proprio bene. Le vetrate della plancia erano sferzate da un diluvio di pioggia, e i loro sedici tergicristalli si muovevano avanti e indietro in sincrono. La prua era oltre il limite di visibilità e dense falde di nebbia strisciavano sul carico. Ogni tanto facevamo suonare la sirena: eravamo in rotta di collisione con delle grandi chiazze gialle che apparivano sullo schermo radar. “Pioggia”, mi ha spiegato uno degli ufficiali prima che master Trümper mi mandasse via dalla plancia: era necessaria la massima concentrazione e quello non era il posto adatto a un passeggero. In fin dei conti, lo strumento che consente di vedere meglio sono gli occhi. Secondo Trümper, infatti, il radar può ingannare. Poi il maltempo si è calmato, e così anche il sogno del naufragio romantico è svanito.

Ma anche gli occhi ingannano, non solo i radar. Nelle giornate serene il mare, visto dal cassero, sembrava liscio come l’olio, calmo e trasparente. Bastava scendere più in basso, però, per scoprire che le onde erano alte anche cinque metri. Per la Msc Texas erano solo una lieve increspatura: se di tanto in tanto la nave rollava lievemente, lo faceva con la cautela con cui una mamma culla il suo bambino addormentato.

È ingannevole anche il senso di sicurezza suscitato dall’elettronica. Devono tenerlo presente soprattutto i novellini. Come agli altri ufficiali, anche al guardiamarina Lars Hoffsommer, che ha la patente di capitano in tasca, manca ancora l’esperienza necessaria per assumersi la responsabilità di un cargo come la Msc Texas. Hoffsommer, che sembra un gigante, è cresciuto ad Amburgo. Suo bisnonno era comandante, il nonno pure, mentre il padre era un costruttore navale. Ha fatto le scuole commerciali, ha studiato un po’ di economia aziendale, ma poi non ha saputo resistere all’attrazione del mare. La sua fidanzata ha dovuto rassegnarsi. Quando si rivedono, mi ha confidato con emozione, è sempre come una luna di miele.

Hoffsommer, quarto ufficiale di rotta, doveva fare le guardie di notte. Gli ho fatto compagnia volentieri. Il cielo stellato sul Pacifico sembrava una luminaria natalizia: nell’oceano non c’è inquinamento luminoso né smog che offuschino l’atmosfera. Hoffsommer mi racconta di aver visto balene, pesci volanti e una stella cadente. “Quando è così, ti si scalda il cuore”, mi ha detto.

Nei film sentimentali le condizioni atmosferiche servono a sottolineare gli stati d’animo dei protagonisti. Ma quando non c’è nient’altro che il maltempo, è quest’ultimo a diventare il protagonista. Chi non ha mai contemplato una strana formazione di nuvole, una bella duna, un affascinante effetto di luci? A volte l’oceano è grigioazzurro, scuro, trapassa senza soluzione di continuità nel cielo, come se fosse indeciso tra malinconia e scoppio di collera. Poi sonnecchia di nuovo placato, sotto una coltre di nubi candida come le piume: quando questa si schiude, nell’acqua si riflette un cielo azzurro tenero, che risplende fresco come un colore appena mescolato sulla tavolozza degli acquarelli. Sulla terraferma il paesaggio cambia seguendo i nostri movimenti, mentre sul mare cambia anche quando si sta fermi. Lentamente, alla moviola, oppure vertiginosamente, come quando si manda avanti alla massima velocità un video.

Chi va per mare vede cose che l’uomo di terra non vede. Le onde non sono onde: raccontano una storia, forniscono indizi su quello che sta succedendo sopra e sotto l’acqua. Una volta master Trümper mi ha indicato un punto che per me non aveva niente di speciale. Sosteneva che lì era successo qualcosa, mentre io pensavo che volesse prendermi in giro. Poi, però, il secondo ufficiale Elron Jiongco mi ha detto che lì c’erano dei delfini. Io non riuscivo a distinguerli in mezzo a quel mare dai riflessi metallici e allora mi sono reso conto che mi mancava l’occhio. Alla fine sono riuscito a scorgere una pinna della coda, prima che sparissero definitivamente.

Distanti dal pianeta
In questo mondo si resta stranamente distanti dal resto del pianeta. Certo, la Msc Texas riceve di continuo notizie via satellite, ma i titoli sembrano provenire da un’altra galassia: “Gravi scontri armati nel Congo orientale”, “Lo scandalo delle carni avariate”, “Le estrazioni del lotto”. Il tema favorito dell’equipaggio resta la Cina. Da bravi tedeschi, gli ufficiali hanno una certa propensione per le visioni apocalittiche. Ma più ancora della velocità con cui il gigante asiatico fa nascere dal nulla industrie e città, li impressiona l’indifferenza dei loro connazionali. Questi ufficiali hanno visto qualcosa a cui nessuno in Germania vuole credere davvero. Hanno capito che è in atto un cambiamento epocale: forse non è il tramonto dell’occidente, ma quanto meno una sua completa trasformazione.

Se ne parla in mensa, davanti al caffè nell’ufficio della nave o la domenica quando si “va in chiesa”, cioè quando ci s’incontra nel quadrato degli ufficiali per una birra. Gli alcolici vanno chiesti a master Trümper: a bordo non si beve molto e le mie riminiscenze d’infanzia dell’Isola del tesoro con i pirati che cantano “yo-ho-ho… e una bottiglia di rhum!” sono rimaste quello che erano: bella letteratura. Può succedere in qualsiasi momento qualcosa e tutti devono essere pronti. Ma a differenza di una volta si possono portare a bordo le donne grazie ai dvd. Il favorito della ciurma è il gruppo britannico-australiano delle Bond: un quartetto di bamboline con i top attillati che suonano come ossesse.

Quando non è il loro turno di guardia, i marinai leggono, guardano dvd o trafficano al computer

Anche le chiacchiere da marinai sono un passatempo molto apprezzato. L’anno scorso una nave gemella, la Msc Napoli, è incappata nel canale della Manica in una tempesta così violenta che lo scafo si è spaccato e ha perso duecento container. Le grosse scatole d’acciaio si sono arenate sulla spiaggia di Branscombe, un piccolo villaggio di cinquecento abitanti. La località è stata invasa da migliaia di persone accorse per fare scorta di pannolini, scarpe da tennis o profumi recuperati dai relitti. Garret Tipping, un ragazzo che sperava di rimediare un paio di scatolette di cibo per cani, ha trovato in una cassa due moto Bmw nuove di zecca e se l’è portate a casa.

Mi hanno raccontato anche le storie di membri dell’equipaggio impazziti, di avarie in sala macchine con i meccanici che sguazzano nell’olio fino alle ginocchia o degli scherzi che si fanno ai mozzi, per esempio chiedendogli di rabboccare l’acqua delle bussole.

Quando non si è di guardia, si legge, si guardano dvd, si traffica con il computer o si fa sport. Io giocavo a ping pong con il primo ufficiale. Udo Wölms è una persona dal talento poliedrico, figura esemplare di una generazione che, cresciuta nel socialismo reale, un bel giorno si è svegliata in un altro mondo e ha dovuto costruirsi ex novo una professionalità. Wölms è ufficiale nautico, perito aziendale, insegnante, webmaster, webdesigner e allenatore di karate. E mi ha dimostrato il suo spirito sportivo lasciandomi arrivare ogni tanto vicino alla vittoria. La sera i filippini si radunavano nel loro quadrato, una bella sala dove si entrava dopo essersi tolti le scarpe. C’erano un televisore, un bar e una batteria su cui uno di loro suonava mentre un altro si esibiva al karaoke imitando, con sincera passione ma anche con autentica incapacità, i maggiori successi della musica pop. Jefferson Patriarca, lo steward, faceva da intermediario tra i filippini e gli ufficiali tedeschi. Si lamentava del fatto che tutto il parentado gli spilla soldi: i genitori si stanno costruendo una casa a Quezon, e perfino la sua sorellina Jessame, di tre anni, una piccola peste che lui adora più di tutti, lo perseguita con le richieste di regali.

I filippini erano preoccupati. A Hong Kong si sarebbe imbarcato un nuovo cuoco, un vietnamita che a loro non andava affatto a genio, tanto che avevano minacciato di suonargliele. Il cuoco attuale, Erwin Felipe, era apprezzato da tutti perché sapeva cucinare il fegato di maiale, gli involtini di cavolo e le frittelle di patate per i tedeschi, ma anche l’adobo o il lapu lapu per i suoi connazionali. Master Trümper aveva dovuto sorbirsi pazientemente le loro lamentele. Anche lui non sembrava felice del cambio, perché niente contribuisce a un buon clima a bordo quanto il cibo. Così aveva consigliato all’equipaggio di scrivere una petizione che lui avrebbe girato alla società armatrice. La traversata volgeva al termine. Non si vedeva ancora terra, ma era già comparsa la prima nave. Si chiamava Saga Frontier e, dopo tutti i giorni trascorsi in solitudine sull’oceano, mi era sembrata così eccitante che non riuscivo a staccare gli occhi dal binocolo. Era in rotta per il Giappone, che si vedeva già emergere dall’orizzonte. Taiwan si avvicinava e le acque cominciavano a brulicare di chiatte, petroliere e di una flotta di pescherecci con nomi tipo Fu Hai o Happy Cloud. Di notte accendevano le loro lampare e risplendevano come fuochi di segnalazione sul mare verde: la Msc Texas si faceva strada tra loro con la premurosa delicatezza di un King Kong alle prese con una fanciulla. L’aria era calda e umida e vibrava del volo di migliaia di libellule che sciamavano intorno alla nave mano a mano che ci avvicinavamo alla costa. Di fronte a Xiamen abbiamo buttato l’ancora e abbiamo aspettato il messaggio del pilota.

La sera, quando siamo entrati nel porto sull’isola del canale di Formosa, le gru da carico erano già pronte a prelevare i container: in Cina si lavora 24 ore su ventiquattro. Il sole si era alzato nel cielo come un pallone rosso, il mare di case si perdeva sotto una coltre di smog. L’acqua era marrone e maleodorante, l’aria era satura di gas di scarico: le leggi ambientali della California erano lontane, non solo geograficamente.

A terra
Sabato 15 settembre ho messo piede a terra per la prima volta: due settimane esatte dopo la partenza. Mi è sembrato che il suolo oscillasse un po’, una sensazione che a bordo non avevo mai percepito davvero. Udo Wölms e io siamo saliti a bordo di un’auto che ci ha portati al ristorante di pesce di Lin Ya, la trattoria di fronte all’ingresso del porto. Lin Ya, che ha 29 anni, ci ha colpiti per il suo fascino basato sul sapiente equilibrio tra distanza professionale e confidenza: esattamente quello di cui hanno bisogno gli uomini dopo un paio di settimane di mare. I prezzi erano buoni e c’erano birra in abbondanza, schede per i telefonini, accesso a internet e un servizio di trasporto per un centro di massaggi. Lin sa cosa piace ai marinai e ci fa i soldi senza farlo pesare.

A Shenzhen non c’è un solo prodotto di marca che non sia stato contraffatto

Lì accanto c’era anche un negozietto di dvd, dove per un dollaro si potevano comprare film di Hollywood che non si distinguevano in niente, neanche per l’avviso antipirateria dell’Fbi, da quelli originali. Si poteva già trovare
l’ultima serie di 24. Quando sono andato a controllare la mia posta elettronica, un giovane venditore di sigarette di contrabbando si è piazzato accanto a me e non ha voluto saperne di staccare lo sguardo dallo schermo. Era solo un assaggio della proverbiale curiosità dei cinesi, che avrebbe reso divertente il mio soggiorno nel paese asiatico.

Il giorno dopo siamo ripartiti per il porto di Chiwan. Insieme a Lars Hoffsommer ho deciso di fare un’escursione a Shekou, la città di cui Chiwan è solo un sobborgo. Lì abbiamo percorso strade con centinaia di negozi, dove si trovavano già le imitazioni dei nuovi modelli di iPod nano che la Apple aveva lanciato sul mercato mentre noi attraversavamo l’oceano. Abbiamo fatto una sosta al Bar del marinaio, dove Hoffsommer voleva cambiare un paio di dvd difettosi, e così ci siamo messi a rovistare nelle casse di video del bar, le cui pareti erano tappezzate dalle foto di centinaia di marinai. Dal soffitto pendevano frutti di plastica, un alberello di Natale illuminato e qua e là si vedeva uno scarafaggio sul pavimento. A più riprese la proprietaria del negozio ha staccato un pezzo di carta igienica ed è venuta ad asciugarmi il sudore dalla fronte.

Poi sono arrivate sei ragazze, appena sbarcate da un minibus nuovo di zecca: piccoline, con i jeans a vita bassa e i reggiseni push-up. Sono venute a strusciarcisi addosso come gattini. Dal nostro gentile rifiuto la titolare ha dedotto che non eravamo soddisfatti della scelta. Così pochi minuti dopo il pulmino è tornato con altre ragazze, che si sono limitate a guardarci finché una ha detto esplicitamente: “I can change clothes for you! (Per te posso anche cambiare i vestiti).

Uno strano contrasto
Le ragazze “dagli occhi a forma di dollaro” della zona economica speciale di Shenzhen non erano le sole pronte ad assaltare la Msc Texas. Per le strade non c’era praticamente nessuno sopra i trent’anni. Gli isolati sembravano appena spuntati dal suolo, i negozi di moda appena aperti, i manifesti pubblicitari ancora umidi di colla. Tutto era fresco, perfino l’aria. Era uno strano contrasto rispetto alla cabina climatizzata della nave portacontainer. Appena salpati, avevo seminato lo scompiglio sulla nave aprendo un oblò per fare entrare l’aria fresca dell’oceano. Quel mio semplice gesto aveva messo in crisi l’impianto di climatizzazione, che garantisce anche il regolare funzionamento dei computer di bordo. Il quarto ufficiale era stato costretto a perlustrare tutta la nave per individuare il responsabile del guasto: il sottoscritto.

Nelle cittadine portuali della Cina l’atmosfera è densa come la gelatina. Il vapore umido dei cibi, dei gas di scappamento e dell’immondizia forma una sostanza che si può quasi toccare con mano. Sono stato sommerso da un’ondata di impressioni dopo tutti quei giorni trascorsi in mare. I venditori gridavano a tutti gli angoli delle strade: a Shenzhen non c’è un solo prodotto di marca che non sia stato contraffatto. Gli americani che scoprono i loro film, i software e i libri in versioni economiche si sentono come Charles Dickens, che un secolo e mezzo fa, durante una visita negli Stati Uniti, aveva scoperto i suoi romanzi in versione pirata.

Shenzhen era un villaggio di pescatori ai piedi delle colline, ma negli ultimi 25 anni è diventata cento volte più grande, registrando il record mondiale di crescita urbana. Den Xiaoping, il successore di Mao che ha avviato la riforma economica, ne ha fatto una zona economica speciale ispirandosi a Singapore, la florida città-stato con il più grande porto per container del mondo. Shenzhen è stata scelta perché si trovava vicino a Hong Kong, a quel tempo ancora colonia britannica, e lontano da Pechino: la metropoli finanziaria sarebbe stata il necessario modello di riferimento, mentre la distanza dalla capitale avrebbe contenuto entro livelli minimi i danni prodotti da un eventuale fallimento dell’esperimento.

L’operazione, invece, ha avuto un successo tale che alle prime quattro zone a economia speciale create nel 1979 ne sono seguite presto delle altre, prima sulla costa e poi nell’interno. In queste zone, sottratte alla sorveglianza del governo centrale, le autorità locali possono definire una politica economica autonoma e offrire incentivi fiscali agli investitori stranieri. Si sono sviluppate così le attività produttive e sono cresciute rapidamente le città, costruite da schiere di operai emigrati dalle campagne e popolate da giovani istruiti e ambiziosi.

Il regime ha bisogno di loro, ma allo stesso tempo teme che sfuggano al suo controllo. La China public security technology, azienda fondata in Florida dal giovane imprenditore Lin Jiang Huai, ha sviluppato un sistema di sorveglianza per Shenzhen. Sono state installate decine di migliaia di videocamere predisposte per il riconoscimento automatico dei visi, e gli abitanti hanno ricevuto delle carte di identità dotate di chip che contengono informazioni come il nome, l’indirizzo, il curriculum lavorativo e scolastico, la religione, l’etnia, la reputazione, l’assicurazione sanitaria, il numero di telefono del padrone di casa, la serietà professionale, le ultime transazioni finanziarie e la solvibilità. Secondo i piani del governo, il sistema sarà adottato presto da tutte le grandi città cinesi.

Hong Kong e Macao amministrano quello che avevano, mentre Shanghai inventa tutto dal nulla

Il delta del fiume delle Perle, nella provincia del Guangdong, dove la Msc Texas consegna i container vuoti e carica quelli pieni, è la fabbrica del pianeta Terra. In questa zona 18 milioni di operai lavorano dodici ore al giorno, per sei e anche sette giorni alla settimana. Guadagnano circa mille dollari all’anno, ma permettono a progettisti, esperti di marketing, ingegneri e commercianti americani di guadagnarne mille alla settimana. Sono più flessibili dei robot, dal momento che non devono essere riprogrammati per realizzare un nuovo prodotto. Uno dei punti di forza della Cina è la sua capacità di fornire manodopera a buon mercato, l’altro è di essere veloce in tutto quello che fa.

Di notte gli scaricatori del porto illuminano il nostro carico con enormi riflettori sotto i quali le gru a cavaliere arancione risplendono come coralli provenienti da un altro pianeta. Vedendo gli impianti portuali di Xiamen, Chiwan e Yantian si capisce quale ruolo epocale svolgano i container nell’economia mondiale. Senza queste scatole la Cina sarebbe ancora ferma all’epoca di Mao: un paese funestato dalle carestie e senza nessuna prospettiva di sedere un giorno al tavolo dei potenti.

Oggi la maggior parte dei container è prodotta in Cina, ma quest’oggetto è un’idea degli americani. L’imprenditore dei trasporti Malcom McLean è stato il primo, nel 1956, a spedire un carico di container per mare. I primi sono stati prodotti per l’esercito statunitense: per la guerra di Corea, infatti, erano stati progettati dei contenitori da trasporto che potessero essere spediti al fronte in treno, su camion o per nave senza dover impiegare troppi soldati per spostarli da un mezzo all’altro. Semplici, impilabili e standardizzati, i container sono una specie di cassetta gigante che nel giro di pochi minuti può essere trasferita da un veicolo all’altro.

Per capire come si lavorava prima nei porti, immaginiamo di dover fare un trasloco e di non aver imballato tutto nelle casse ma di doverci trascinare dietro un carico alla rinfusa su dei carretti. Prima scaricare e caricare richiedeva molto tempo ed era costoso. La spedizione dei container ha rivoluzionato il commercio, perché ha eliminato la distanza come fattore di prezzo, permettendo a paesi come la Cina di sfruttare al meglio la loro forza lavoro a buon mercato. Perfino nel caso di merci ingombranti come i mobili, che Ikea fa produrre in Cina, i costi di trasporto non hanno un ruolo rilevante. I circa 18 milioni di container che ogni giorno viaggiano sui mari del mondo sono i mattoncini Lego di un nuovo ordine mondiale che ha per centro nevralgico l’Asia.

Il principio del Lego riguarda tutto quello che ha a che fare con i container: strade, ferrovie, magazzini e impianti portuali sono dei moduli che richiedono solo di essere composti. I porti mercantili hanno tutti lo stesso aspetto: gru, sollevatori e operai in tuta che dirigono il balletto basato sempre su un’accorta logistica computerizzata. Di diverso, in Cina, c’è la velocità, la tecnologia avanzata e la mancanza di scrupoli nell’attuare i piani di espansione. Il porto di Long Beach ha raggiunto i suoi limiti di costruibilità, ma gli abitanti non vogliono più altre navi, altro traffico e altro inquinamento. La vista dei porti cinesi, invece, ricorda l’epoca del massimo sviluppo industriale in Europa: ogni nuova ciminiera fumante viene celebrata con entusiasmo.

Mentre il “prezzo cinese”, cioè il costo più basso a cui può essere prodotta una merce, sta trasformando l’economia mondiale, l’emissione di sostanze nocive delle fabbriche sta cambiando l’ambiente della Cina. Il simbolo di questa minaccia sono le meduse Nomura, grandi due metri e munite di tentacoli di cinque metri di lunghezza. Si sono moltiplicate grazie ai reflui di scarico ricchi di sostanze nutrienti, e ora minacciano i salmoni e gli sgombri pinna gialla. Venti delle trenta città più inquinate del pianeta si trovano in Cina. Fino a dieci anni fa al paese bastavano le proprie riserve petrolifere, mentre oggi è diventato il secondo importatore di greggio dopo gli Stati Uniti.

Dopo il nostro arrivo a Hong Kong sono sbarcato. Master Trümper si è addirittura emozionato: il suo unico passeggero era sopravvissuto al viaggio, e lui non aveva avuto bisogno delle scartoffie necessarie in caso di morte. Mi è dispiaciuto lasciare la nave. Anche per questo, forse, Hong Kong mi ha un po’ deluso: la “megalopoli d’Asia” mi è sembrata una vecchia signora che cerca il buio della notte per nascondere le sue rughe. Nelle strade, le persone e le auto lottavano per il poco spazio disponibile. L’ironia della sorte ha voluto che proprio la mancanza di spazio sia diventata un grande fattore di livellamento: i super ricchi con le loro Ferrari sono ancora sorpassati dai carretti a mano con cui gli uomini dai copricapo di bambù raccolgono la carta straccia.

L’ex colonia britannica è stata restituita alla Cina dieci anni fa. è rimasta il principale centro finanziario del sudest asiatico e gode di uno statuto speciale che si basa sul motto “un paese e due sistemi”. Qui Falun Gong, la setta vietata in Cina, ha libertà di culto, mentre Han Dongfang, uno dei leader della protesta soffocata nel sangue a piazza Tiananmen nel 1989, ci può vivere indisturbato. I timori che lo stile di vita occidentale venga stritolato dal drago cinese non si sono avverati, tanto che a Hong Kong ci si chiede con ironia se non sia stata la Cina a essere conquistata.

Ho fatto una breve gita in motoscafo a Macao, l’ex colonia portoghese tornata alla Cina due anni dopo Hong Kong. Macao è la Las Vegas orientale e ha già superato la peccaminosa babilonia americana per quanto riguarda il giro d’affari: oggi il Venetian è il più grande casinò del mondo. La sensazione di saudade,
quell’intraducibile versione portoghese della malinconia cosmica, è ancora presente nelle vecchie viuzze su cui ora si affacciano le sale da gioco. Ma sia a Macao sia a Hong Kong non ci si riesce a liberare da una sensazione di déjà-vu. Solo quando sono arrivato a Shanghai ho capito perché: Hong Kong e Macao amministrano quello che avevano, mentre Shanghai inventa tutto dal nulla.

La regina d’Oriente
Non ero l’unico ad avere scelto come meta Shanghai. Ci stava arrivando anche una certa Wipha. Non era una ragazza, ma un tifone che aveva già scoperchiato i tetti di alcune centinaia di case, bloccando l’approvvigionamento idrico di diverse località costiere, per poi dirigersi verso la città che, a seconda dei punti di vista, è chiamata “regina d’Oriente” o “puttana dell’Asia”. Secondo il quotidiano China Daily, che mi ero messo a leggere in treno, erano state già evacuate due milioni di persone. Ma Wipha sembrava aver perso la voglia di attaccare Shanghai. Quando sono arrivato, la città risplendeva sotto una fresca pioggerellina.

Ci sono diversi modi per capire l’essenza di una città. Per quanto riguarda Shanghai, il migliore è munirsi di una mappa vecchia di un anno. Non ci si troverà niente di quello che è riportato, si vedranno solo cose nuove. Un terzo di tutte le grandi gru per l’edilizia si trovano a Shanghai. Non c’era giorno senza che dalla stanza del mio albergo non vedessi spuntare un nuovo grattacielo. Nel quartiere di Pudong, sulla riva destra del fiume Huangpu, è sorta una Manhattan che mette in ombra il suo modello. Sulla Huaihai Lu, la Fifth avenue di Shanghai, ero abbagliato da un lusso che non ha pari neanche a New York, a Parigi o a Londra. Era sera tardi e faceva caldo. In giro c’erano coppiette molto eleganti. Le donne mettevano in mostra dei capelli lucenti come la seta.

Su entrambi i lati del viale, grande come gli Champs-Elysées, si svolgevano sfilate di moda ed eventi per la promozione di auto di lusso o cucine ultramoderne. Le decorazioni luminose dei grattacieli risplendevano nel cielo notturno come uno sciame di dischi volanti. La sensazione di essere in un mondo nuovo somiglia a un incontro del terzo tipo: il megacapitalismo con il ritratto di Mao sulle banconote.

I cinesi sono fermamente intenzionati a fare di Shanghai la New York del ventunesimo secolo

Ma questo mondo è davvero nuovo? O si tratta solo di un’ulteriore celebrazione del consumismo occidentale? Il ceto medio cinese è composto da duecento milioni di persone, pari a due terzi della popolazione statunitense. Ottanta milioni sono molto ricchi, e tra loro ci sono più di cento miliardari (in dollari). La Cina, infatti, è il secondo paese nella classifica mondiale dei super ricchi dopo gli Stati Uniti. E come gli americani, anche i cinesi amano ostentare la loro ricchezza. Ma la cosa che mi ha colpito di più è che a Shanghai un occidentale si sente a casa e allo stesso tempo avverte l’eccitante sensazione di essere uno straniero. Pasticcerie francesi, bar di tapas spagnoli e ristoranti di sushi giapponesi si trovano a ogni angolo di strada accanto a posti di ristoro ambulanti e ai localini con i menù scritti solo in cinese. Sono entrato in un locale che aveva una parte del menù tradotta in inglese. C’erano nomi di piatti come “testa di pecora alla griglia con lingua pendente”. Assumendo un’espressione da intenditore, ho indicato una riga qualsiasi tra gli ideogrammi: speravo di sfuggire alla testa di pecora, e infatti mi hanno servito un piatto di gamberetti bianchissimi.

Incoraggiato da questo successo mi sono avventurato in uno dei numerosi locali da barbiere, dove uno stuolo di ragazzi e ragazze all’ultima moda servono una clientela altrettanto giovane. Nessuno sapeva l’inglese, ma mi hanno capito al volo quando ho indicato la testa e con le dita ho fatto un gesto che imitava le forbici. Un ragazzo ha cominciato a lavarmi i capelli usando un’intera bottiglia di shampoo. Mi ha massaggiato la testa per un’eternità, alternando un rapido tocco dei polpastrelli sul cranio a un rapido tamburellio, variando la pressione delle dita, disegnando delle forme. Alla fine mi sono addormentato. Quando mi sono svegliato, ero così in forma che sarei riuscito a comprendere la teoria della relatività in un attimo.

Metropoli cosmopolita
Shanghai si è riallacciata al suo passato di metropoli cosmopolita e ora corre veloce come il vento verso il suo futuro di capitale del mondo. Non deve stupire, quindi, che abbia anche il treno più rapido del pianeta: sulla sua linea a levitazione magnetica si viaggia dall’aeroporto di Pudong al centro cittadino a 431 chilometri all’ora. Mi è tornato in mente quello che diceva l’equipaggio tedesco della Msc Texas: il Transrapid, che circola qui da tre anni, è un’invenzione tedesca, ma in Germania è ancora alla fase progettuale. Nel 2014 collegherà l’aeroporto di Monaco di Baviera alla stazione centrale, sempre che nel frattempo si siano placate le proteste e le lamentele.

Uno dei paradossi della storia di Shanghai è che la miseria del suo passato coloniale è diventata il motore di una nuova libertà. Al tempo della Guerra
dell’oppio, i britannici avevano strappato all’imperatore il diritto di gestire il commercio della droga dalla base di Shanghai. Così resero dipendenti
dall’oppio dodici milioni di cinesi e prepararono il terreno per la palude di corruzione degli anni venti e trenta. All’epoca un missionario osservò che se Dio tollerava Shanghai, doveva una spiegazione a Sodoma e Gomorra. Durante la seconda guerra mondiale la città diventò l’approdo dei profughi europei: era l’unica al mondo ad accogliere incondizionatamente gli ebrei.

L’eredità britannica è visibile negli edifici del Bund, un’area che costeggia il fiume, mentre l’influenza dei francesi è evidente nella French Concession, fuori della vecchia cinta di mura. Il panorama architettonico della città è caratterizzato sia dalle vie con gli eleganti edifici italiani e neoclassici sia dai vecchi quartieri cinesi con le case shikumen e la folla formicolante di venditori ambulanti, che tengono in equilibrio sulle spalle due ceste poste alle estremità di un bastone. Shanghai è tornata a essere multiculturale, solo che oggi comandano i cinesi, che sono fermamente intenzionati a fare della loro metropoli la New York del ventunesimo secolo.

I newyorchesi ci sono già. Per esempio in jazz bar come il Cotton Club o in locali come Pane e vino. Si entusiasmano per questa città che gli ricorda l’antica vitalità della Grande Mela, e si sentono i benvenuti. Se a New York bisogna inginocchiarsi davanti a un padrone di casa per prendere in affitto un appartamento sporco, piccolo e costoso, il cinese ti stupisce: magari ti chiede se vuoi altri mobili, un televisore o la tessera di una palestra, e ti accompagna subito per un giro di acquisti, in modo che non ti manchi nulla.

A Shanghai è facile fare amicizia. Sono andato al Renmin park, vicino al mio albergo, dove ho incontrato un gruppo di studenti. Mi hanno circondato, spingendosi per prendere posto accanto a me, e mi hanno tempestato di domande: da dove vengo, com’è il tempo dalle mie parti, cosa ho visto in Cina, se mi piace, se il cibo è di mio gradimento. Facevano esercizio d’inglese: i loro insegnanti dicono che suona ancora troppo chinglish.

Erano gentili, premurosi e ostinati. Quattro di loro mi hanno invitato a una cerimonia del tè. Li Hua, Yang Kai, Yan Yan e Li Ja, tre ragazze e un ragazzo, mi hanno portato in un edificio, dove una giovane donna in abito da cerimonia stava in piedi davanti a una cinquantina di barattoli di tè. Mi hanno spiegato come funziona e mi hanno messo sotto il naso il listino dei prezzi. Abbiamo trascorso un bel pomeriggio, assaggiando qualità di tè squisite ma incredibilmente costose. Ci venivano servite in minuscole ciotoline o tazze che, a seconda dei casi, vanno premute sulle palpebre o strofinate sulla fronte e sul naso. A ogni giro si esclamava gambei, che significa “alla salute”. Ma non dovevo guardarli negli occhi: in Cina non si fa.

Li Hua era la portavoce. Aveva i capelli neri ed era un po’ paffuta. Quando la maestra della cerimonia del tè diceva qualcosa in cinese, io facevo cenno di sì. Lei mi colpiva con il gomito: “Perché fai cenno di sì se non hai capito niente?”. Mi tenevano lezioni di storia cinese e mi prendevano in giro perché non sapevo una parola della loro lingua. Erano informati sul mio mondo più di quanto io lo fossi sul loro. Facevano battute spiritose, erano sorprendentemente disinvolti e soprattutto molto curiosi. Hanno voluto vedere la mia fede matrimoniale, le foto dei miei bambini e non si sono sentiti in imbarazzo a commentarle. Poi mi hanno chiesto se fossi disposto a dare a Li Ja, il ragazzo un po’ timido e imbranato, qualche lezione su come corteggiare una donna. Quando, dopo alcune ore, siamo usciti, Li Hua mi ha abbracciato con il capo chino, e le altre ragazze hanno fatto lo stesso. Quando poi ho abbracciato anche il ragazzo, sono scoppiate in una fragorosa risata.

Mentre parlavo con questi studenti, mi sono reso conto che i cinesi sentono di vivere un rinascimento. Fino al quattrocento il loro paese è stato la prima potenza del pianeta. Ogni volta che ci laviamo i denti con lo spazzolino, che accendiamo un fiammifero o che usiamo la carta igienica, stiamo sfruttando una delle numerose invenzioni dei cinesi. Anche quando il progresso tecnologico si è arrestato per motivi politici, la Cina ha contribuito alla produzione mondiale con una quota da un quarto a un terzo del totale fino all’inizio dell’ottocento. Solo in seguito l’Europa ha preso il posto dell’Asia come centro dell’economia mondiale.

La questione è capire se la Cina, dopo essere diventata la fabbrica del mondo, diventerà anche il suo laboratorio, contendendo all’occidente il primato nella ricerca e nello sviluppo. A suo favore parla la legge dei grandi numeri: la Cina sforna ogni anno circa quattrocentomila ingegneri, gli Stati Uniti cinquemila. Anche ipotizzando che solo una piccola percentuale degli ingegneri cinesi sia altamente qualificata, saranno comunque il doppio degli americani. Fino al 2020, inoltre, la Cina prevede di impiegare una parte consistente del suo pil nella ricerca.

Altre ragioni, tuttavia, portano a pensare che il paese non sarà in grado di pilotare il suo ritorno alla guida dell’economia mondiale anche dal punto di vista tecnologico. Attualmente il gigante asiatico guadagna di più appropriandosi delle tecnologie esistenti che non inventandone di nuove. L’elettronica, per esempio, è come le costruzioni Lego: schermi, cavi, schede e processori sono fatti in modo da funzionare in qualsiasi apparecchiatura, dai computer ai cellulari fino ai lettori mp3. Al momento, il punto di forza della Cina consiste nella combinazione di quello che è disponibile: nel gergo del settore si parla di “innovazione architettonica”. C’è da chiedersi, tuttavia, per quanto tempo durerà. Microsoft e Google hanno aperto dei centri di ricerca e sviluppo in Cina. Sono tutte operazioni che portano nel paese lavoro ad alto valore aggiunto.

Ottimisti e ambiziosi
Le mie conversazioni con un gruppo di studenti cinesi non bastano per formulare delle previsioni, ma mi hanno fornito un’indicazione importante: in Cina le persone non sono meno curiose, ottimiste, ambiziose, consapevoli, affariste e ossessionate dal progresso tecnologico di quelle che vivono negli Stati Uniti. Sono caratteristiche che hanno reso grande l’America e che invece si sono perse nell’Unione europea.

In Cina non mancano né la volontà né la gente. Quello che occorre è il tempo, e la disponibilità del governo a mettere fine alla censura. Com’è possibile che le persone giovani, motivate e innovative si inseriscano nel dibattito globale se non possono neanche consultare Wikipedia?

Ho trascorso l’ultimo giorno prima del mio rientro in California in un museo di Shanghai. C’era una mostra dedicata a Chen Jialing: erano esposte delle chine colorate grandi come vetrine, ancorate alla tradizione ma allo stesso tempo di un’estrema modernità. Queste immagini trasmettevano una quiete simile a quella che si trova nei dipinti di Mark Rothko. Erano leggere, ariose e sospese, al punto da comunicare una specie di assenza di gravità. Forse sarà proprio questo a dare l’impulso decisivo. Quando l’arte di un paese riesce a incantarti fino a questo punto, ho pensato, vuol dire che quel paese ti ha conquistato. La cultura è l’asso pigliatutto nella grande partita per il potere che è appena cominciata. E il fatto che l’arte contemporanea cinese raggiunga quotazioni record non fa che confermarlo.

Ho pensato ai miei giovani amici, che mettevano alla prova con me il loro inglese, e trovo che avevano ragione: è ora di imparare il cinese, la lingua del mondo nuovo.

(Traduzione di Piero Budinich)

Questo articolo è stato pubblicato il 1 agosto 2008 sul numero 755-756-757 di Internazionale.

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