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Il voto dei metalmeccanici sul nuovo contratto riguarda tutti i lavoratori

Maurizio Landini durante l’incontro della Fiom “Mobilitiamoci per il contratto” a Bologna, il 4 aprile 2016. (Massimo Paolone, Lapresse)

L’ultima volta che i metalmeccanici hanno firmato un contratto unitario, nelle loro fabbriche c’erano trecentomila occupati e un quarto di produzione in più, e 185mila ore di cassa integrazione in meno. Queste tre cifre da sole già danno la principale novità del contratto nazionale dei metalmeccanici, siglato dalle parti sociali (Federmeccanica/Assistal, Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil) lo scorso 26 novembre e in questi giorni sottoposto a referendum sui posti di lavoro: il fatto stesso che ci sia il contratto.

Seguono le altre novità, abbastanza corpose benché un po’ nascoste nel dibattito pubblico (complice il fatto che la firma è arrivata in piena campagna referendaria, con l’attenzione pubblica distratta da altro): prima tra tutte, l’ingresso a pieno titolo del welfare nel salario, attraverso la sanità integrativa che fa nascere un colosso di categoria; ma anche attraverso i flexible benefits, in sostanza dei buoni-spesa che possono andare dall’asilo nido ai libri di scuola, un carrello di benefici che in sede aziendale si concorderà come riempire. E poi l’introduzione di 24 ore di formazione per tutti, in tutte le aziende, nei prossimi tre anni; e la riapertura, dopo gli accordi degli anni settanta, del capitolo dell’inquadramento professionale.

Tutte cose che fanno dire ai due protagonisti dell’accordo, Maurizio Landini e Marco Bentivogli, rispettivamente segretario della Fiom e della Fim, di aver ritrovato l’unità guardando avanti e non indietro. Alla Federmeccanica di aver avviato il “rinnovamento culturale” e agli addetti ai lavori di definire l’accordo come il primo contratto dell’industria 4.0. E agli scontenti nell’area dei sindacati autonomi, arricchiti dai fuoriusciti della Fiom, che si tratta di “una controriforma” (Giorgio Cremaschi, Usb).

Tute ex blu al voto
“Al referendum votiamo no per dire che non siamo soddisfatti e vogliamo di più!”. C’è un gran via vai alle due di pomeriggio fuori della StMicroelectronics di Agrate, provincia di Monza-Brianza. Siamo al cambio turno di quella che, in uno dei distretti più produttivi d’Italia, è ormai la più grande fabbrica metalmeccanica della zona (quattromila dipendenti qui in Lombardia, che vanno ad aggiungersi ai tremila di Catania). La St fa componenti elettronici a semiconduttore: proprietà italofrancese, sede in Svizzera e fabbriche un po’ ovunque. Dentro non ci sono catene di montaggio e tute blu ma singole postazioni e le tute bianche a mo’ di scafandro di chi deve maneggiare anche prodotti chimici.

Tra i dipendenti che escono o entrano alla svelta l’età media è abbastanza bassa, e prevalgono gli uomini: anche se nelle foto dell’epoca della fondazione nello stabilimento si intravedono, dietro i tavolini, solo ragazze che sembrano sartine al lavoro, le cui dita parevano più adatte alle lavorazioni minute dei microcomponenti, adesso le cose sono cambiate e per lo più in fabbrica arrivano dalle scuole tecniche, prevalentemente maschili. Sono due ragazze invece le militanti del Sial-Cobas, un’altra sigla del variegato mondo fuori dell’autorganizzazione, che distribuiscono ai cancelli i volantini per il no. Dentro, nella sala mensa, dopo pochi minuti comincia una delle assemblee dedicate alla spiegazione e discussione del contratto, abbastanza affollata poiché è presente il segretario nazionale Fim, Bentivogli.

Certo che è un compromesso. Ogni contratto è per definizione un compromesso, è l’incontro di due parti

Se ne sono svolte a centinaia in tutt’Italia, in vista della tre giorni di voto (dal 19 al 21 dicembre) che deciderà se l’ipotesi di accordo raggiunta dai vertici sindacali e confindustriali il 26 novembre si trasformerà o meno in contratto: un voto vincolante, per tutte le parti. “Anche Federmeccanica ha riconosciuto un principio per noi costitutivo: il contratto diventa efficace solo dopo che la maggioranza dei lavoratori l’ha approvato. Abbiamo riaffermato il valore universale della rappresentanza”, canta vittoria Maurizio Landini.

Che, prima ancora che nel referendum sul jobs act della Cgil della prossima primavera, sulle urne di questi giorni si gioca parecchio: tant’è che qui ad Agrate il primo a prendere la parola, dopo la relazione di Bentivogli, è un delegato interno della Fiom, e parla contro l’accordo. Contesta la logica di quello che chiama “un compromesso”, e poi nel dettaglio: il metodo di calcolo del recupero dell’inflazione nel salario, e il fatto di aver infilato il welfare dentro il contratto e nella retribuzione.

“Compromesso? Certo che è un compromesso. Ogni contratto è per definizione un compromesso, è l’incontro di due parti”, si infiamma il leader della Fim-Cisl che ricorda: “La trattativa, stavolta, non è partita da zero, ma da meno 73”. Settantatré erano gli euro che Federmeccanica, all’inizio, chiedeva indietro dai lavoratori, perché il precedente contratto, quello del 2012, aveva previsto un’inflazione maggiore di quella che poi c’è stata. Contrattare al tempo della deflazione, con una struttura della concertazione tutta pensata per difendersi dall’inflazione, non è per niente facile. Vediamo dunque cosa hanno strappato per la categoria che, nella storia italiana, ha sempre dato il contratto-pilota per l’industria.

Novantadue euro di aumento medio
Il numero magico degli ultimi anni, gli 80 euro celebri dal primo bonus Renzi in poi, c’è anche qui. Sarà di 80 euro lordi l’una tantum in busta paga a marzo 2017. Mentre è a quota 92 l’aumento medio mensile complessivo che si ha mettendo insieme le varie voci del nuovo contratto: l’adeguamento ai prezzi (indice Ipca, depurato dell’inflazione importata dalle variazioni dei prezzi energetici) peserà a regime 51 euro lordi; il resto sarà dato in quelli che ormai tutti chiamano flexible benefits e in sanità e previdenza integrative. In particolare: ogni dipendente avrà 450 euro in tre anni (100 nel 2017, 150 nel 2018 e 200 nel 2019) in buoni-spesa per il welfare, con forme e modi che saranno decisi azienda per azienda; e tutti i metalmeccanici con i loro familiari a carico saranno iscritti a un fondo di assistenza sanitaria integrativa.

Il fondo, che fa capo alla categoria, c’è già e si chiama Metasalute: le imprese, grandi e piccole, verseranno 156 euro all’anno per ogni dipendente – ne avranno diritto anche quelli a termine e in mobilità – per la copertura di ticket e una serie di prestazioni sanitarie. Sale un po’, inoltre, la quota dei versamenti al fondo di previdenza integrativa a carico delle aziende. Completano il tutto due novità che inquadrano questo contratto nel gran parlare d’industria 4.0 e dell’innovazione tecnologica necessaria: 24 ore di formazione per tutti (in tre anni), e la riforma degli inquadramenti professionali, che erano fermi al mondo del 1973. Bentivogli ammette che sì, 24 ore di formazione in tre anni può sembrare un po’ poco per un mondo che sta vivendo la rivoluzione delle macchine, “ma vanno ad aggiungersi alle 150 ore storiche, e la cosa importante è che diventano un diritto di tutti, esigibile, non è l’azienda che decide chi formare e chi tenere da parte”.

Il salario in natura
“Si torna ai premi in natura, al sale come salario”, ha protestato sulla sua pagina Facebook Sergio Bellavita, un sindacalista molto combattivo, “nato” in casa Fiom e adesso militante nell’Unione sindacale di base (Usb). Alla vigilia del referendum l’Usb – tradizionalmente forte nel pubblico ma in espansione nel privato – ha riunito tutti i suoi delegati dell’industria metalmeccanica a Bologna, negando la validità stessa della consultazione. Bentivogli spiega così, all’assemblea della StMicrolectronics, perché si è scelto di contrattare una sostanziosa parte del salario “in natura”: “Se l’azienda ti dà cento euro lordi nel contratto nazionale, in busta paga te ne arrivano 58. Se ti dà gli stessi cento euro nel contratto aziendale, te ne arrivano 85. Ma se ti dà cento euro lordi in flexible benefits, ti arrivano tutti e cento”.

E infatti già negli accordi aziendali, soprattutto delle imprese più grandi, e in altre categorie questo terreno era ampiamente battuto. “Queste cose esistono, non affrontarle significa farle fare ad altri”, dice Landini. Che ci tiene a difendere l’accordo soprattutto sulla questione che sta molto a cuore alla Fiom: il valore universale del welfare. “Noi difendiamo il sistema pubblico, magari potessimo solo con il nostro contratto risolvere tutti i suoi problemi. Il nostro fondo sarà integrativo, non sostitutivo. Potrà dialogare con il servizio pubblico, anche aiutarlo. E soprattutto adesso è per tutti, non lasciato alla discrezione azienda per azienda: diventa un diritto, anche per chi non ha il contratto aziendale e per chi cambia o perde il lavoro. Se non avessimo messo questo tema nel contratto nazionale allora sì, avremmo lasciato spazio alla ridiscussione del servizio sanitario e del sistema previdenziale pubblico”.

Un Landini pragmatico, quello che, se il contratto – com’è probabile – sarà approvato dai lavoratori, terrà a battesimo insieme alle altre parti sociali un nuovo colosso della sanità integrativa, un fondo – cogestito dai sindacati – che in pochi mesi passerà dagli attuali cinquantamila ad almeno un milione di iscritti: “Se tutti i metalmeccanici, e le loro famiglie, avranno la sanità integrativa, il fondo cresce, migliora e questo aumenta il benessere di tutti”.

Industria 4.0
L’ultima indagine congiunturale di Federmeccanica vede un po’ rosa, in un quadro economico che esce dalla catastrofe della crisi. Nei primi nove mesi del 2016 la produzione è aumentata del 2,7 per cento rispetto allo stesso periodo del 2015, spinta soprattutto dalla domanda interna. Non bisogna dimenticare il quadro cupo da cui si esce: rispetto al 2008 la produzione metalmeccanica è scesa del 26,5 per cento, l’occupazione del 18 per cento.

E la recente ripresa non ha trascinato con sé i posti di lavoro: anzi, nello stesso periodo gli addetti nel settore sono scesi dello 0,7 per cento e le ore di cassa integrazione sono tornate a salire del 6,8 per cento. Ciononostante, i dati dall’industria metalmeccanica mostrano un’inversione di tendenza: un segnale positivo, per un settore che non sarà più quello di una volta ma comunque copre il 7,4 per cento del pil e il 5,9 per cento dell’occupazione nazionale.

Se è solo un effetto doping del lieve recupero della domanda e del potere d’acquisto interno, e soprattutto dei superammortamenti della legge di stabilità 2016 (prorogati al 2017), che hanno dato una spinta agli investimenti, lo si vedrà a breve. Intanto però le industrie devono aver sentito la pressione a sbloccare il contratto, dopo un anno di vertenza e venti ore di sciopero. E all’indomani della firma, Federmeccanica – che, ricordiamolo, è priva di un pezzo importante dell’industria metalmeccanica italiana, quella Fiat dentro la quale il contratto aziendale coincide con il nazionale – ha salutato l’accordo nel segno del “rinnovamento culturale”.

Ma cos’è successo, nelle stanze non più fumose delle trattative sindacali, per aver messo d’accordo i falchi di Federmeccanica che all’inizio volevano i soldi indietro, i pragmatici della Fim-Cisl e i lottatori della Fiom che non avevano firmato l’ultimo contratto nazionale ed erano rimasti fuori dall’aziendale Fiat? E, per di più, mentre all’esterno infuriava lo scontro sul sì e no al referendum costituzionale?

“Una trattativa sul merito, tra parti sociali, la politica è rimasta fuori della porta”, concordano tutti.

“Abbiamo ritrovato l’unità sindacale insieme alla democrazia. Ci siamo posti il problema, tutti insieme, di guardare al futuro”, racconta Landini.

“Io e Maurizio, fuori, facevamo campagna su fronti opposti”, dice Bentivogli, “io per il sì al referendum costituzionale, lui per il no. Ma questa cosa non c’entrava con il nostro contratto”. Insieme a Rocco Palombella, segretario della Uilm, sono stati ribattezzati il “trio Metal”, secondo molti in grado di scalare le rispettive confederazioni.

È possibile che tra pochi mesi le loro organizzazioni si ritrovino su barricate opposte, per il sì e per il no al referendum sul jobs act. Ma “nella nostra storia la sovrapposizione con la politica ha sempre portato male”. Meglio lasciare il quadro politico-partitico fuori della porta, conclude Bentivogli, il quarantacinquenne segretario della Fim, la cui filosofia è nel titolo di un libro appena scritto: Abbiamo rovinato l’Italia? Perché l’Italia non può fare a meno del sindacato.

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