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Le serie tv sono davvero femministe?

La fantastica signora Maisel. (Amazon Prime Video)

Ogni tanto mi chiama un’amica che lavora come scout per una casa di produzione per chiedermi se ho dei libri da consigliarle. Libri con protagoniste toste, mi dice, che possano ispirare serie tv. Sembra che oggi mettere al centro un personaggio femminile emancipato sia un prerequisito fondamentale per costruire uno show televisivo di successo: non si può prescindere da donne autodeterminate, realizzate, che fanno mestieri appaganti, a volte perfino donne dure, se non autoritarie e sempre più intelligenti dei loro colleghi maschi. Sdoganate definitivamente le detective, le questore, le poliziotte – del nord, certo, ma ormai anche mediterranee – cominciano a essere numerose perfino le donne in ruoli apicali.

Sono molto amate dal pubblico le storie di protofemministe, come per esempio l’avvocata Lidia Poët, protagonista dell’omonima serie con Matilda De Angelis, o la scienziata di Lezioni di chimica (Brie Larson). Naturalmente si muovono tutte sulla scia del successo di La fantastica signora Maisel, in cui l’autrice Amy Sherman-Palladino racconta una donna degli anni cinquanta che si dedica alla carriera di stand up comedian.

La tv ai tempi del femminismo pop ha prodotto cose innegabilmente buone, a volte memorabili, dando vita a personaggi femminili finalmente complessi. Per esempio serie ormai di culto come The morning show, che si addentrava nei meandri più controversi del movimento #MeToo; o Big little lies che raccontava, tra le altre cose, la violenza di genere all’interno di un mondo borghese e patinato. Possiamo dire a questo punto che le donne hanno smesso di essere bidimensionali, come lo erano sempre nella cultura patriarcale, e non sono più solo sante o puttane, streghe o madonne, mogli, fidanzate, casalinghe, ma diventano le protagoniste delle loro storie: è innegabile che personaggi come Daenerys Targaryen (Il trono di spade) o Fleabag (protagonista dell’omonima serie) abbiano avuto un grosso impatto sulla società e hanno addirittura influenzato l’inconscio collettivo, offrendo qualcosa di completamente nuovo.


Tuttavia, se le donne delle serie non sono più trofei o un insieme di stereotipi, tutti i personaggi femminili elencati fin qui sono a dir poco irrisolti dal punto di vista sentimentale. E forse lo sono proprio perché il femminismo non ha troppo fatto i conti con “il sogno d’amore”, come direbbe la teorica femminista Lea Melandri. Ci troviamo quasi sempre di fronte a donne in crisi, con il cuore spezzato, abbandonate, tradite o impegnate in un rapporto d’amore infelice oppure asimmetrico. Realizzate sul lavoro ma sottomesse nella vita sentimentale, a capo di imprese straordinarie, ma tradite da uomini senza fascino, sfolgoranti in pubblico, disperate nella sfera privata.

Mi viene in mente, per esempio, la adorabile Rebecca Welton (Hannah Waddingham) di Ted Lasso, presidente della squadra di calcio in Premier league allenata da Lasso, boss all’apparenza tutta d’un pezzo, che si rivela però insicura come un cucciolo appena si tratta di avere una relazione, dopo la batosta del divorzio dall’ex marito potente e misogino. È lecito dunque domandarsi se il femminismo sia riuscito a imporre modelli di donne emancipate anche in amore o in fondo a noi spettatrici non dispiace affatto soffrire con loro e identificarci? E ancora: il conflitto amoroso è ancora quello che funziona di più dal punto di vista dell’arco narrativo?

Se è vero che “tutte le storie sono storie d’amore”, come ha scritto il romanziere irlandese Robert McLiam Wilson, o comunque tutte le storie sono storie di trasformazione, allora è chiaro che “è sempre necessario un conflitto, un problema da risolvere che comporta un cambiamento”, dice Marina Pierri, autrice di Eroine. Come i personaggi delle serie tv possono aiutarci a fiorire (Tlon 2020). “C’è poi un secondo tema, che è principalmente italiano e riguarda la gradevolezza dei personaggi femminili: le eroine devono essere amabili, aggraziate”, aggiunge Pierri. “Va bene una protagonista tosta, ma dev’essere ammorbidita dalla sua dedizione, dal suo appartenere al reame delle donne”.


Penso subito a Lolita Lobosco, la vicequestora protagonista dell’omonima serie tratta dal ciclo di romanzi di Gabriella Genisi: donna forte, più brava dei colleghi maschi suoi sottoposti, ma problematica e infelice nelle relazioni con gli uomini. “Per quanto riguarda il mercato italiano”, continua Pierri, “ è ancora difficile costruire un’antieroina, una Fleabag. C’è una richiesta economica che impone di attirare un pubblico molto largo. In generale, nella serialità televisiva, è vero che a una felicità professionale dei personaggi femminili corrisponde un’infelicità sentimentale. Oggi abbiamo una pluralità di punti di vista femminili, ma ricordiamo che personaggi come Jessica Fletcher (La signora in giallo, ndr), la cui unica debolezza era l’amore per la scrittura, erano già modernissimi e forse oggi non abbiamo nessuno come lei”.

Ma sono davvero così numerose le protagoniste nelle serie tv? E le registe e le sceneggiatrici sono di più rispetto al passato? In Italia il film di Paola Cortellesi C’è ancora domani è stato campione d’incassi, ma sono ancora pochissime le donne dietro la macchina da presa. Negli Stati Uniti, lo abbiamo appena visto con la consegna degli Oscar, il cinema è ancora abbastanza inaccessibile per le donne, nonostante il fenomeno Barbie, che ha sbancato al botteghino, ma non all’Academy. Dal 1929 a oggi le donne che hanno vinto la statuetta per la miglior regia sono state due. In 77 anni di Golden Globes sono state solo due donne le premiate per la migliore regia.

Secondo i dati diffusi da Women and Hollywood, nel 2019 il 12 per cento dei film è stato diretto da una donna, e il 20 per cento scritto da una sceneggiatrice. L’Annenberg inclusion iniziative dice che oggi le percentuali sono quasi identiche, anche se per quanto riguarda le piattaforme le cose vanno un po’ meglio. Secondo lo studio nel 2021 la regia di un film Netflix è stata affidata a una donna nel 26,9 per cento dei casi rispetto al 12,7 per cento dei film di maggior successo distribuiti in sala. Il 38 per cento di chi ha ideato serie nel 2021 era costituito da donne, una percentuale decisamente più alta del 26,9 per cento del 2018.

In Italia non ci sono dati sulla tv, ma sono due donne a dirigere le più importanti piattaforme nel paese: Tinny Andreatta a Netflix Italia e Maria Pia Ammirati a Rai Fiction. E sono abbastanza numerose le donne che scrivono per cinema, tv e piattaforme spiega la sceneggiatrice Flaminia Gressi, ideatrice tra gli altri della miniserie Circeo (RaiPlay), forse la prima serie tv realmente femminista prodotta dalla Rai. “Le registe sono poche, c’è davvero un problema nel settore. A fare le sceneggiatrici siamo di più, da quelle di L’amica geniale (a novembre in uscita la quarta e ultima stagione, scritta da Elena Ferrante e Laura Paolucci, ndr) a Francesca Mainieri di Supersex, a Chiara Martegiani di Antonia”, spiega Gressi, che ha cofirmato la nuova stagione di La legge di Lidia Poët (in uscita nel 2024) e insegna anche al Centro sperimentale di cinematografia di Roma.

“Per quanto riguarda i personaggi”, continua Gressi, “da una parte abbiamo la categoria personaggi femminili forti – investigatrici, dottoresse, procuratrici – che hanno il mondo in mano, sempre straordinarie ed empowered. Se si tratta di minoranze, per esempio trame che coinvolgono donne nera o trans, questo vale ancora di più. Quasi ci fosse difficoltà a creare personaggi inadeguati. E se l’inadeguatezza, l’errore c’è, è sul lato sentimentale. Sanno fare tutto, ma non sanno innamorarsi. Noi li chiamiamo personaggi ‘nordici’: donne toste, spigolose, in conflitto con il mondo. C’è qualche eccezione. Per esempio Rue, la protagonista di Euphoria, interpretata da Zendaya, è un personaggio controverso, perché il suo conflitto non è con il mondo, dato che non è il mondo a essere sbagliato, ma lei: è lei che ha una ferita fatale”.

Sui personaggi femminili forti c’è forse oggi una certa retorica che, come scrive Jennifer Guerra nel saggio Il femminismo non è un brand (Einaudi 2024), “costruisce un’idea di donna forte, sicura di sé, istruita, che sa sempre quello che vuole e che è in grado di competere con la tracotanza della sessualità maschile. Ma questa immagine non è forse l’ennesima riproposizione di quel soggetto femminile dotato di autocontrollo e resilienza che si è imposto con il neoliberalismo?”.

Ne aveva parlato Brit Marling in un articolo sul New York Times del 2020, che oggi suona profetico: “Non voglio essere una protagonista femminile forte, se il mio potere è definito in gran parte dalla violenza e dal dominio, dalla conquista e dalla colonizzazione”. Marling immaginava la creazione di un personaggio che fosse quello di una donna veramente libera, che scavava nei suoi desideri, nelle sue necessità, nei bisogni sepolti. Quei bisogni sepolti, tra l’altro, per soddisfare i desideri, le necessità e i bisogni degli uomini.

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