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È arrivato il salvatore della patria?

Mario Draghi arriva al Quirinale dopo essere stato convocato dal presidente della repubblica. Roma, 3 febbraio 2021. (Alessandro Serranò, Agf)

È arrivato Supermario. Non Mario Draghi: Supermario. E con lui stanno arrivando i migliori, il dream team, i competenti. Tutti insieme contro la “mediocrazia”. È come se non si aspettasse altro che questo. Sui giornali sembra un’epifania, quasi una liberazione. Ma non solo sui giornali.

Da qualche giorno in parlamento è diventato difficile trovare chi azzardi una critica, anche di poco conto, sul presidente del consiglio incaricato. Perfino gli antieuropeisti duri e puri – Matteo Salvini e parte del Movimento 5 stelle – di fronte all’ex presidente della Banca centrale europea si sono resi protagonisti di una spericolata conversione sulla via di Bruxelles. E Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, fa sapere che la fiducia no, ma i voti del partito sui singoli provvedimenti potrebbero comunque arrivare. “Il mucchio selvaggio”, ha titolato il Manifesto. Ed è stata una delle rare voci dissonanti.

L’entusiasmo manifestato da gran parte dei mezzi d’informazione è stato pari a quello espresso dal mondo politico. Nelle cronache si è fatto largo uso di toni enfatici e costruzioni suggestive, quasi abolendo ogni misura. Si è letto di Obama che quando aveva un problema diceva: “Chiamate Mario”. Dei mercati che festeggiano l’arrivo di un Draghi ancora soltanto incaricato, mentre anche lo spread finalmente sorride. Del “coraggio di Supermario” di fronte alla strada in salita, la sua semplicità, l’umiltà. La sua riservatezza, nuovo totem che ha preso il posto di quella sobrietà che tanto piacque al tempo di Mario Monti a palazzo Chigi. E, ancora, pagine e pagine su Draghi cliente ideale del resort di lusso in Salento, Draghi che corre la maratona, Draghi e il blasone della moglie, Draghi premier della porta accanto.

Perfino Salvini sembra diventato più digeribile dopo il sì al possibile nuovo governo. Del resto, si capisce: quel sì è frutto dei consigli di Giancarlo Giorgetti, gran tessitore e, naturalmente, amico di Draghi. Ad altri invece è andata peggio. Sul Partito democratico e su ministri e parlamentari del Movimento 5 stelle si è indugiato con parole molto più nette. A volte è emerso un punto di vista schiettamente classista che, scavalcando ogni giudizio politico, ha preso di mira direttamente le persone. E il fatto che certi toni duri siano stati usati di più nei confronti degli sconfitti, rende il quadro ancora più inquietante.

Coloriture ed eccezioni
Non tutta l’informazione, per la verità, si è mossa nello stesso modo. Giornali e tv hanno seguito o anticipato le mosse delle forze politiche e dei blocchi sociali di riferimento. I quotidiani della borghesia moderata come la Repubblica, La Stampa e il Corriere della Sera hanno sostanzialmente accompagnato l’entrata in scena di Draghi. Mentre la posizione dei quotidiani di riferimento della destra è stata più mobile, dovendo fare i conti con il riposizionamento della Lega e con la rottura del fronte unitario delle destre che aveva retto fino all’incarico esplorativo affidato al presidente della camera Roberto Fico.

Inizialmente è stato soprattutto il Giornale a sostenere il tentativo dell’ex presidente della Bce: “Finalmente Draghi” titolava a tutta pagina il giorno della convocazione al Quirinale. A Libero, che il 3 febbraio scriveva di un’Italia commissariata, è servito qualche giorno per titolare: “Salvini innamorato di Draghi viene elogiato dalla gente”. Nel mezzo, tutta una serie di aggiustamenti, conseguenza dello spostamento di Lega e Forza Italia nell’area governativa, con Fratelli d’Italia rimasta da sola all’opposizione. Di tutto ciò la prima pagina del Giornale di domenica 7 febbraio è un buon compendio: “Salvini fa impazzire il Pd” è il titolo che apre l’edizione. Subito sotto si può leggere: “Grillo ordina di ingoiare il rospo e l’M5s obbedisce”. Ma entrambi – Salvini e Grillo – in fondo hanno fatto lo stesso percorso.

Comunque sia, e al di là di ogni coloritura ideologica, quasi tutta l’informazione si è infine ritrovata entusiasticamente sullo stesso lato della barricata, salvo alcune eccezioni come appunto il Manifesto. Ed è stato proprio il Manifesto a porre una questione relativa alla crisi dei partiti che, secondo Norma Rangeri, “reclamerebbe un generale mea culpa”. Ma quel mea culpa non è arrivato né, a quanto pare, arriverà mai davvero.

È una sorta di resa generale. E anche i giornali partecipano a questa resa

In parte si può anche capire. La situazione è quella che è. L’emergenza sanitaria si intreccia con la crisi sociale e con quella economica. Gli italiani sono stanchi. E, come ha spiegato Sergio Mattarella, incombono scadenze che non era consigliabile affrontare con un governo dimissionario e una campagna elettorale in corso. È naturale insomma che la svolta rappresentata dall’arrivo di Draghi abbia acceso speranze e catturato l’attenzione. Tuttavia, i toni dei racconti sono apparsi spesso molto oltre le righe e, soprattutto, se non si apre nessun ragionamento sul fallimento della classe politica è anche perché a spostare altrove l’attenzione concorrono i modi della costruzione del dibattito pubblico, favoriti anche da politica e informazione.

Se, come scrive Michele Serra su Repubblica, siamo ridotti “politicamente all’anno zero” e, come ha sintetizzato Roberto D’Agostino, i partiti politici non possono fare molto più che presentarsi di fronte a Draghi dicendo “Ave Mario, morituri te salutant”, sembra però che per lo più ci si fermi qui, sulla superficie di questo disastro.

È una sorta di resa generale. E anche i giornali partecipano a questa resa con il racconto quasi festoso dell’uomo solo al comando e del fastidio per certe liturgie della politica, che però sono liturgie necessarie alla democrazia, poiché – come è noto – in politica anche la forma è sostanza e, soprattutto, è garanzia per i deboli nei confronti dei forti.

Certo, a proposito del tentativo di Draghi non mancano i ragionamenti sui rischi che si stanno correndo. Tra gli altri, ne scrive Ezio Mauro su Repubblica, sostenendo che “il consenso di tutti è un buon viatico per partire, ma non per navigare”. E in un articolo sulla Stampa intitolato “I superpoteri di Supermario”, Donatella Di Cesare analizza l’intreccio tra pulsioni populiste, unanimismo e la tentazione di considerare Draghi l’uomo della provvidenza.

Ma in generale sui mezzi d’informazione si rilancia, si parteggia, si riduce continuamente la realtà a un simulacro di talk show nel quale non è tanto importante ciò che si sostiene quanto invece la posizione che si prende sul palcoscenico. E così si toglie spazio a tutto ciò che non sia strumentale per l’attacco all’avversario, unico schema rimasto a quest’idea di politica nata sulle ceneri dei partiti popolari. Formazioni sostituite, a partire dagli anni novanta del novecento, da organizzazioni carismatiche che, prive di idee, hanno bisogno di nemici per giustificare la propria esistenza.

Svuotandosi di ragionamento politico, anche sui giornali, sulle radio e in tv il dibattito si è fatto sempre più schematico, richiedendo adesione acritica a una posizione o al suo contrario, dando la sensazione che gli stessi mezzi d’informazione siano più attori che osservatori della politica. Per questa strada, l’informazione rischia di rafforzare la tendenza – anch’essa maturata a partire dagli anni novanta ed emersa con una certa evidenza nei mesi di pandemia – a cedere spazio alle forme della comunicazione mentre la cronaca affoga in un mare di opinioni e retroscena utili più a testimoniare il potere, a volte anche a costruirlo, che a raccontare le cose del mondo. E di questo l’informazione di questi ultimi giorni sembra essere una chiara testimonianza.

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