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Le primarie negli Stati Uniti

In vista delle elezioni presidenziali dell’8 novembre negli Stati Uniti, i repubblicani e i democratici scelgono i loro candidati alla Casa Bianca attraverso le primarie. 

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Donald Trump sta aiutando il Partito repubblicano ad autodistruggersi

La conferenza stampa di Donald Trump dopo i risultati delle primarie del supermartedì a Palm Beach, in Florida, il 1 marzo 2016. (Scott Audette, Reuters/Contrasto)

Donald Trump ha preso il controllo del partito repubblicano. La conferenza stampa in cui ha commentato i risultati del supermartedì – con le bandiere statunitensi sullo sfondo e i richiami all’unità – è sembrato il discorso di un candidato che sente di avere già la nomination in tasca e generosamente offre una via d’uscita ai suoi avversari.

Il risultato del supermartedì ci dice che il “partito di Abramo Lincoln e Ronald Reagan” – come amano definirlo i candidati dell’establishment quando devono prendere le distanze dal miliardario newyorchese – è nelle mani di una persona che in pochi mesi si è impadronita della scena (e del voto di molti elettori ai quattro angoli del paese) attaccando le donne, i migranti, i musulmani e i disabili.

Un candidato che non ha perso consensi neanche quando gran parte delle sue affermazioni si sono dimostrate palesemente false. Lui stesso ha riassunto il suo programma elettorale in una frase che descrive bene il clima in cui si svolgono queste elezioni: “I’ll do various things very quickly”, farò tante cose molto velocemente.

Sembrano lontanissimi i giorni in cui i leader repubblicani (estate 2015) chiedevano a Trump di impegnarsi a non candidarsi come indipendente in caso di sconfitta alle primarie. Oggi quegli stessi leader, che dopo la vittoria di Trump in New Hampshire avevano cominciato a sudare freddo, stanno rapidamente passando dall’incredulità all’isterismo, e si chiedono cosa fare (e se c’è qualcosa che ancora possano fare) per fermare l’ascesa di un candidato che vince sfruttando il disprezzo degli elettori per il loro stesso partito.

Trump sta solo raccogliendo
quello che il Partito repubblicano
ha seminato negli ultimi anni

Alcuni, pensando allo scenario Clinton contro Trump nelle elezioni di novembre, si chiedono se la scelta più saggia non sarebbe schierarsi a favore della candidata democratica. Altri arrivano addirittura a chiedersi se non sia il caso, una volta che Trump sarà il candidato repubblicano, di dare vita a un nuovo partito conservatore.

Subito dopo il voto del 1 marzo il senatore repubblicano Lindsey Graham, che all’inizio della settimana aveva scherzato sulla possibilità di uccidere Ted Cruz, ha fatto capire che forse l’unica possibilità per il partito è “stringersi intorno a Ted Cruz”, che ha vinto le primarie in Texas ed è secondo per numero di delegati ottenuti.

In queste ore arrivano allarmate dichiarazioni di politici repubblicani che accusano Donald Trump di aver portato il loro glorioso partito sull’orlo dell’abisso. Ma la verità è che Trump sta semplicemente raccogliendo quello che il Partito repubblicano ha seminato negli ultimi anni. Non è stato Trump il primo a mettere in dubbio la nazionalità di Barack Obama e a chiedere il suo certificato di nascita. Non è stato Trump il primo a fomentare l’islamofobia nel paese. Non è stato Trump a sdoganare il razzismo sfacciato nei confronti dei migranti e dei cittadini di origine latinoamericana e a sostenere provvedimenti contro le minoranze: i politici repubblicani l’avevano già fatto in molti stati del sud.

C’è un motivo se nei tanti dibattiti televisivi visti finora nessuno dei candidati più vicini al Partito repubblicano ha mai attaccato apertamente Trump sulla sua proposta di costruire un muro al confine con il Messico o su quella di impedire ai musulmani di entrare nel paese: queste proposte sono condivise da una porzione importante dell’elettorato repubblicano.

Un elettorato cresciuto dagli stessi repubblicani in otto anni di posizioni ideologiche e di fondamentalismo politico che avevano come unico obiettivo quello di sabotare la presidenza di Barack Obama.

Se Trump vincerà in North Carolina e Florida, la sua nomination per i repubblicani sarà inevitabile

I repubblicani hanno deciso che il modo più semplice e sicuro per tornare alla Casa Bianca sia fomentare il radicalismo e la polarizzazione politica. Hanno fatto ostruzionismo al congresso ogni volta che se ne è presentata l’occasione, hanno respinto con toni apocalittici quasi ogni provvedimento proposto dai democratici, hanno promesso di cancellare ogni traccia della presidenza Obama una volta tornati al potere.

Non si sono però accorti che così non stavano solo raccogliendo voti di protesta ma stavano anche diventando un gruppetto di astrusi politicanti arroccati nei loro privilegi. In questo modo hanno perso contatto con il loro elettorato tradizionale, composto soprattutto da persone convinte che il paese si stia allontanando dai suoi valori e che detestano i politici perché non fanno nulla per impedirlo.

Il risultato è che oggi molti di questi elettori credono che un miliardario senza proposte politiche sia non solo più vincente ma anche più credibile di qualsiasi candidato che provenga dal partito. Lo dimostra il fatto che, come ha scritto George Zornick su The Nation, nel supermartedì Trump abbia ottenuto ottimi risultati tra tutte le quattro fazioni che oggi compongono l’elettorato repubblicano: i moderati, gli evangelici, i cattolici e i sostenitori del Tea party, cioè l’ala più estrema del partito.

Se Trump riuscirà a confermare questi consensi nelle fondamentali primarie dell’Ohio, del North Carolina e della Florida, che si terranno il 15 marzo e assegneranno 237 delegati, la sua nomination per la Casa Bianca sarà inevitabile. Allora, il partito di Abramo Lincoln e Ronald Reagan probabilmente non esisterà più.

Correzione, 3 marzo 2016
Nella versione precedente di questo articolo c’erano due errori: gli stati che voteranno il 15 marzo sono Ohio (non Iowa), North Carolina e Florida, e i delegati assegnati saranno 237 (non 220).

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