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I palestinesi si ammalano nelle carceri israeliane

Una manifestazione per chiedere la liberazione di un palestinese detenuto in un carcere israeliano, a Megiddo, nel nord d’Israele, ottobre 2020. (Mati Milstein, NurPhoto via Getty Images)

Di recente i mezzi d’informazione israeliani hanno riferito che in appena due giorni sono stati diagnosticati 66 nuovi casi di covid-19 tra i detenuti palestinesi del carcere di Gilboa. Mi chiedo se la notizia abbia solleticato la memoria dei giudici della corte suprema Ofer Grosskopf, David Mintz e Isaac Amit. Alla fine di luglio i tre giudici avevano respinto una petizione che sottolineava il rischio che il covid-19 si diffondesse in quella struttura, che si trova nel nord di Israele. Grosskopf, Mintz e Amit avevano accettato il parere della procura di stato, secondo cui il servizio penitenziario israeliano stava facendo il possibile per evitare il contagio dei detenuti in tutte le strutture del paese. A giugno la corte suprema aveva respinto un’altra petizione che chiedeva la scarcerazione anticipata a causa della pandemia anche per alcuni detenuti nelle carceri di sicurezza.

Le nuove regole del servizio penitenziario nell’era della pandemia consentono la scarcerazione dei detenuti condannati a non più di quattro anni di prigione e a cui resta da scontare meno di un mese. La normativa ha portato a mille il numero delle persone rilasciate in libertà vigilata, e permette la scarcerazione anche in penitenziari al limite della capienza. Ma è stata fatta un’eccezione per i prigionieri palestinesi nelle carceri di sicurezza. La corte suprema non ha fatto una piega davanti a questa ennesima discriminazione, e ha respinto la petizione.

Fin dall’inizio della pandemia la maggior parte dei detenuti (arabi e israeliani) ha vissuto nel terrore del contagio. Le condizioni delle carceri israeliane sono pessime, con un enorme sovraffollamento. Non sorprende che il fenomeno sia particolarmente grave nelle strutture che ospitano i palestinesi. La grandezza media di una cella di Gilboa è di 22 metri quadrati, da cui bisogna sottrarre circa sei metri quadrati per la doccia, il bagno e il cucinino. In ognuna di queste celle vivono sei persone, con meno di tre metri quadrati a testa.

Impennata pericolosa
Fino alla settimana scorsa la situazione nei penitenziari sembrava sotto controllo. Il numero di detenuti infettati era relativamente basso, e i malati erano sparsi in diverse strutture. A luglio i contagiati erano sette, di cui soltanto due nelle prigioni di sicurezza. Nessuno a Gilboa. Ma il 3 novembre è arrivata la notizia che 66 palestinesi detenuti a Gilboa erano positivi. Il 5 novembre il numero è salito a 87: ben 21 contagiati in due giorni su una popolazione carceraria di 450 detenuti. In meno di una settimana il virus ha colpito il 20 per cento dei detenuti.

I giudici della corte suprema hanno riflettuto su questa impennata dei contagi? Hanno pensato che i promotori della petizione sapevano bene di cosa stavano parlando, quando hanno sottolineato il rischio di un focolaio a Gilboa? Hanno pensato che forse le autorità carcerarie non si stanno impegnando al massimo per evitare un focolaio proprio nella struttura indicata dalla petizione? Ricordano cosa hanno sostenuto gli avvocati del Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele? In quell’occasione i giudici hanno ripetuto l’opinione del governo, ovvero che il “distanziamento fisico” per ostacolare il contagio non si applica ai detenuti, che invece devono essere considerati come componenti di un’unica unità familiare che vivono insieme in un singolo ambiente. Anche a Gilboa. Gli avvocati del Centro legale per i diritti delle minoranze arabe hanno sottolineato che le guardie carcerarie entrano in ogni cella circa cinque volte al giorno. “Non è come una casa privata dove si può impedire l’ingresso delle guardie per essere al sicuro”, hanno spiegato. “Le guardie entrano ed escono, poi rientrano a casa e il giorno dopo tornano al lavoro”.

Israele e le sue istituzioni sono ormai drogati dal disprezzo per le vite dei palestinesi. È per questo che hanno respinto due petizioni che chiedevano l’adozione di misure facilmente applicabili, che avrebbero potuto ridurre il rischio di contagio tra i detenuti palestinesi.

Il 3 novembre ho chiesto al portavoce del servizio penitenziario i dati sui contagi tra tutti i detenuti, uomini e donne, israeliani e palestinesi. Volevo conoscere il numero di quelli risultati positivi dall’inizio della pandemia, il numero di persone attualmente infette e il numero di malati gravi. Ho chiesto se in altre strutture, oltre a Gilboa, si era verificato un aumento dei casi così importante. Ho pensato che i dati sarebbero stati immediatamente accessibili sui sistemi informatici. Invece il portavoce del dipartimento ha trattato la mia richiesta come fosse un’indagine complessa.

Dopo un secondo tentativo, ho ricevuto subito i dati: 23 detenuti sono risultati infetti negli ultimi nove mesi. Altri 87 detenuti sono risultati infetti nell’ultima settimana. Tutti nel penitenziario di Gilboa. Fino al 5 novembre.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul numero 1384 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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