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Il manifesto della comunicazione non ostile. E altri fatti lì attorno

Il viaggio in treno per arrivare a Trieste non finisce mai. È un pomeriggio invernale livido e la città è una sinfonia di grigi mitteleuropei, che contrastano con la singola nota gialla e rossa della segnaletica del convegno Parole ostili. È lì che sto andando.

La sede è un edificio proteso sul mare: interessante anche dal punto di vista simbolico. Entro. Scalone. Frullare di giovanissimi volontari. A un’ora dall’inizio c’è già un sacco di gente. Bene, non me l’aspettavo. Sarà solo per l’eclettico bouquet di celebrities (Gianni Morandi, Debora Serracchiani, Laura Boldrini) che inaugurano la manifestazione?

Il primo atto formale del convegno è il varo dell’edizione definitiva del Manifesto della comunicazione non ostile. È un elenco di dieci princìpi, ciascuno dei quali è seguito da un’indicazione di comportamento. Potete leggerli qui e, se vi va, potete anche sottoscriverli e diffonderli.

Il Manifesto della comunicazione non ostile.

I ragionamenti che, nel corso del convegno, si sviluppano attorno al Manifesto sono interessanti: provo a raccontarvene alcuni, così come li ho ascoltati, e senza condirli troppo con le mie opinioni: c’è materiale sufficiente perché vi costruiate le vostre.

“Tutto è cominciato qualche mese fa, dal bisogno di tornare a scegliere le parole con cura, da 70 email inviate e da un sorprendente numero di consensi”, racconta Rosy Russo, che si è immaginata tutta ‘sta cosa e l’ha organizzata. “Sembrava una follia portare un incontro di questo tipo a Trieste, nel profondo nordest”, dice. “Eppure tutto ciò ha un senso, perché in questa città c’è un silenzio magico”.

Russo dice che il Manifesto per la comunicazione è nato in rete, da cento affermazioni proposte dai sostenitori, a cui se ne sono aggiunte altre 250. Le proposte sono state riordinate, accorpate e poi selezionate sulla base dei 17mila voti pervenuti. Un lungo processo condiviso, insomma, concluso con il voto agli ultimi quattro princìpi da parte dei cento sostenitori intervenuti al convegno.

Alberto Fedel si dichiara formatore manageriale e immigrato digitale. Introduce il tema e già si capisce da che parte sta. Norme e gerarchie non migliorano le cose, dice, nemmeno in azienda, e non possono ridurre l’ostilità in rete.

Messaggi e applausi
La questione vera è come ci si educa all’empatia in una situazione in cui l’altro è invisibile e spesso sconosciuto, in cui le reazioni sono immediate e il pensiero veloce del quale parla Kahneman è dominante, in cui è fin troppo facile scatenare processi alle intenzioni. Il messaggio è: educare.

Debora Serracchiani conferma e specifica: non servono censure, comitati o controlli, ma bisogna dare e pretendere rispetto. Giusto non subire gli insulti e giusto bloccare chi esagera: lei lo fa. Il messaggio è: niente panico, e distinguere.

Poi arriva Gianni Morandi, uno che di insulti in rete e processi alle intenzioni sa qualcosa. Parte tra lui e Serracchiani un gustoso siparietto sul Partito democratico come luogo senza ostilità (sghignazzi in sala). Morandi commenta i punti del Manifesto e poi dice che con le carte dei valori c’è un problema: somigliano ai testi delle canzoni quando non hai la musica in mente. Con la musica tutto migliora, dice, e si mette a canticchiare “sei un cretino”. Applausi.

Per lui, la soluzione è essere pazienti e usare lo humor. Al tizio che, dopo averlo insultato a proposito di un post sui migranti, lo invita a restare fedele al cliché “fatti mandare dalla mamma”, risponde: “Alla mia età, mi ci vedi, a farmi mandare dalla mamma?”. Ci ha pensato. Ha scritto e riscritto la risposta. Ma non risponde sempre: a volte non ne vale proprio la pena. Il messaggio è: soavità, a ogni costo. Ma forse, per riuscirci, bisogna essere Morandi.

Laura Boldrini e Gianni Morandi durante il convegno Parole ostili, a Trieste, il 17 febbraio 2017.

Boldrini (fotoreporter, servizio di sicurezza: lieve scompiglio in sala quando è arrivata) è più severa: intervistata da Anna Masera, dice che non dobbiamo rassegnarci a chi vuole renderci peggiori, ma d’altra parte è umiliante rispondere con l’odio all’odio. Anche lei si è trovata al centro di una campagna d’odio: spesso si tratta di persone in grandi difficoltà e molti hanno chiesto scusa. È un fenomeno in via di espansione, affligge in particolare le donne.

L’importanza del rigore
Boldrini difende la lettera che ha scritto a Zuckerberg: con 28 milioni di utenti in Italia, Facebook qui da noi non ha neanche un ufficio operativo. I social network sono giganti globali che possono condizionare l’opinione pubblica e dovrebbero prendersi qualche responsabilità in più.

Ci sono, prosegue Boldrini, trecento pagine italiane che inneggiano al nazismo: in Italia è un reato. Facebook non sta facendo sul serio: si è preso l’impegno di cancellare messaggi offensivi entro 24 ore, ma questo succede in media solo nel 28 per cento dei casi. E le cancellazioni sono il 50 per cento dei casi in Germania, il 4 per cento in Italia.

Spesso le fake news non sono goliardate, ma frutto di operazioni pianificate per guadagnarci o per creare il caos. Chiederà azioni positive ai giornalisti e alle scuole, e inviterà le aziende a smettere di fare pubblicità sui siti di bufale. Il messaggio è: rigore.

Sulla pubblicità, che è una questione importante (i soldi sono sempre importanti) mi tocca aggiungere alcune notiziole: il problema del finanziare bufale è sentito anche negli Stati Uniti. La soluzione non è così semplice perché la collocazione degli annunci nei siti avviene in modo automatizzato. Quindi, in realtà, non è l’inserzionista a scegliere (qui il New York Times. Qui Advertising Age).

Ulteriore informazione: a fine 2016 in Italia il 27 per cento degli investimenti pubblicitari va in rete. Sono 2,3 miliardi di euro, ed è tanto. I dati sono opachi, quindi gli investitori non sanno bene che cosa stanno comprando. Stanno pensando di passare dal premiare la quantità (il numero di visitatori) al premiare la qualità (il tempo di permanenza su una pagina). Vedremo se e come ci riusciranno.

Ma torniamo al convegno.

Alessandro Rosina presenta i dati dell’Osservatorio giovani dell’istituto Toniolo. Il primo dato è che la quasi totalità dei giovani tra i 20 e i 34 anni usa la rete. Quasi il 38 per cento si è imbattuto in maniera indiretta in episodi di persecuzione, il 13 per cento li ha sperimentati direttamente, un po’ più del 9 per cento ha esercitato il trolling. Nella maggior parte dei casi (60, 8 per cento) le vittime rimuovono i messaggi e bloccano l’utente.

Nove giovani su dieci ritengono che i discorsi d’odio (hate speech) siano un fatto molto o abbastanza grave, ma uno su dieci (il valore sale nei giovani con bassa scolarità) lo ritiene normale. Il 73,2 per cento degli intervistati dichiara di non aver mai postato contenuti che potrebbero essere ritenuti hate speech, il resto lo ha fatto almeno una volta.

C’è una maggioranza silenziosa, e un po’ stufa, che crede possibile un web migliore

Le vittime principali, secondo gli intervistati, sono immigrati, singole persone pubbliche, omosessuali, musulmani, donne.

Secondo gli intervistati, per contrastare questi episodi è necessaria una segnalazione alle piattaforme o ai siti (78,4 per cento), far eliminare da parte delle autorità l’hate speech (73,3 per cento), applicare censure da parte delle piattaforme e dei siti (70,1 per cento).

Il messaggio è: c’è una maggioranza silenziosa, e un po’ stufa (il 58 per cento) che crede possibile un web migliore. A loro è dedicato il manifesto. C’è un’area grigia, che va sensibilizzata ed educata, e vale il 32 per cento. E c’è un 10 per cento di irriducibili, nei confronti dei quali bisogna lavorare solo in termini di contenimento del danno. Coi numeri, sembra tutto più chiaro.

Maurizio Pessato, presidente di Swg, si è occupato degli adulti. Per il 60 per cento l’allarme sull’odio in rete è motivato, ma c’è un livello alto di rassegnazione e un 62 per cento pensa che il fenomeno crescerà ancora. Il messaggio è: gli adulti sono preoccupati ma non sanno che pesci pigliare.

Luigi Curini, fondatore di Voices from the blogs, segnala che politica, misoginia, xenofobia e omofobia sono i quattro maggiori temi dei commenti d’odio in rete. Ha analizzato 80 milioni di tweet geolocalizzati, prodotti tra il 1 giugno e il 31 dicembre 2016.

Fino ai primi di novembre c’è stata una prevalenza di tweet d’amore sui tweet d’odio o rabbia. A novembre c’è stato un vertiginoso picco di tweet d’odio. E sì, è coinciso con il referendum costituzionale. I tweet d’odio hanno continuato a prevalere perfino a Natale.

E poi c’è una correlazione positiva tra tweet rabbiosi e grandi città: Roma prima di tutto, ma anche Milano. Odio e rabbia, invece, non sono correlati con il reddito registrato nelle diverse province italiane. Anche il livello di xenofobia non è correlato con la percentuale dei migranti presenti in ciascuna provincia. E il messaggio è: accidenti se è vero che virtuale è reale.

Questo è quanto è successo nella prima giornata del convegno. Vorrei raccontarvi anche il resto, ma devo mettere ordine negli appunti e recuperare materiali. Ci vorrà una settimana almeno. Ma offrirvi un po’ di elementi strutturati (e variegati) utili a farvi un’opinione mi sembra utile, e spero che lo sembri anche voi.

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