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Paralizzati nell’emergenza

Vasilina Popova, Getty Images

Di norma, di fronte a una minaccia che suscita paura, gli esseri umani hanno una reazione di attacco o di fuga (fight or flight). È una reazione ancestrale (la condividiamo con gli animali). E non è solo cognitiva ed emotiva, ma anche, e in primo luogo, fisiologica. Nel senso che è connessa con un’accresciuta attività nervosa e ormonale, e con l’aumento del tono muscolare, della pressione e del flusso sanguigno. E poi: i peli si rizzano, lo sguardo si focalizza sulla minaccia, la visione periferica svanisce.

Si tratta, ovviamente, di una reazione adattativa: nel senso che attiva l’organismo, umano o animale, in modo tale da metterlo in grado di fare velocemente ed energicamente tutto ciò che gli serve per salvare la pelle. O estinguendo la minaccia, o allontanandosene molto in fretta.

C’è però una terza opzione, meno ovvia dell’attaccare o del darsela a gambe, eppure frequente. È la paralisi (freezing). Succede anche agli animali: topi, galline, gamberi, conigli, capre e così via, quando si trovano in una situazione di pericolo estremo – per esempio, di fronte a un predatore – si immobilizzano, fino a sembrar morti.

Del resto, si dice spesso che la paura può essere “raggelante”. E, dunque, paralizzante.

Risposta automatica
Un eccellente articolo su The Conversation spiega bene come funziona l’intera faccenda per gli esseri umani. La paralisi interviene quando siamo sopraffatti da un evento del tutto inaspettato e sconcertante. Oppure quando, di fronte a una minaccia, ci sembra impossibile sia scappare sia attaccare. Così, esattamente come fanno gli animali, ci paralizziamo: il battito cardiaco decelera, l’attività neurale rallenta. Non è una decisione consapevole, ma una risposta automatica: sono ancora le parti più primitive del nostro cervello a governare le nostre reazioni.

Questo tipo di comportamento, dicevo, è molto più frequente di quanto si potrebbe pensare: John Leach, esperto di psicologia della sopravvivenza, sostiene che in una situazione di rischio vitale (per esempio, nel caso di un attentato terroristico) “solo il 15 per cento delle persone coinvolte risponderà nel modo giusto. Il 75 per cento invece sarà troppo sorpreso per fare qualsiasi cosa. L’altro 10 per cento reagirà in un modo che ridurrà le possibilità di sopravvivenza, sia per sé sia per gli altri”.

Certo, anche la paralisi offre vantaggi adattativi: in caso di aggressione, può sconcertare il predatore e perfino scoraggiarlo. E può difendere da un trauma emotivo troppo forte per essere affrontato.

Il problema sorge se, in seguito al trauma, il corpo e il cervello familiarizzano con questo tipo di reazione, e continuano ad attivarla in modo automatico anche in seguito, rallentandosi e anestetizzandosi quando non serve.

L’incertezza improduttiva
Anche le situazioni con un alto grado di ambiguità e di incertezza possono paralizzarci. Ma in quei casi il blocco è mentale, e non fisico: facciamo più fatica a pensare.

La Harvard Business Review parla di “incertezza improduttiva”. Ci focalizziamo talmente sull’immediato da perdere di vista tutto il resto (comprese le conseguenze di azioni sconclusionate), e da ragionare esclusivamente in modo binario (o tutto o niente), escludendo con ciò l’intera gamma delle possibilità ulteriori.

All’opposto, se ci imponiamo di entrare nel merito, e di analizzare la situazione ambigua e incerta in tutti i suoi minimi aspetti, eccoci bloccati di nuovo. È la paralysis by analisis.

Ci perdiamo nel labirinto delle incognite e delle conseguenze possibili, e più dettagli esaminiamo, più la complessità sembra aumentare. Più l’ansia cresce. Più il quadro complessivo ci sfugge. Più ogni possibile mossa, azione o decisione ci sembra inadeguata. E più diventiamo timorosi di fare errori, o di trascurare quell’unico, sfuggente dettaglio risolutivo che potrebbe guidarci nella sola direzione giusta. Risultato: procrastiniamo. E restiamo paralizzati.

A proposito: anche il perfezionismo (con il suo ineliminabile, greve corredo: l’imperativo di non fallire) può essere, oltre che fatale portatore di infelicità, paralizzante. È un’altra attitudine che, scrive Forbes, appiattisce le prospettive e rende più difficile capire le priorità. Del resto, se tutto dev’essere perfetto, tutto è ugualmente importante, no?

Ripetiamolo, non è una guerra né un attacco terroristico. Non è una situazione in cui paralizzarsi. Restare lucidi è imperativo

Infine, devo ricordare che a favorire il blocco ci sono anche due diversi bias. Cioè, due modi fallaci di ragionare. Ne ho già parlato in questo articolo.

Il bias dello status quo ci porta a mantenerci nella condizione attuale, sopravvalutando i rischi, gli ostacoli e le potenziali perdite derivanti da un cambiamento di rotta, e sottovalutandone i vantaggi.

Il bias di omissione, invece, ci fa apparire più accettabile e preferibile sbagliare per non aver fatto niente che sbagliare per aver fatto qualcosa.

Ci troviamo tutti quanti, oggi, in una condizione oggettivamente difficile, incerta, con alte dosi di ambiguità, in cui fare errori gravi è possibile. E in cui sono in gioco molte vite. Da tutto ciò possiamo legittimamente sentirci spaventati.

Dovremmo però, proprio perché la situazione è questa, stare un po’ più attenti del solito a non restare bloccati e incapaci di qualsiasi reazione.

La regola di Pareto
La pandemia è una drammatica, terribile emergenza globale. Sottrae la vita e il lavoro. Ma, ripetiamolo, non è una guerra né un attacco terroristico. Non è una situazione in cui paralizzarsi. Restare lucidi è imperativo.

Particolarmente attente a evitare la paralisi dovrebbero, ovviamente, essere le persone che per ruolo e mandato prendono decisioni che riguardano l’intera comunità. A loro è chiesto di essere non solo razionali e lungimiranti, ma anche concretamente fattive nel contenimento del danno.

Per tutti noi, la decisione di osservare rigorosamente le cautele di base (mascherine, distanziamento, igiene delle mani, riduzione degli spostamenti non necessari. E stare alla larga degli assembramenti senza protezioni) è una decisione attiva, e che individua le priorità.

A proposito di priorità, di decisioni e soprattutto di decisori: vale la pena di notare che anche per la diffusione del covid-19 sembra valere la regola di Pareto. La quale dice, in estrema sintesi, che l’80 per cento degli effetti deriva dal 20 per cento delle cause. Nel caso della pandemia, – e a dirlo è l’Mit – l’80 per cento dei contagi (effetti) sembra essere trasmesso dal 20 per cento delle persone contagiate (cause).
Sarebbe stato un ottimo motivo per rafforzare, in tempo utile, il tracciamento dei contagi, e più in generale la medicina di base. E per organizzare una seria raccolta e analisi dei dati nazionali. Senza i quali (a scriverlo è il fisico Giorgio Parisi, presidente dell’Accademia dei Lincei) si fanno solo congetture più o meno strampalate. E procedere razionalmente diventa impossibile.

Ma queste sono alcune delle decisioni che non sono state prese.

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