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Un nuovo tentativo di diffamare Giulio Regeni

Una fiaccolata per chiedere giustizia per Giulio Regeni a Roma, 25 gennaio 2019. (Francesco Fotia, Agf)

Dopo cinque anni di lotta e sofferenze, la famiglia del ricercatore italiano Giulio Regeni, assassinato al Cairo nel gennaio del 2016, è riuscita a ottenere un inizio di giustizia. Si avvicina infatti il processo contro quattro esponenti dei servizi segreti egiziani, accusati di aver avuto un ruolo nel sequestro, nelle torture e nell’omicidio di Regeni. La prima udienza preliminare, fissata per il 29 aprile a Roma, è stata rinviata al 25 maggio perché uno degli avvocati d’ufficio della difesa è in isolamento a causa del covid-19.

Il processo contro il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamel Mohamed Ibrahim e Uhsam Helmi e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif si svolgerà in contumacia perché le autorità egiziane si sono rifiutate di collaborare e non hanno consentito l’estradizione dei sospetti. I quattro agenti dei servizi segreti sono accusati di “sequestro di persona aggravato” e Sharif dovrebbe essere incriminato anche per “concorso in omicidio aggravato”.

Teorie del complotto
Il 28 aprile, alla vigilia dell’inizio del processo, è stato pubblicato su YouTube un video in arabo con i sottotitoli in italiano e in inglese, che si presentava come “il primo documentario” che rivela “gli ultimi momenti del ricercatore italiano nella capitale egiziana”. The story of Regeni, i cui autori sono ignoti e a cui era associata anche una pagina Facebook (entrambi sono stati rimossi), infanga per l’ennesima volta la memoria di Regeni. Con uno stile vicino a quello delle tv satellitari arabe, il video cerca di screditare Regeni, insinuando che fosse vicino ai Fratelli musulmani e ai servizi segreti occidentali, e di scagionare il regime egiziano da ogni responsabilità per la sua morte, attribuendo invece tutte le colpe all’università di Cambridge, dove Regeni svolgeva il suo dottorato.

Il linguaggio e le teorie del complotto usate per depistare ricordano molto la propaganda del regime di Abdel Fattah al Sisi, salito al potere nel 2013 in seguito a un colpo di stato che ha deposto l’allora presidente Mohamed Morsi, leader dei Fratelli musulmani. L’appartenenza al gruppo, dichiarato fuorilegge dal 2013, è una delle accuse più gravi che si possano formulare in Egitto e decine di migliaia di suoi affiliati sono in carcere.

Nel video compaiono le interviste di alcune personalità italiane, tra cui il giornalista complottista Fulvio Grimaldi, due ex ministri, Elisabetta Trenta e Maurizio Gasparri, e il generale Dino Tricarico. Tutti si sono poi dissociati dal documentario spiegando di essere caduti in una trappola, credendo di essere intervistati da un giornalista di Al Jazeera.

Le accuse rivolte negli anni contro Cambridge hanno avuto conseguenze pesanti sulla libertà accademica in Egitto e non solo

Il finto documentario riprende la tesi sostenuta dal governo egiziano che fin dai primi giorni dopo l’omicidio di Regeni ha messo in dubbio la sua attività di ricerca sui sindacati indipendenti dei venditori ambulanti egiziani, insinuando che avesse un doppio fine, e ha puntato il dito contro l’università di Cambridge, incolpando la tutor di Regeni, Maha Abdel Rahman, di essere vicina ai Fratelli musulmani. Le accuse rivolte negli anni contro Cambridge hanno avuto conseguenze molto pesanti sulla libertà accademica in Egitto e non solo.

L’omicidio di Regeni rappresenta infatti uno spartiacque per tutti i ricercatori europei ed egiziani. Una commissione d’inchiesta andrà a breve a Cambridge per chiarire il quadro giuridico, ma per Khaled Fahmy “l’approccio legale non basta. Perché quello che c’è in gioco oggi è la libertà accademica di tutti noi”.

Khaled Fahmy è un eminente professore egiziano, specializzato in storia della polizia e dell’esercito egiziani e quindi non si potrebbe parlare con una persona più informata sui metodi e i temi tabù per la polizia e i servizi segreti egiziani. È autore del famoso All the Pasha’s men (Tutti gli uomini del pascià) che ripercorre la storia dell’esercito egiziano dal novecento. L’elenco delle sue pubblicazioni sui temi legati alle istituzioni statali egiziane è molto lungo. Nel suo percorso accademico ha frequentato le più importanti università, da Princeton ad Harvard. Dopo anni negli Stati Uniti è tornato in Egitto nel 2010 come professore associato e rettore dell’Università americana del Cairo. In seguito alla rivoluzione ha dovuto lasciare l’Egitto e oggi insegna all’università di Cambridge.

Il peggior scenario
“Conosco le linee guida della ricerca in Egitto, ho seguito decine di dottorandi stranieri che sono sempre andati in Egitto per studiare, provenienti da Princeton, Harvard e Cambridge. Quello che è successo a Giulio Regeni, considerando il suo tema di ricerca, non era affatto prevedibile. Per i servizi egiziani ci sono argomenti sensibili, argomenti illegali e argomenti pericolosi. Le questioni delle frontiere contestate, dei Fratelli musulmani, delle tensioni confessionali in Egitto e dei beni immobiliari che gli ebrei egiziani non possono più recuperare sono linee rosse. Chiaramente, se uno lavora su questioni di frontiera viene immediatamente considerato una spia. Quello che studiava Regeni era sensibile, ma il peggiore scenario che si poteva immaginare all’epoca era un visto negato o un allontanamento”.

Il fatto che non si poteva prevedere questa violenza inaudita non significa che il regime di Al Sisi, non sia, per lo storico, “il più violento e oppressivo regime egiziano della storia recente”. Ma purtroppo Giulio Regeni è stato il primo straniero a ricevere questo trattamento. Se per gli egiziani gli arresti arbitrari e le torture sono moneta corrente, agli stranieri prima di Regeni non era mai successo. L’hanno perfettamente capito i genitori del ricercatore quando dicono che il loro figlio “è stato ucciso come un egiziano”.

Secondo Fahmy “è importante spiegare al pubblico italiano quale sia il ruolo di un tutor di dottorato: lo studente sceglie da solo il tema da approfondire. Il tutor non sceglie il dottorando, gli è assegnato dall’università. Un dottorando viene considerato come un futuro collega, si accompagna la ricerca ma non gli si impongono i temi”.

Come se niente fosse
Nella tesi del regime egiziano, ripresa nel finto documentario, la tutor Maha Abdel Rahman, e per estensione Cambridge, sono un perfetto capro espiatorio. Elisabetta Brighi, esperta di politica estera italiana e autrice del saggio Illusioni di stabilità, illusioni di democrazia all’interno del volume Minnena. L’Egitto, l’Europa e la ricerca dopo l’assassinio di Giulio Regeni (Mesogea 2020), sostiene che “Abdel Rahman in questo contesto rappresenta il perfetto attore esterno: egiziana, araba, donna, accademica. Avere il colpevole permette alle altre parti di continuare a fare come se niente fosse successo”. E molti in Italia come in Egitto hanno interesse a fare dimenticare il caso Regeni, alla luce di accordi economici e militari mai stati così importanti nella storia dei due paesi.

L’omicidio di Regeni, spiega ancora Fahmy, “ci ha fatto tornare indietro di cinquant’anni, quando gli studi mediorientali erano fatti in biblioteca. Si studiavano l’islam e l’arabo al tavolo e si guardava poi alla regione dall’alto di questo sapere. Le cose sono cambiate, fortunatamente per noi, europei come egiziani, con la critica dell’orientalismo di Edward Said. E la conoscenza tra i popoli è migliorata immensamente grazie alla ricerca sul campo. Ora, se rifiutiamo il confronto sul campo, avranno vinto i despoti, da Al Sisi a Putin”.

Un’altra accusa molto pericolosa per le prossime generazioni di ricercatori se non si fa chiarezza su questo punto è l’accusa di spionaggio. Fahmy spiega che è un’accusa diffusa in Egitto: “per i servizi segreti, ma anche per i cittadini, un giovane straniero che parla arabo e fa domande è spesso considerato una spia. Ed è anche vero che è facile essere confuso. Un ricercatore e una spia fanno in un certo modo un lavoro simile, parlare la lingua e capire la situazione. Ma c’è anche una grande differenza: la ricerca, in antropologia, in etnografia trova le informazioni sul campo, ma poi le pubblica, rende i suoi ritrovamenti pubblici. Non ci sono rapporti segreti”.

Questa diffidenza verso gli stranieri è stata particolarmente accentuata dal regime di Al Sisi dopo il 2016, spiega Fahmy. C’è sempre bisogno di una conoscenza più approfondita, conclude. La differenza è nell’approccio: “I ricercatori esplicitano sempre la loro metodologia, non nascondono l’obiettivo della ricerca, non nascondono nulla, come, tra l’altro, si è comportato Regeni in quanto eccellente ricercatore”. Filmato a sua insaputa da Mohammed Abdallah, il capo degli ambulanti che lo ha denunciato ai servizi e che, sottolinea Fahmy, “è il vero colpevole della faccenda, una persona purtroppo corrotta dentro”, Regeni si è comportato come un ricercatore impeccabile: è stato coerente, trasparente e moralmente inattaccabile.

Resta ora da augurarsi che tutti gli attori che devono partecipare alla ricerca della verità sul suo omicidio possano essere così coerenti, trasparenti e moralmente inattaccabili quanto lo è stato Giulio Regeni.

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