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Come parlare di immigrazione a scuola

È complicato, a scuola, in questi giorni parlare di immigrazione. È complicato innanzitutto perché la morte di 800 persone non è entrata nel discorso pubblico con quella forza dirompente che ci si sarebbe aspettati. Nessun giornale è andato a cercare di capire chi erano i migranti morti, a dargli un nome, a ricostruire le loro vicende familiari. Spesso quando accadono stragi del genere, per settimane i mezzi d’informazione sono pieni di testimonianze dei parenti e dei superstiti; in questo caso la voce delle vittime è stata praticamente spenta insieme a quella dei morti.

Ma è complicato parlarne a scuola, intavolare un dibattito in classe, anche perché le voci politiche che hanno dominato la reazione si sono modulate da subito su un’isterica ricerca delle cause, che in pochi secondi diventa una caccia ai colpevoli e quindi la loro criminalizzazione.

I migranti arrivati ad Augusta vengono scortati dagli agenti della guardia di finanza, il 22 aprile 2015.

È un meccanismo pavloviano: di fronte a qualunque tema che si impone con urgenza, che si sia al governo o all’opposizione, si risponde con “un inasprimento delle pene e dei controlli” – un afflato che può valere in modo onnicomprensivo. Dai femminicidi alla gente che spara al Palazzo di giustizia, da Charlie Hebdo ai disastri aerei: promettere o promulgare subito pene più severe e controlli più rigidi viene usato come politica ansiolitica.

Anche se in questo caso, a sottolineare il vero, c’era poco da inasprire: cosa possiamo fare di peggio a delle persone che hanno perso la vita in mare e che non avranno nemmeno una sepoltura?

Ci si è scagliati allora contro gli scafisti. Un movimento di immigrazione così ampio e articolato come quello che sta avvenendo dall’Africa all’Europa è colpa degli scafisti. Sarebbe un’affermazione che evidenzia la sciocchezza di chi la pronuncia, e invece mezzi d’informazione e politici l’hanno ripetuta come se addirittura avesse una sua forza morale.

Lo stesso Matteo Renzi ieri l’ha avvalorata nel suo discorso alla camera:

Combattere i trafficanti di uomini significa combattere gli schiavisti del ventunesimo secolo. La storia ha già conosciuto un momento in cui si prendevano uomini e si infilavano nei barconi e ciò che sta avvenendo ora con la compravendita di uomini è esattamente una forma di moderno schiavismo.

E perfino nel suo editoriale sul New York Times:

Human traffickers are the slave traders of the 21st century, and they should be brought to justice.

Ma che paragone è? Cosa c’entrano gli scafisti con gli schiavisti? Se un mio studente facesse un paragone del genere io lo inviterei a riflettere sulle sue parole.
Da una parte – oggi – ci sono persone che vogliono disperatamente scappare dai loro paesi e raggiungere l’Europa e che utilizzano gli scafisti; dall’altra – la tratta umana del settecento – c’erano persone strappate ai propri paesi e condotte forzatamente in un altro luogo. Quale pur minima analogia trovate?

La stessa sciatteria di ragionamento Matteo Renzi l’ha espressa per tutta la lunghezza del suo breve editoriale americano: un articolo che è stato evidentemente scritto con un’accurata scelta di frasi, e che per questo vi invito a leggere per intero.
Si dà per scontato, per esempio, che quest’immigrazione sia riducibile a un fenomeno illegale e che come tale vada contrastata. Si parla del Corno d’Africa solo per nominare la lotta alla pirateria come modello d’intervento, non spendendo una parola sul ruolo che ha avuto l’Italia in quell’area e azzardando un altro paragone pessimo: tra pirati e migranti. Si dice – senza citare una fonte, un dato, un numero – che “non tutti i passeggeri delle navi dei trafficanti sono famiglie innocenti”, ventilando l’ipotesi che questi viaggi alimentino un flusso di terroristi dalla Libia all’Italia; anche perché poche righe prima veniva chiamata in causa l’azione del gruppo Stato islamico in Libia.

E potrei andare avanti.

Ma quello che m’interessa è come quest’approssimazione colpevole di Renzi in questi giorni non sia un’eccezione. Il che rende molto complicato provare a discutere in classe di immigrazione: le affermazioni che non si reggono su nessuna evidenza empirica o su nessuna coerenza logica la fanno da padrone.

Eppure, forse, mi dicevo ieri dopo due ore di discussione sfiancante, non ci si può esimere (se non lo fa innanzitutto la scuola, chi lo fa?) dal condividere riflessioni e anche reazioni di pancia, provando a destrutturare le affermazioni che vanno per la maggiore.

“Vanno aiutati sì ma a casa loro”.

“Vengono qui e rubano il lavoro agli italiani”.

“Sono troppi”.

“La maggior parte sono criminali”.

“Se vogliono venire qui in Italia lo facessero in modo legale”.

Eccetera.

Il primo passo se si vuole provare ad avviare un dibattito su questi temi, anche a partire da questo genere di considerazioni, è darsi una regola preliminare e farla rispettare. Restare sul tema.

È molto complicato imporre questa regola, e non far derapare subito la discussione in: “E i campi rom?”,“Sì, ma sa cosa vuol dire la crisi e quanta gente perde il lavoro?”, “La criminalità aumenta e nessuno fa niente”. È difficile perché il modello di discussione – che sia la televisione con i talk show in cui il conduttore non arbitra tra le posizioni, o i blog con i loro commenti che nessuno modera – è il modello di argomentazione che gli studenti hanno presente e che hanno fatto proprio: discutere vuol dire accumulare opinioni, discutere vuol dire difendere a tutti i costi la propria (impulsiva) posizione.

Occorre innanzitutto chiarire che questi sono tutti temi interessanti, ma sono altri temi. E sovrapporli non aiuta a parlarne.

Poi bisogna chiedere ogni volta di avvalorare empiricamente e logicamente le proprie affermazioni.

Un esempio. Partiamo dall’idea che siano troppi e che siano una causa importante della crisi e dell’impoverimento dell’Italia.

Ogni volta che in classe chiedo: secondo voi quanti sono gli stranieri in Italia, segno le risposte(50 per cento, 25 per cento, 60 per cento, 15 per cento…), metto le percentuali in fila alla lavagna, faccio una media, e viene fuori all’incirca il 30 per cento.

Allora, prima di fornire il dato reale, invito a considerare: quanti stranieri ci sono in classe o a scuola? Mettiamo anche che la nostra classe o la nostra scuola sia un’eccezione: conoscete per caso una classe o una scuola dove le percentuali di stranieri sono così alte? E se sì, non vi sembrano quelle un’assoluta eccezione?
Il numero di stranieri presenti in Italia è di circa l’8 per cento della popolazione. Quello che potrebbe essere definito il“tasso di immigrazione percepita” varia dal 20 al 30 per cento, secondo vari studi. Abbassare questo tasso, almeno a scuola, credo sia una priorità assoluta.

Ma aggiungiamo un piccolo passo d’analisi, ponendoci un altro interrogativo. Quanta ricchezza producono gli stranieri in Italia? Quanto contribuiscono al Pil nazionale? Se faccio questa domanda in classe, le risposte che ricevo variano dallo zero per cento fino al 5. Difficilmente raggiungono mai l’8 per cento. E sono anche delle risposte comprensibili: gli stranieri hanno di media lavori meno redditizi degli italiani: quanti dirigenti d’azienda stranieri conoscete? O quanti italiani conoscete che raccolgono pomodori d’estate?

Eppure il dato è superiore: almeno il 10 per cento.

Come è possibile? Per una semplice ragione: gli stranieri incidono molto meno degli italiani sulla spesa sociale. Quanti stranieri anziani conoscete? Quanti dializzati? Quanti diabetici? Quanti disabili? Quanti pensionati? Quanti invalidi civili?
Se i redditi medi sono minori da una parte, dall’altra utilizzano il welfare molto meno degli italiani.

Facciamo un altro esempio: nella bolla di chiacchiere, reazioni a caldo, dichiarazioni ufficiali e non di questi giorni successivi alla strage, una delle questioni che non è stata quasi mai nominata è quella dei profughi, dei rifugiati, dei richiedenti asilo.
Quasi nessuno ricorda che il vero motivo di quest’ondata di ultime migrazioni è la fuga da situazioni di conflitto in Africa e che di fatto è un dovere accogliere chi “nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale oppure opinioni politiche, si trova fuori dello stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopraindicato, non vuole ritornarvi”.
È quello che recita la convenzione per i rifugiati del 1951, un documento scritto dopo due guerre mondiali che avevano generato oltre 70 milioni di morti e una quantità spaventosa di profughi.

Il diritto d’asilo non è un’opzione nel gioco delle parti: è un diritto, un dato giuridico. E ipotizzare blocchi navali, respingimenti, omettere azioni di salvataggio, non accogliere rifugiati non è solo immorale o inumano (su questo si può discutere anche con chi ha posizioni fasciste come Matteo Salvini o Daniela Santanché), è illegale.
Per esempio: tra il 2008 e il 2011, quando il governo Berlusconi-Maroni attuò respingimenti in mare, oltre a causare centinaia di morti, violò una legge e venne condannato.

Chi si occupa di profughi? Tra gli altri: l’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Studiare quando è stata fondata quest’agenzia dell’Onu, che funzioni ha, che storia ha, cercare di delineare una storia – almeno novecentesca – dei profughi può essere utile a contestualizzare l’ondata migratoria di oggi, ma soprattutto a riconoscere come alcuni diritti fondamentali – come il diritto d’asilo – siano il frutto di una lunghissima riflessione storica e civile.

Un ultimo esempio, brevissimo. La geografia. Uno degli interrogativi che alle volte pongo quanto ci mettiamo a parlare di sbarchi in classe è: quanto è grande la Libia e quanti abitanti ha?

Provate a rispondere anche voi senza guardare su Wikipedia.

Dopo aver sparato, confrontate la voce online, dove si dice: 6.120.585 abitanti (al censimento del 2008) per 1.759.840 km quadrati. Una densità di 3,9 abitanti a chilometro quadrato. Possiamo capire qualcosa da questo semplice dato? Sì.
Che è un paese demograficamente molto disomogeneo, con qualche zona abitata e un grande territorio desertico. Un paese molto difficile da governare come un’unità politica, soprattutto in una situazione di conflitto endemico come quella attuale. Riconoscere che la politica parte dalla storia dei luoghi e ancora prima dalla geografia può essere utile a contestualizzare e a correggere da subito le nostre convinzioni.

Un piccolo post scriptum.

Chi ha avuto in questi giorni la tenacia pedagogica di tenere il dibattito dentro le regole dell’argomentazione nel discorso pubblico? Quasi nessuno, nessun politico, pochissimi giornalisti, rari intellettuali. L’eccezione significativa c’è stata ieri con Gianni Morandi, che sul suo profilo Facebook ha replicato con una pazienza encomiabile a tutti i commenti al suo post in cui comparava le emigrazioni di oggi a quelle degli italiani all’inizio del secolo scorso.

Di fronte a “Questi stuprano!”, “Sono terroristi! Vanno uccisi!”, “Torna a cantare che è meglio”, Morandi ha mostrato la rarissima qualità di rispondere punto su punto, di controargomentare, di non esasperare o liquidare il dibattito.

Senza nessuna ironia e con un po’ di sconforto, è lui il modello pedagogico migliore da cui la scuola dovrebbe prendere esempio oggi.

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