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La riforma della scuola non ottiene il parere di costituzionalità al senato

Il governo è stato battuto sul parere di costituzionalità alla commissione affari costituzionali. Il voto è finito dieci a dieci. È stato determinante il voto contrario del senatore Mario Mauro, che ha lasciato la maggioranza

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Cos’è che proprio non va nella Buona scuola

A che punto è la riforma?

Il disegno di legge della Buona scuola è arrivato a metà del suo iter parlamentare: licenziato dalla camera, dal 3 giugno è in discussione al senato. Non molto è cambiato dall’impostazione originaria, nonostante il gran numero di interventi in aula, di controproposte, di esplicite richieste di cambiamenti di singoli punti; nonostante lo sciopero del 5 maggio; e nonostante tra il 27 e il 28 maggio in commissione istruzione ci siano state più di quaranta audizioni. Considerato che aria tira, probabilmente anche in senato il dibattito riguarderà solo aspetti marginali.

Sul sito di Orizzonte scuola intanto si può trovare un’ottima sintesi (sempre in aggiornamento) della riforma allo stato attuale.

Ecco i punti più rilevanti.

  • Incentivi all’autonomia scolastica (che però rimane più sinonimo di accentramento che di autogestione);
  • Gli insegnanti di sostegno che forse non saranno lasciati alla deriva ma ancora non c’è nulla di conclusivo sulle assunzioni (le tante vituperate graduatorie a esaurimento, per dire, non saranno eliminate);
  • Gli insegnanti neoassunti che avranno un anno di prova in cui verranno giudicati anche dagli studenti;
  • Una supermobilità dei docenti: prima che entri in vigore il piano di assunzioni triennali, per il 2015/2016 pare che si potrà essere destinati un po’ ovunque;
  • Cancellare il 5 per mille alla scuola dei propri figli, dopo che aveva suscitato uno sdegno diffuso (non piange nessuno);
  • La possibilità data ai presidi di scegliere i docenti (per tre anni rinnovabili, dagli ambiti territoriali, i supplenti fino a dieci giorni), i collaboratori, e assegnare incarichi e supplenze anche senza specifica abilitazione;
  • Benefici fiscali a chi fa donazione sia alle statali sia alle paritarie;
  • Una bonus card di 500 euro per gli insegnanti e saranno stanziati, dal 2016, 40 milioni annui per la formazione obbligatoria (questa parte è lodevole, anche se ancora confusa);
  • La valutazione dei docenti da parte di una commissione composta dal dirigente, due docenti e una rappresentanza di docenti e studenti: quelli giudicati migliori – secondo criteri decisi dal comitato stesso – riceveranno dei soldi in più (secondo un’idea scellerata di meritocrazia);
  • Insieme a tutte queste misure ce ne sono altre meno incisive – compresa una serie di norme di delega al governo che sono state tolte, aggiunte, ritolte, riaggiunte, ritolte. E un provvedimento invece significativo sull’edilizia scolastica: uno stanziamento consistente di quasi un miliardo di euro.
Liceo Virgilio di Milano, giugno 2011.

È un problema di comunicazione il fatto che questa riforma non convinca nessuno?

Pur con tutto questo attivismo legislativo, la Buona scuola, che doveva essere il cavallo di battaglia del governo di Matteo Renzi, si sta rivelando invece un cavallo di Troia che sta minando dall’interno la solidità dell’azione e ancora di più il consenso del governo.

Da una parte una schiera molto compatta di insegnanti e lavoratori della scuola sta, di fatto, rappresentando l’unica opposizione robusta in questo momento in Italia (scioperi riuscitissimi, credibili minacce di blocco degli scrutini, una rete capillare di informazione dal basso, controproposte legislative come quella d’iniziativa popolare eccetera); dall’altra chi ha progettato questa riforma si trova costretto a giustificarne ogni giorno lo spirito e la lettera di fronte alle critiche.

Matteo Renzi stesso, che non è certo abituato a fare autocritica, ha più volte dichiarato come il governo ha sbagliato la comunicazione nel merito.

Così nelle ultime settimane si sono succeduti una serie di documenti tutti volti a spiegare le linee guida della riforma e a manifestare una volontà di ascolto.

Ma se la lezione di Renzi alla lavagna è stata analizzata, criticata, sbeffeggiata e parodiata in decine di modi, sono circolati altri due articoli – in difesa d’ufficio della Buona scuola – che è interessante leggere.

Il primo è di Davide Faraone, sottosegretario all’istruzione, ed è stato scritto in forma di lettera al Foglio come risposta allo sciopero. Fin dal titolo – che forse non è responsabilità di Faraone: “La Buona scuola è più di una riforma, è made in Italy di idee” – l’intento del governo è spiegato con una serie di slogan che sono un concentrato di retorica motivazionale e pseudomanageriale. Eccone qualche stralcio:

Abbiamo presentato un emendamento che introduce tra le deleghe del ddl ‘La Buona Scuola’, che riguarda il potenziamento della formazione nel settore delle arti e del Made in Italy in tutti i cicli e i gradi della scuola. Vorremmo che le scuole – da sole o in rete – dialogassero con soggetti terzi per apprendere le specificità italiane legate all’alta qualità artistica, culturale, artigianale e per spendere queste nuove competenze nei settori di ripresa della nostra economia (…) Basta risorse sperperate come i coriandoli. Un’unica grande missione, le ricchezze italiane nel mondo, su cui canalizzare le risorse comunitarie e non (…) Ogni ambito di ricerca è stato ricompreso in un orizzonte di azioni e di programmazione, inserendo anche in questo caso il brand Made in Italy, sigla del talento italiano, che ci rende competitivi nel mondo e che il mondo ci chiede (…)
Qualcuno ci ha detto che abbiamo consegnato le chiavi della scuola a Marchionne. Conservatori. Noi finalmente facciamo dialogare mondi che inspiegabilmente finora sono stati separati. Creiamo sinergia. Abbattiamo steccati. È un cambiamento rivoluzionario, ne siamo consapevoli. Eppure fare un investimento di fiducia sul futuro, mettendo a frutto le risorse che abbiamo per natura e per tradizione, è un atto dovuto per i nostri ragazzi. Il coraggio per compiere il salto non ci manca. E non manca neanche agli italiani.

L’impressione che un insegnante o un genitore qualunque ne ricava è che Davide Faraone non abbia la minima idea di cosa è stato e cos’è il dibattito sulla scuola, da un punto di vista scientifico, pedagogico, sociologico; e che applichi in modo approssimativo alcune categorie dell’industria culturale a questioni che avrebbero bisogno di ben altra conoscenza e visione.

Quest’aria di “innovazione” e di “modernizzazione” puzza di colla scaduta, e non si capisce come Faraone stesso non se renda conto.

Il 22 maggio, all’indomani dell’approvazione alla camera della Buona scuola, è uscito invece in prima pagina sulla Repubblica un articolo di Marco Lodoli. Non si può negare che sia scritto meglio di quello di Faraone, ma evidenzia molte altre carenze dal punto di vista sia argomentativo sia retorico.

Lodoli racconta di aver partecipato a molte riunioni al ministero in preparazione della riforma e addirittura confessa di essersi inventato il nome, la Buona scuola; e per questo ammette uno sconcerto assoluto quando il 5 maggio le piazze d’Italia sono state inondate dai cortei dei suoi colleghi in sciopero, mentre lui e il suo preside si aggiravano come fantasmi solitari tra i corridoi vuoti della sua scuola a Torre Maura. Cosa è andato storto? Perché – si chiede Lodoli – non sono riuscito a convincere i colleghi della bontà di questa riforma?

Secondo il racconto lodoliano, i professori sono restii non solo alle novità ma all’idea stessa che qualcosa possa cambiare: scottati da troppe riforme zoppe e promesse non esaudite, ora si trincerano in un’opposizione tutta pregiudiziale, incapaci di riconoscere gli aspetti progressisti di questo disegno di legge.

Perché è interessante leggere l’articolo di Lodoli? Non tanto per l’analisi – piuttosto superficiale – quanto per il ritratto dei professori e degli studenti: “un professore pignolo con il borsello a tracolla”, “l’alunna arrabbiata cronica”, “il prof marxista-leninista”, “un professore incline al lamento catastrofico come quasi tutti”, “un collega romanissimo che sorride beffardo” eccetera.

Se la scuola di Davide Faraone sembra essere stata colonizzata da truppe di scaltri sindacalisti all’arrembaggio, quella di Lodoli è popolata solo di macchiette, muffite e sclerotizzate nelle loro convinzioni e abitudini.

Si comprende allora quale sia la visione contro cui gli avvocati della Buona scuola possono scagliarsi, in nome di un illuminismo solo dichiarato e di una vulgata modernizzatrice: l’idea di una classe docente cialtronesca e corporativa.

E qui si annida l’errore più grave, politico e comunicativo, di Renzi e dei suoi collaboratori. Perché di fronte a questo alone di presunta modernità, nella realtà di chi la scuola la conosce e la frequenta si oppongono molte buone pratiche di professori aggiornatissimi e la competenza di tanti sindacalisti che si occupano bene di scuola.

Cos’è che non piace strutturalmente in questa riforma

Sul sito di Wu Ming è uscito un articolo molto affilato firmato collettivamente da un gruppo di docenti, studenti e bidelli coordinati da Girolamo De Michele e Carmelo Palladino, che indica perché tutto l’impianto di questa riforma – non i singoli articoli – sia contestabile.

Il punto fondamentale è che – in nome di una migliore organizzazione scolastica – si sta tentando, nemmeno tanto surrettiziamente, di “aziendalizzare” l’istruzione.

“L’aziendalizzazione della scuola pubblica, con la legge 59/1997, investe sia il piano lessicale (il preside è diventato dirigente, lo studente utente, gli obiettivi educativi offerta formativa) sia quello pratico (le istituzioni scolastiche, cui è stata conferita personalità giuridica, possono accettare donazioni da privati, stipulare convenzioni con soggetti esterni, partecipare a consorzi per acquisire beni e servizi)”.

Oggi sembra normale che una teoria della valutazione nata per l’industria possa essere applicata anche nel mondo della scuola, agli studenti e agli insegnanti. Ma è davvero normale?

Il grimaldello con cui questo dispositivo sta sostituendo la relazione educativa e la costruzione democratica è uno strano miscuglio di retorica politicista e aziendalista.

Parole come competenze, eccellenza, meritocrazia, bonus, benefit sono ormai termini entrati nell’uso comune, rispetto ai quali dobbiamo ripensare quello che avviene sia in classe sia fuori della classe. Perché diamo per scontato che sia così?

Un paio di numeri recenti della rivista Aut Aut (uno sulla scuola e uno sulla valutazione) possono aiutare ad abbozzare alcune risposte.

Nel primo si trova un bel saggio di Eduardo Greblo, che fa un’archeologia critica su questa moda delle “competenze” – a partire da Agire le competenze chiave. Scenari e strategie per il benessere consapevole di D.S. Ryken e L.H. Salganik (“un importante strumento di lavoro per policy-maker, imprenditori, responsabili scolastici, formatori, consulenti e chiunque operi nel campo delle risorse umane”, come recita l’eloquente scheda di presentazione), per poi mostrare come la teoria delle competenze possa avere obiettivi discutibili, come per esempio misurare con pretesa di oggettività qualcosa di non misurabile: ho dei numeri, formulo un giudizio, una valutazione su qualcosa che in realtà vive nell’assoluto arbitrio.

E, inoltre, pretende di spingere gli studenti alla flessibilità, all’adattabilità, a un’integrazione nel mondo del lavoro, a rendere il pensiero critico neutrale e strumentale ai bisogni delle aziende (come scrivono Ryken e Salganik: “Incentivare una vita realizzata e il buon funzionamento della società, già a partire dai curricola scolastici. La flessibilità, l’adattabilità, la mobilità sono le caratteristiche che l’uomo moderno deve possedere per vivere consapevolmente la sua vita e per far fronte alla molteplicità di ruoli che affronta quotidianamente”).

Nel secondo numero di Aut Aut si possono leggere i due saggi di Valeria Pinto (autrice di Valutare e punire) e Francesca Coin.

In quello di Coin, in particolare, si rintraccia la matrice di questo afflato ipervalutativo nel cosiddetto modello del toyotismo o della “qualità totale”. Bisognerebbe rileggere un libro uscito una decina d’anni fa per Einaudi, Lo spirito Toyota, per riconoscere nell’ideologia di Taiichi Ohno l’impianto teorico di questa riforma.

Nel sistema Toyota solo un terzo della busta paga era assicurato mensilmente secondo un contratto. Il resto dipendeva dalla produttività, dai tassi di assenteismo e dalla “lealtà” dei lavoratori agli interessi e agli obiettivi aziendali. Nella Buona scuola il sistema premiale per gli insegnanti non avrà caratteristiche molto simili?

Il saggio di Coin aiuta a scardinare anche la retorica della meritocrazia. “Nell’istruzione, il merito diventa così un dispositivo di accesso, il filtro che si prefigge di allocare talenti e capitale umano sul mercato sulla base del loro valore intrinseco, smarcando l’individuo meritevole dalle moltitudini eccedenti, come l’eccellenza si smarca dalla massa”.

Riprendendo la prefazione alla prima edizione del libro di Michael Young in cui si coniava il concetto stesso di meritocrazia: “La meritocrazia come un concetto discriminatorio, che giustifica una drammatica diseguaglianza sino a divenire l’esatta antitesi della democrazia”.

Nell’analisi di questo ritornello del “merito”, Coin suggerisce anche di rileggere l’ultimo articolo scritto da Bruno Trentin, uscito sull’Unità del 13 luglio 2006, in cui si individuava in questa retorica una pericolosa deformazione della tradizione di sinistra:

Soprattutto negli anni ‘60 del secolo passato, quando mi sono confrontato con la struttura della retribuzione, alla Fiat e in altre grandi fabbriche e ho scoperto la funzione antisindacale degli ‘assegni’ o ‘premi’ di merito, quando questi, oltre a dividere i lavoratori della stessa qualifica o della stessa mansione, finirono per rappresentare un modo diverso di inquadramento, di promozione e di comando della persona, sanzionato, per gli impiegati, da una divisione normativa, che nulla aveva a che fare con l’efficienza e la funzionalità, ma che sancivano fino agli anni ‘70 la garanzia del posto di lavoro e quindi la fedeltà all’impresa.

Non rischia di suonare vagamente inquietante se si pensa al sistema con cui questa riforma ha immaginato di assegnare premi e incentivi agli insegnanti?

Del resto l’aggressività con cui questo governo si scaglia ogni giorno contro i sindacati (sempre Davide Faraone nell’articolo che abbiamo citato sopra: “Ogni volta che si parla di scuola in Italia, gli italiani escono dal campo da gioco ed entrano in campo i sindacalisti della scuola. Noi vogliamo cambiare il paradigma, ma anche il suo racconto, desindacalizzandolo”) fa il paio con un’ideologia classista dell’istruzione che Renzi sposava fin da quando era sindaco di Firenze.

Nell’articolo di De Michele si recuperano anche le lodi sperticate che nel 2011 Renzi tesseva al libro di Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo, attaccando la tradizione di scuola democratica del novecento e tratteggiando quale sarebbe stata la sua futura linea di condotta: “Il libro non solo offre una godibile e ironica istantanea sui ragazzi di oggi, dalla cura o incuria del look ai pregi e difetti del correttore automatico di word, ma mette in discussione anche modelli come don Milani o Gianni Rodari, e infine ci invita a pensare a come vorremmo la scuola del futuro, a ragionare se la impostiamo sui sogni dei ragazzi o piuttosto sulle paure del nostro tempo”.

Ogni volta che si prova a mettere in discussione questo modello ipervalutativo (per quanto riguarda gli studenti e gli Invalsi si può leggere l’illuminante lavoro fatto dalla maestra Adriana Presentini con i suoi bambini di quarta elementare) c’è qualcuno che risponde con il ritornello che gli insegnanti non vogliono farsi valutare.

È evidentemente una cattiva banalità.

Quello che servirebbe non è certo un sistema premiale gerarchico (legato agli incentivi economici), ma un metodo di correzione in itinere e una scuola che metta al centro la cooperazione e l’educazione tra pari, sia in classe sia nell’organizzazione. Tutto questo tra l’altro esiste già in centinaia di buoni esempi sparsi per tutta Italia che potrebbero essere aiutati a mettersi in rete.

Se poi si vogliono penalizzare i professori che non fanno il loro lavoro bene – assenteisti, inadeguati – basta semplicemente applicare regole che già esistono. Per il resto si dovrebbe – come suggeriscono De Michele & co. – improntare la formazione permanente seguendo i modelli di autogestione, che in questi anni di riforme disastrose e di stipendi ridicoli, hanno compensato l’assenza di risorse della cattiva politica sulla scuola.

Per poter intervenire soprattutto su quegli aspetti praticamente dimenticati da questa Buona scuola: lotta alla dispersione, riforma dei cicli, elevamento dell’obbligo scolastico a 18 anni e istruzione permanente.

Sull’annosa questione delle assunzioni si può dire, invece, che poteva essere risolta con un decreto a parte, magari non pensato con gli stessi criteri con cui è stato costruito il disegno di legge, e che così ci saremmo risparmiati un anno di proteste a questa riforma modesta e molesta?

Una classe del liceo Virgilio di Milano, maggio 2011.

Qualcosa può ancora cambiare?

Un’analisi simile a quella delineata fin qui l’ha elaborata il senatore del Partito democratico Walter Tocci. All’indomani dello sciopero del 5 maggio, aveva già chiesto al governo Renzi un’inversione di rotta.

Inascoltato, ha pubblicato sul suo sito un paio di documenti molto interessanti, che indicano in modo pratico quali dovrebbero essere le modifiche legislative per provare a salvare questa riforma. Vale la pena leggerli per intero.

Il primo è un saggio molto duro, che affronta il merito della riforma e il metodo del governo.

La legislazione degli ultimi venti anni dice sempre le stesse cose ma in un linguaggio legislativo sempre più scadente. È una ripetizione senza apprendimento. Su scuola-lavoro, per esempio, il parlamento aveva già legiferato, da ultimo nel 2013, rinviando l’attuazione a un regolamento, ma il governo invece di scriverlo ricomincia da capo chiedendo una delega a scrivere il regolamento. Fa più notizia approvare una legge che attuarla. È più facile comunicare che governare.

Ma soprattutto compie una diagnosi culturale e storica delle cattiva ispirazione della Buona scuola.

Tra le molte cose condivisibili e approfondite che scrive Tocci – e ci si chiede perché Renzi abbia preferito Giannini o Faraone al posto di persone del suo stesso partito che dimostrano una conoscenza così approfondita di trent’anni di dibattito politico sulla scuola – c’è un’osservazione di tipo antropologico, che segnerebbe un serio cambio di prospettiva se fosse adottata:

La dottrina alla moda dice che la qualità di un sistema si innalza con le eccellenze. La qualità di sistema non si misura sulle punte isolate, ma dipende dalla gran parte degli insegnanti ‘sufficientemente buoni’, secondo l’espressione introdotta da Donald Winnicott per sfatare il mito della ‘madre perfetta’. La politica pubblica deve valorizzare proprio questo insieme dei ‘sufficientemente buoni’ che forma il carattere di un sistema scolastico nazionale. Negli ultimi decenni, invece, sono stati demotivati e penalizzati da quasi tutti i provvedimenti legislativi: il blocco degli stipendi, la mancanza di risorse, la complicazione burocratica. Rimaneva solo una forza a loro disposizione, la titolarità della cattedra e la libertà di insegnamento. Se viene meno anche quest’ultimo riconoscimento, si ferisce la dignità dell’insegnante. La ragione profonda della protesta che il governo non riesce neppure a capire.

Le modifiche che Tocci chiede – è il secondo documento – sono tante e tali che certo se fossero accolte il disegno di legge avrebbe un altro valore.

Su due aspetti in particolare i cambiamenti proposti sono davvero profondi: da una parte l’idea che invece della formazione legata al merito e alla valutazione per gli insegnanti si possa creare una classe di formatori esperti, di formatori di formatori, che nel medio periodo possano – attraverso un percorso che non è premiale ma a sua volta educativo – effettivamente aumentare la cooperazione tra docenti e la qualità dell’insegnamento; dall’altra la difesa della dignità del lavoro del docente, con una serie di garanzie – a partire dalla titolarità – anche per i neoassunti.

Il tentativo di Tocci, lodevolissimo anche se non uniforme nella proposta, arriva fuori tempo massimo? O potrebbe essere una piattaforma per cercare in parlamento un compromesso tra sostenitori e critici della Buona scuola?

Se Renzi accettasse non i rilievi secondari, pure significativi e indicativi della qualità legislativa di Tocci, ma quelli cruciali – che riguardano formazione e lavoro – dimostrerebbe acume e umiltà.

È molto difficile che accada. Quel che è più probabile è che alla fine uscirà dalle aule una legge-groviera: un pasticcio pieno di deleghe in bianco che andranno a riempirsi nei prossimi anni, con una serie di decretini che non passeranno al vaglio di una reale e approfondita discussione – cosa che, a parte tutto, almeno in questi mesi si è prodotta.

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