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La scuola è un laboratorio politico 

Klaus Vedfelt, Getty Images

La politica deve restare fuori dalla scuola: nell’ultimo anno ci sono stati vari episodi e dichiarazioni che hanno alimentato questo tipo di retorica.

Il caso più eclatante è stato quello dell’insegnante palermitana Rosa Maria Dell’Aria, sospesa 15 giorni lo scorso maggio per non aver vigilato sui suoi studenti che avevano preparato un lavoro scolastico in cui si paragonavano leggi razziali e decreto sicurezza. L’allora ministro dell’istruzione Marco Bussetti e quello dell’interno Matteo Salvini hanno prima lasciato che la sanzione facesse il suo corso; poi, in seguito alla vasta rete di solidarietà che si era formata a sostegno dell’insegnante, hanno messo in scena una specie di rito di perdono, incontrando Dell’Aria, che il 27 maggio è rientrata in classe. Nonostante le promesse, però, il provvedimento nei suoi confronti non è stato annullato, nessuna delle autorità coinvolte ha chiesto scusa e a giugno il suo avvocato ha depositato un ricorso contro il Miur e lʼufficio scolastico della regione Sicilia. Dell’Aria comincerà il nuovo anno con il procedimento ancora aperto.

All’inizio di agosto la sindaca di Monfalcone Anna Cisint ha scritto un post su Facebook contro gli “insegnanti politicizzati”, lanciando contemporaneamente una campagna con l’hashtag #fuorilapoliticadallascuola e difendendosi in maniera aggressiva da chi l’ha da subito criticata.

I ragazzi mi hanno raccontato di situazioni gravi, di negazionismo, odio verso il Ministro Salvini e verso di me tutto dichiarato in classe durante le ore di lezione. Ma come, non siete per la verità sempre e comunque? Non siete per la democrazia e la libertà di opinione? E allora perché l’ascolto genera una tal angoscia? Male non fare paura non avere e se non avete la coscienza sporca state sereni. Vergogna è altro, è usare i ragazzi.

A un episodio come quello di Dell’Aria o alle parole come quelle di Cisint non mancano mai le reazioni preoccupate da parte di sindacalisti e politici: tanti richiamano ogni volta l’articolo 33 della costituzione (“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”), che stabilisce come anche l’educazione politica sia una parte fondamentale di qualunque pedagogia.

C’è però un segno dei tempi più importante da cogliere in questi episodi. Per decenni l’idea che la scuola fosse un laboratorio politico è apparsa una cosa ovvia, oltre che una prospettiva che faceva eco allo spirito costituzionale. Prendiamo i discorsi di Piero Calamandrei, uno dei costituenti più autorevoli, sulla scuola: un classico del pensiero politico novecentesco, testi cardinali di un eventuale programma di educazione civica. Oggi la domanda che ci possiamo fare è: sarebbero tacciati di eccessiva politicizzazione?

Anche chi non frequenta il mondo dell’educazione può giungere alla constatazione opposta: almeno un decennio di retorica antipolitica ha fatto sì che ci sia poca politica a scuola. Nelle classi, fuori dalle classi. E questo non nel senso che viene evocato dai mezzi d’informazione impauriti – insegnanti che inscenano comizi, libri di testo che fanno propaganda… – quanto nel senso dell’immiserimento del dibattito pubblico sulla scuola, sempre più legato a questioni amministrative o rivendicative (concorsi, assunzioni, salari), e sempre meno a temi di pedagogia pubblica. Quei luoghi fondamentali di partecipazione democratica che sono gli organi collegiali (la cui istituzione nel 1974 fu un caposaldo del riformismo degli anni settanta), ossia i collegi dei docenti, i consigli di classe, oltre alle assemblee degli studenti, sono spesso ridotti a dirimere questioni legate al qui e ora del singolo istituto.

Un’assenza pesante
Quello di cui invece ci sarebbe bisogno sarebbe un confronto sul ruolo che deve avere la scuola nella società. Così è sembrato naturale che il 10 luglio la pubblicazione del rapporto annuale dell’Invalsi abbia aperto un dibattito che nel novecento italiano era stato di altissimo livello, grazie a tre tradizioni che si sono intrecciate: quella marxista, quella cristiana e quella laica.

Quella dell’Invalsi è la fotografia di un vuoto, che però non tiene conto di un’altra assenza, ancora più forte. Negli ultimi anni nessun pedagogista è diventato una figura di riferimento del dibattito sulla scuola. I libri più letti sul tema sono stati scritti, nella maggior parte dei casi, da professionisti di altri campi: giornalisti come Giovanni Floris (L’ultimo banco. Come insegnanti e studenti possono salvare l’Italia), psicanalisti come Massimo Recalcati (L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento) e storici come Ernesto Galli della Loggia (L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola).

Al di là dei giudizi di merito sui singoli testi, si può dire che il tratto comune di questi saggi sia che di fronte all’emergenza, alla crisi educativa (o sfida, se siamo meno pessimisti), non si pensa di interpellare il sapere dei pedagogisti, nemmeno quelli più canonici nella storia dell’educazione, da John Dewey a Maria Montessori.

Due classici
Come si può allora provare a intervenire in questo dibattito? Su quali testi formare la propria opinione? Due case editrici sempre attente al nesso tra politica e pedagogia hanno ripubblicato quest’anno due testi che sono dei piccoli classici del novecento. La prima è Elèuthera con La città e la scuola di Lamberto Borghi; la seconda è Gli asini con Le nuove tecniche didattiche di Bruno Ciari.

La città e la scuola, a cura di Goffredo Fofi, è stato pubblicato per la prima volta nel 2000 – ossia l’anno della morte dello stesso Borghi –, e raccoglie una dozzina di testi scritti tra il 1951 e il 1991, quasi tutti pubblicati su Scuola e città, la rivista che Borghi ha anche diretto dal 1955 al 1972. Ci sono saggi tematici su autori come John Dewey, Janusz Korczak e Aldo Capitini; e riflessioni più generali, come quella intitolata Scuola e società, dove Borghi dichiara quella che sarà la direzione di tutta la sua ricerca pedagogica:

Io ritengo che formare degli uomini all’indipendenza del pensare e dell’agire significa formare membri di una società diversa dalla nostra, cittadini di una nuova e migliore società. Educare all’autonomia significa creare attitudini all’autogoverno, chiamare alla responsabilità nella vita individuale e sociale, sottrarre alle suggestioni autoritarie.

Siamo nel 1952, molto prima del sessantotto, ma è già ben chiaro come solo in un’educazione che valorizzi l’autonomia degli studenti si possa compiere quel processo di trasformazione della società che la politica chiede.

Il libro di Bruno Ciari, come dice lo stesso titolo, è invece un semplice testo di didattica: propone metodologie didattiche – molte mutuate da Célestin Freinet – soprattutto per i bambini di quella che una volta erano le elementari (il libro è stato pubblicato per la prima volta nel 1961, Ciari è stato un maestro che ha fatto parte del Movimento di cooperazione educativa). Ma ci sono un’introduzione, anche questa di Goffredo Fofi, e un ultimo capitolo, dove la prospettiva politico-pedagogica di Ciari viene esplicitata.

Oltre a vedere com’è fatto il mondo, si deve cercare di modificarlo, d’intervenire. Nel plesso scolastico si tratta di stabilire rapporti di collaborazione, di scambio, di lavoro comune con le altre classi. Si cerca di portare in seno alla famiglia il soffio dell’educazione nuova. Comunque, il ragazzo che a scuola vive in un certo modo, anche fuori, in ogni suo atto rifletterà il costume razionale acquisito. Guardiamo ora al futuro. Il ragazzo che si è identificato col suo gruppo, con la classe, che ha esteso in tal modo la sua coscienza morale, è ben disposto a compiere altre identificazioni ed espansioni; è disposto a sentire veramente l’associazione civile, politica, ideologica, come qualcosa di cui egli fa parte organica pur rimanendo se stesso; è atto a far propri problemi degli altri, della comunità nazionale, e anche dell’intera umanità. Una scuola di egoismo, di utilitarismo gretto, di paure e di greve meccanicismo, non può che coltivare gli abiti opposti.

In ogni politica dell’educazione c’è una visione ovviamente proiettata in avanti, ma leggersi quella che Ciari delinea nel 1961 – prima ancora cioè delle grandi riforme dell’istruzione, come quella della media unica – ci dà un senso di apertura alle possibilità che la scuola spalanca, ma anche di responsabilità per quello che possiamo fare noi oggi. A partire non solo da settembre.

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