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Estate in città

“Alla fine dell’estate non ci arriviamo” scrive un amico in una chat collettiva in cui il desiderio di ricominciare come se tutto non fosse stato viene sfiancato dal caldo e dall’abulia di una stagione che mai come quest’anno genera le stesse ansie di rinnovamento del capodanno: dove andate, cosa fate, come state. Gli rispondo che è un bel titolo, buono per Franco 126, e invece mi sbaglio. Qualche ora dopo questo messaggio, sentirò la canzone perfetta per questa sensazione di loop e città esausta. Si chiama Spano, è di Spano, e anche l’album s’intitola così, in un minimalismo ripetitivo che si addice bene all’eleganza stordita del disco.


Prodotto da Love Boat e Liza, è fatto da otto tracce “ballabili ma non ballabili”, di beat e chitarre che si comportano come se non appartenessero a universi musicali diversi, e perché mai dovrebbero? Spano si basa sulla fusione/confusione dei piani sensoriali e degli impulsi che dovrebbero arrivare a un organo preciso e invece ne colpiscono un altro. I suoni che hanno una temperatura cerebrale non vanno al cervello ma allo stomaco, quelli più apparentemente commoventi e malinconici non finiscono nel cuore ma nella testa. Non male per un progetto basato anche sulla disarticolazione delle due persone che lo compongono: il compositore Paolo Spaccamonti e il produttore Stefano “Fano” Roman invitano anche a dimenticarsi dei loro nomi. Dimenticare è qualcosa che capita ascoltando Spano, un disco così efficace da imporsi anche su una certa idea di estate in città, lasciando posto solo a un desiderio sfinito.

Questo articolo è uscito sul numero 1415 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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