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Spatriati

In questi giorni al Festival di Mantova sta andando in onda una trasmissione radiofonica intitolata Tournée italiana in cui mi hanno chiesto di ripercorrere band e artisti italiani in base alle regioni, come ipotizzavo tempo fa in questa rubrica. Un Viaggio in Italia stile Guido Piovene che sarebbe bello qualcuno facesse sul campo, prima o poi.

Mentre compilavo le liste pensavo a quanto sia sempre più straniante legare le forme d’arte alla contingenza di una nazione, a una sempre storta idea di patria, se non attraverso l’uso della lingua. Così, pensando alle artiste e artisti che ho scelto, da Mai Mai Mai a Cemento Atlantico, da Silvia Tarozzi a Martina Bertoni, mi è venuto in mente l’ultimo romanzo di Mario Desiati, che prende il concetto di spatriati dal dialetto pugliese per indicare coloro che sono fuoriusciti e se ne sono andati dal paese, ma pure quelli che non si sono mai mossi da lì ma ci sono rimasti inquieti.


Più che tra le regioni, che possono essere finzioni convenzionali tanto quanto le nazioni, volevo fare un viaggio tra paesi, Appennini, ecosistemi, camerette, scantinati e strade e perfino processioni, tra unità atomiche più condensate, che spesso si rapprendono in un centro o in una periferia. E trovare lì tanti spatriati, artisti che dimostrano come ci sia vita oltre la trap, e come sia possibile raccontarla attraverso un italiano che inciampa o sparisce del tutto: dall’internazionale del rapper del conflitto Speranza alla lingua dell’errore di Iosonouncane fino ai campionamenti e alla smaterializzazione di riti di tanti anni in Sud e magia di Egisto Macchi.

Questo articolo è uscito sul numero 1426 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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