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The Fabelmans è l’autobiografia indulgente di Steven Spielberg

The Fabelmans. (Universal Pictures)

Spielberg ha sempre posseduto grandi capacità tecniche. Nessuno può sognarsi di metterlo in dubbio, o almeno spero che sia cosi. Lo squalo? La sequenza del D-day in Salvate il soldato Ryan? Buona parte di Lincoln? Probabilmente molte altre scene che non mi vengono in mente perché tendo a provare un odio profondo per i film di Spielberg? Tutte prove di grande efficacia cinematografica.

Il problema è che la sensibilità di Spielberg è talmente noiosa, solenne, sentimentale e sdolcinata da intaccare pesantemente le potenzialità del suo talento. Per questo motivo Spielberg è sempre stato il tormento della mia esistenza da cinefila. O almeno uno dei principali tormenti.

The Fabelmans, attualmente proiettato nelle sale, costituisce il resoconto autobiografico di come Spielberg sia diventato quello che è. È un gigantesco tributo meta-spielberghiano a se stesso. Guardare il film, per me, è stata soprattutto una tortura.

Geni leggendari
Con mia grande sorpresa, il film è proiettato nei cinema d’essai anziché nei grandi multisala. Con questa scelta Spielberg continua a rivendicare lo status di “artista”, come ha sempre fatto da quando ha conquistato il botteghino in modo talmente clamoroso – con Lo squalo, Incontri ravvicinati del terzo tipo, E.t. e le serie di Indiana Jones e Jurassic park – da non avere più esigenze economiche da soddisfare.

Dalla metà degli anni ottanta in poi – con film come Il colore viola (1985), L’impero del sole (1987), Amistad (1997), Salvate il soldato Ryan (1998), A.I. (2001), Munich (2005), War horse (2011), Lincoln (2012) e via discorrendo – Spielberg ha cercato di ripetere la mossa che era riuscita ad Alfred Hitchcock, passato dalla condizione di intrattenitore e autore di film popolarissimi allo status di genio leggendario.

The Fabelmans segue lo stesso solco dipingendo l’alter ego cinematografico di Spielberg, il giovane Sammy Fabelman (Gabriel LaBelle), come un genio della pellicola in una famiglia divisa in due campi, gli artisti da una parte e gli scienziati dall’altra. “Sammy è come me”, sentenzia sua madre Mitzi (Michelle Williams), una pianista vivace e dotata che sta perdendo la testa perché intrappolata nel ruolo di moglie e madre. Il padre, invece, è lo stacanovista e pacato Burt (Paul Dano), un brillante ingegnere che inanella una promozione dopo l’altra contribuendo allo sviluppo iniziale dei computer in aziende come la Rca, la General electric e l’Ibm.


Naturalmente Sammy rappresenterà sia gli artisti sia gli scienziati con la sua padronanza di una forma di espressione che combina l’estetica con la tecnologia. Alcuni dei momenti migliori dei film mostrano il modo in cui Sammy risolve ingegnosamente problemi cinematografici pratici come quello di dare l’impressione che le pistole di ragazzini cowboy in un western rudimentale sparino davvero (bucando la pellicola del film e creando scariche di luce alla fine della canna della pistola).

Spielberg, affiancato dal suo collaboratore abituale Tony Kushner (Munich, Lincoln, West side story), mette insieme una sceneggiatura eccessivamente schematica e spiega tutto lo spiegabile. Prendiamo per esempio la prima sequenza in cui Sammy, da bambino (Mateo Zoryon Francis-DeFord), va al cinema per la prima volta, a vedere Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille (1952). Mi piacerebbe poter dire che sia significativa la scelta di Spielberg di un film notoriamente mediocre, girato da un regista che nel corso di una lunga carriera ha fatto film sempre più popolari e sempre meno interessanti. E invece nasce semplicemente dalla mancanza di immaginazione. Il più grande spettacolo del mondo è proprio il primo film che il piccolo Stevie Spielberg abbia mai visto.

Comunissimo processo psicologico
Il piccolo Sammy, però, prova un improvviso terrore davanti al film. Così suo padre lo rassicura in termini razionali e ingegneristici, spiegandogli come funziona la proiezione delle pellicole. La madre, di contro, lo rincuora in termini espressivi, emotivi e artistici sollecitando il sogno meraviglioso a occhi aperti dell’esperienza cinematografica. Nessuno dei due genitori è consapevole del fatto che nel film sarà mostrato un incidente ferroviario e che il figlio ne resterà talmente impressionato che per molto tempo dovrà rimettere in scena quel trauma facendo scontrare i suoi trenini. Alla fine Sammy scopre che filmando l’incidente può evitare di distruggere i trenini ricevendone la stessa soddisfazione.

Preoccupati che il pubblico possa non capire questo comunissimo processo psicologico, Spielberg e Kushner fanno pronunciare a Mitzi la seguente frase, quando la situazione è ormai chiara da tempo: “Capisco, vuole avere il controllo sull’incidente”. Certo, giustissimo. In questo modo il ragazzo trasforma la paura paralizzante in un sentimento di spavento gestibile ma comunque emozionante. Per fortuna Mitzi non ha esplicitato anche questo.

In generale The Fabelmans è una fatica moralista come quasi tutti gli approcci di Spielberg a qualcosa di profondo. La povera Michelle Williams deve tendere ogni nervo e muscolo per portare un po’ di vivacità al ruolo di Mitzi, persa nelle monotone conversazioni da classe media degli anni cinquanta e impegnata a rispecchiare le atmosfere di Zia Mame per superare la tristezza. È la prima volta in cui ho visto Williams, un’attrice sensazionale, spinta verso momenti di recitazione sopra le righe, goffa, quasi clownesca.

Spielberg trasforma tutto in uno studio su ciò che la telecamera può rivelare in più rispetto all’occhio nudo. Roba da esordienti

Inizialmente ho pensato che questa scelta volesse indicare un serio disturbo mentale, magari con lo sviluppo di una psicosi. Ma a quanto pare Mitzi è solo profondamente depressa a causa di una carriera mai sbocciata come pianista e ballerina e della perdita del suo vero amore, l’affabile Bennie Loewy (Seth Rogen), chiamato “zio Bennie” dai bambini per via della sua onnipresenza nelle loro vite. Bennie si trasferisce addirittura insieme ai Fabelman dal New Jersey all’Arizona quando Mitzi convince Burt a trovargli un nuovo lavoro presso la General electric.

Da notare che preferendo Bennie a Burt, Mitzi si limita a scegliere l’ingegnere più esuberante tra i due. Entrambi gli uomini sono intelligenti, stabili, studiosi, occhialuti ed ebrei, e sono gentili con i bambini. La fine delle aspirazioni artistiche di Mitzi e la sua disperata estroversione come strumento per compensare la perdita costituiscono il lato più interessante del suo personaggio, ma la sua storia degenera gradualmente in un patetico racconto di una donna in bilico tra due ingegneri.

È un peccato, perché la perdita artistica è molto più affascinante [di quella sentimentale] e raggiunge il suo bizzarro apice a metà del film, durante una fatale gita di famiglia in campeggio, quando Mitzi esegue un balletto in vestaglia illuminata dai fari dell’auto. Le sue figlie, (Julia Butters, Keeley Karsten e Sophia Kopera) provano un imbarazzo sconcertante soprattutto perché il corpo della madre è visibile attraverso la vestaglia. I campeggiatori di sesso maschile – Burt, Bernie, Sammy – sono invece folgorati da questo improvviso sfoggio di espressione artistica, erotica, eccentrica e commovente, un’espressione che non ha più altri sfoghi.

Marcia trionfale
L’intrigo sentimentale tra Bennie e Mitzi che viene accidentalmente immortalato dalla telecamera di Sammy durante il campeggio si riduce a piccoli sguardi, gesti e contatti, niente di più. Spielberg trasforma il tutto in uno studio su ciò che la telecamera può rivelare in più rispetto all’occhio nudo. Roba da studi cinematografici per esordienti, ma sempre estremamente efficace se fatta nel modo giusto. Mentre Sammy riproduce ossessivamente la stessa sequenza – avanti e indietro, al rallentatore e poi fotogramma per fotogramma – il gioco di sguardi, i sorrisi e la mano appoggiata sul fianco e poi subito ritirata sembrano emergere dalla celluloide e diventare sempre più grandi davanti ai nostri occhi.

Spielberg illustra questa piccola trasgressione e la successiva separazione tra i suoi genitori (dopo che Mitzi cerca per anni di rispettare il ruolo di madre e casalinga fedele) come fosse una tragedia degna della grande opera. È già stato notato che le sue rappresentazioni del divorzio lo presentano come il destino peggiore che possa toccare a un’umanità sofferente: “Ma naturalmente la saga del divorzio dei genitori di Spielberg, di cui il regista ha parlato in numerose interviste ed è diventata la base per le storie di famiglie separate nei suoi film già dai tempi di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), non è un argomento che possa far emozionare molti spettatori”.

Personalmente non vedo perché il tema non dovrebbe emozionare molti americani. D’altronde ha sempre funzionato. Detto questo, sono sempre stata estremamente infastidita dall’atteggiamento da borghese anni cinquanta con cui Spielberg sembra sostenere che la vita dovrebbe andare sempre liscia e che quando le cose vanno diversamente sia un terribile oltraggio. Non capisco, quanto dovrebbero andare bene le cose nelle sue previsioni? Il padre di Spielberg era un pioniere del mondo dei computer, un uomo di successo. Il reddito della famiglia era in costante aumento. L’unica casa non proprio attraente in cui vivono i Fabelman è un appartamento in affitto che sono costretti a sopportare mentre la loro splendida casa californiana è in via di costruzione. Lo stesso Spielberg, fin dall’adolescenza, ha ottenuto tutti i successi immaginabili per un essere umano, tra l’altro facendo quello che ha sempre voluto fare.

Un aspetto effettivamente sconvolgente è che nel film l’antisemitismo è più grave in California di quanto non lo sia in Arizona, e il giovane Sammy è bullizzato da una coppia di atleti fanatici. Ma grazie alla forza del cinema Sammy si prende la sua rivincita su entrambi quando monta il filmato celebrativo per il diploma facendo sembrare uno dei due (Oakes Fegley) un perdente assoluto e l’altro (Sam Rechner) un esponente della razza ariana che vince una gara di atletica in Olympia di Leni Riefenstahl.

L’atleta di razza superiore è il più penalizzato perché il film di Sammy lo mitizza trasformandolo in qualcosa che non potrà mai essere. Per quanto alto e bello, il ragazzo è solo un adolescente insicuro e debole, e minaccia Sammy ordinandogli di non dire a nessuno che si è messo a piangere a causa del filmato. Ma Sammy risponde astutamente: “Non lo farò… Sempre che non decida di farci un film!”.

E noi stiamo guardando proprio quel film! Ah-ah!

La marcia trionfale di Spielberg attraverso la propria adolescenza si conclude con l’incontro tra il protagonista e uno dei suoi idoli, John Ford, nella memorabile interpretazione di David Lynch (sembra che Lynch abbia rifiutato per settimane il ruolo, ma Spielberg non ha mollato la presa). È uno sviluppo interessante, perché Lynch in fondo è l’antiSpielberg. Per una breve scena, Spielberg lascia che emerga una visione semilynchiana della stranezza americana: quando l’irascibile Ford, con la sua benda sull’occhio, accende uno dei suoi sigari, sembra prendersi un intero minuto aspirando davanti a una grande fiamma, osservato dall’esterrefatto Sammy fino a quando l’atto di accendere il sigaro si separa dal suo significato originario e si trasforma in un’azione allarmante, come se si stesse incendiando una forza nascosta dentro Ford. Ed ecco che Ford esplode nelle sue consuete pretese e domande colleriche a cui risponde da solo, impartendo a Sammy un’intensa, divertente ed empia lezione su come creare un’arte formalmente interessante.

Purtroppo Spielberg, il re del cinema “normale”, ha seguito solo raramente questo suggerimento.

Anche se più intensa delle altre, l’ultima scena è anche il più fastidioso interludio del film a causa dell’ovvio simbolismo del “passaggio del testimone”. Ford, da molti considerato il più grande regista della sua generazione, anche da altri fenomenali registi come Orson Welles, consegna la torcia del genio cinematografico a Spielberg, indicandolo come il più grande della generazione successiva.

E naturalmente l’unico motivo per cui stiamo guardando questo film è che sappiamo tutti benissimo che poco tempo dopo l’autocompiaciuta fine del film il giovane Fabelman/Spielberg volerà in alto come una freccia attraverso Hollywood, passando dalla tv ai lungometraggi e dirigendo l’incredibilmente maturo Duel (1971) ad appena 25 anni e il grande successo Lo squalo a 29.

Abbiamo capito, Steven Spielberg! Hai avuto un grande, grande, grande successo! Congratulazioni! Ora però, per favore, evita di girare un sequel dal titolo Fama, fortuna e Fabelman o qualcosa del genere, ok?

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul trimestrale statunitense Jacobin Magazine.

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