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E se Locarno fosse il festival più innovativo?

Bella e perduta di Pietro Marcello. (Dr)

E se quello di Locarno fosse il più innovativo tra tutti i festival del cinema? È quello che ci si può chiedere dopo la chiusura della rassegna. A parte il mancato riconoscimento per Bella e perduta di Pietro Marcello, un’occasione unica di premiare il cinema più innovativo (non solo italiano) che la giuria si è lasciata sfuggire, l’intelligente palmarès, compreso quello delle sezioni parallele, riflette il coraggio di questa selezione, con un concorso appassionante. E il pubblico sembra aver aderito, dimostrando di essere più intelligente e maturo di quanto molti credano.

Si parla di forti tensioni in giuria a proposito di Bella e perduta, tra il regista statunitense Jerry Schatzberg, che nutriva forti riserve se non astio verso il film, e il presidente, l’attore Udo Kier (che ha lavorato con registi come Rainer Werner Fassbinder, Gus Van Sant, Paul Morissey e Lars Von Trier), che lo avrebbe invece molto apprezzato. Forse per il futuro sarebbe meglio pensare di affidare la presidenza a un regista mentre i giurati statunitensi, che siano attori o registi, potrebbero essere scelti nell’ambiente del cinema indipendente.

Scommessa vinta

Ma a parte questo incidente, la scommessa di Carlo Chatrian ci pare vinta. Nel 2012 aveva ereditato la direzione artistica del festival da un critico di fama, il francese Olivier Père, che aveva rilanciato la Quinzaine des réalisateurs con una serie di notevoli scoperte. Quello premiato nel Concorso internazionale e in Cineasti del presente è un cinema d’autore di qualità, che rispecchia in parte la scelta d’inserire molto cinema sperimentale, innovatore e profondo.

Il Concorso Internazionale era pieno di eccellenti film, come Bella e perduta, ma spesso sperimentali, e di cui non abbiamo fatto in tempo a parlare, come The sky trembles and the earth is afraid and the two eyes are not brothers dello statunitense Ben Rivers – viaggio rapsodico nel deserto del Marocco e profonda quanto terribile interrogazione sull’immagine, dove un regista che ha il potere di rendere ogni cosa filmata un proprio oggetto perde lui stesso la libera gestione del proprio corpo e quindi oggetto – o Sulanga gini aran, del regista dello Sri Lanka Vimukthi Jayasundhara (da me intervistato due anni fa a Locarno, assieme ad Alessandro Stellino), nuovo viaggio insieme simbolico e realista sulle ossessioni e i mali irrisolti del paese, per fare due esempi.

Schneider vs. Bax di Alex van Varmerdam.

Ma molti film in concorso avevano questa connotazione, anche quando sembravano apparentemente realistici: è il caso, per esempio, di Schneider vs. Bax di Alex van Varmerdam, veterano del cinema d’autore olandese, il cui registro filmico nettamente realistico cela in realtà una gustosa e divertente commedia dell’assurdo, o del delizioso Chant d’hiver che segna il ritorno al cinema del regista georgiano trapiantato a Parigi Otar Iosseliani. O di Cosmos di Zulawski, giustamente premiato. Potremmo continuare a lungo.

Ma con Cosmos siamo giunti ai film premiati. Anche il film vincitore del Pardo d’oro è un film fintamente realistico, Jigeumeun matgo geuttaeneun teullida (Right now, wrong then) del sudcoreano Hong Sang-soo (che si vede finalmente insignito di un premio importante in un festival importante, anche se il titolo premiato, pur ottimo, non è certo il miglior lungometraggio da lui realizzato nella sua ormai lunga carriera), poiché il cineasta, un reinventore dei classici codici narrativi del linguaggio cinematografico, partorisce un film venato di assurdo e ironia sulle vicende quotidiane della vita.

Per non parlare del notevole film israeliano Tukkun, di Avishai Sivan, autore visivo e scrittore, che dietro l’apparenza realistica, per mezzo di un bianco e nero tagliato con l’accetta e dalle notevoli atmosfere, rappresenta il progressivo sprofondamento prima in una bolla onirica poi nell’incubo, l’esatto rovescio di quanto da noi colto in Bella e perduta, un mondo uterino mal vissuto, dove la corporeità e la sua fisicità sono il problema, assieme metafora di una società e di un mondo, quello israeliano, soffocato dalla minoranza rabbinica e ortodossa, che a sua volta sembra soffocare su se stessa.

Lu bian ye can (Kaili blues) di Bi Gan.

Per trovare un film davvero realista, quasi del neorealismo ma che elabora una sua cifra personale, dobbiamo andare nella sezione Cineasti del presente, con il notevole Thithi, film d’esordio del venticinquenne indiano Raam Reddy (vincitore della sezione e premiato dalla giuria delle opere prime). O come il cinese Lu bian ye can (Kaili blues) di Bi Gan, altro esordiente (tra i vincitori della sezione Cineasti del presente e della sezione opere prime).

Film estremamente commovente alla ricerca della Cina perduta, e dei suoi esseri umani che fortunatamente non sembrano essersi del tutto perduti, da un certo punto in poi è girato completamente in piano sequenza (cioè senza alcuno stacco di montaggio): affiorano pian piano pepite estremamente toccanti e potenti dalla visita di questa Cina profonda, una penetrazione di cui il piano sequenza è certo paradigma, ma dove il regista riesce nel tour de force di lavorare, per così dire, “in diretta” (il piano sequenza, come detto, non consente stacchi di montaggio) sulla profondità di campo, altro procedimento cinematografico fondamentale.

Una cosa difficilissima tecnicamente, tanto più in questo caso, dove abbiamo un vortice di curve continue e la camera è obbligata a farsi sinuosa pur mantenendo un’alta precisione. Uno dei film più potenti del festival, in cui l’autore porta a un picco altissimo il procedimento tecnico che il critico e teorico André Bazin, fondatore dei Cahiers du cinéma, riteneva il procedimento paradigmatico del cinema come arte principe del reale: il piano sequenza, appunto.

Pubblico rivoluzionario

Insomma, Locarno sembra operare una vera rivoluzione in quello che è l’andazzo dei grandi festival, dove si tende sempre più a inserire nel concorso principale film di matrice più tradizionale (e spesso non appassionanti), quasi un’operazione “sovversiva” in nome dell’arte. Crediamo che Locarno possa sempre meglio caratterizzarsi in questo senso, poiché il pubblico segue: abbiamo partecipato a numerose proiezioni tra il pubblico, e quest’ultimo applaudiva molto ed era generalmente ben concentrato, come nella sala dove abbiamo recuperato il film di Ben Rivers.

Seguitissime anche le numerose retrospettive storiche, a cominciare da quella dedicata a Sam Peckinpah: rivedere per esempio un film come lo straordinario The getaway, trova la sua piena corrispondenza e il suo specchio (il film è ambientato negli anni settanta) nel cinema Rex, una di quelle splendide sale che ancora fino agli anni settanta erano correnti, con i posti in salita (o in discesa), ma con l’aria condizionata e la proiezione moderna in dcp. Anche questo è Locarno.

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