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La poesia di Annette mette in scena l’ego creativo degli artisti

Annette. (I Wonder Pictures)

Ecco forse il film che può accompagnarvi fino a Natale, anche per chi non è un amante dei musical, facendo riflettere e immaginare insieme. Presentato all’ultimo Cannes dove ha vinto il premio per la Miglior regia, il nuovo lungometraggio del genio maledetto del cinema francese Leos Carax è un musical cantato in inglese malgrado la nazionalità del suo regista, ambientato a Los Angeles e con uno dei due interpreti principali di nazionalità statunitense (Adam Driver), mentre soltanto la principale interprete femminile è francese (Marion Cotillard). Del resto, sembra esserci una sorta di scambio tra le due sponde dell’Atlantico e in modo particolare tra Stati Uniti e Francia, vista la contemporanea presenza in sala del nuovo film di Wes Anderson, French dispatch, anch’esso in concorso a Cannes, girato e ambientato in Francia con un cast stellare di interpreti sia statunitensi sia francofoni. Se nel 2019 i massimi premi Oscar sono andati a un film sudcoreano come Parasite, è lecito pensare che questo aiuti altri sommovimenti, piccoli o grandi, nella geopolitica del cinema.

Ma dei tanti formalismi barocchi, un po’ ridondanti, infantili e fini a se stessi di French dispatch, qui non c’è traccia. È più una forma di purezza barocca quella ricercata da Carax, che riesce a evocare anche molto del suo cinema (e segnaliamo l’elegante edizione in cofanetto che raccoglie l’insieme della sua filmografia in dvd).

Annette è un film grandioso, quasi smisurato, sull’ego e la messa in scena. Fin dall’inizio, su quest’ultimo aspetto, lo spettatore ne ha la prova: suoni di strumenti musicali assurgono a interferenze di stampo visivo. Siamo in un film o siamo a teatro? Subito abbiamo la conferma che forse siamo in entrambi. E ad acuire l’ambiguità di quest’opera impregnata di dualità e ambivalenza si aggiunge anche il film nel film. In pochi istanti, appaiono prima lo stesso Carax e poi i fratelli Mael, cioè gli Sparks, mitico gruppo rock in attività dai primi anni settanta ai quali si deve l’enorme lavoro di scrittura della sceneggiatura e delle musiche del film, cresciuti peraltro a Los Angeles e poi emigrati a Londra. È loro quel “So may we start” ripetuto incessantemente, ossessivamente, mentre tutto parte e si uniscono alle danze Adam Driver e Marion Cotillard. Il “possiamo cominciare?” diventa realtà senza quasi che ce ne accorgiamo tanto il ritmo è travolgente, allegro.


Ma l’apparenza inganna. Il fondo è profondo, interiorizzato, cupo anche. Il figlio di giornalisti franco-americani, l’ex critico dei Cahiers du Cinéma, l’enfant terrible del cinema francese per le sue avventure produttive difficili, forse più iconoclasta di Godard, riesce nell’exploit di unire e rilanciare tante forme e ambizioni di cinema, anche opposte, coniugando due temi dominanti del cinema francese e della Nouvelle Vague, l’amour fou e l’infanzia rubata. Amour fou e infanzia rubata peraltro interscambiabili e reversibili: Ann (Marion Cotillard), la donna di cui si innamora Henry (Adam Driver), è chiaramente anche Annette, il piccolo essere minuto nato poco tempo dopo che pare al contempo grazioso e un brutto anatroccolo in versione moderna, vagamente una scimmietta che, non a caso, ha spesso tra le braccia una scimmietta di peluche. Due momenti, due età della vita di una stessa persona. Ma attenzione, Annette lungo tutto il film è un burattino, una marionetta elettronica, un Pinocchio al femminile.

Film in parte di autoconfessione – aleggia sul film il suicidio dell’ex compagna del regista, l’attrice Katerina Golubeva dalla quale ha avuto una figlia – sull’ego dell’artista come forza creativa e (auto)distruttiva, il film si interroga su dove si situi il confine. Ma al contempo è tutto più sottile e più ampio: “Perché sono diventato un comico? Per farvi notare ciò che avete di sicuro sempre notato, senza notare di averlo notato finché non vi chiedo: ‘l’avete mai notato?’”, declama sul palco Henry, nudo sotto l’accappatoio. E il pubblico chiede (ma in realtà gli si fa chiedere): “Henry perché sei diventato un comico?”. E lui chiude “perché mi avete annoiato e mi dovete applaudire, applaudire, applaudire”. E delle oltre due ore di spettacolo citeremo poco altro.

Ma è evidente che se la sua arte è provocatoria, narcisista e spinge sempre al limite il rapporto con gli spettatori, lui ricade sempre in piedi sul palco. O almeno così crede. Si nutre a tal punto del sé che precipita in un buco nero. Ma il pubblico è trascinato in questo vortice dove è annullato il confine, più che tra la realtà e la finzione, tra la dignità dell’intimo e l’indegnità della società dello spettacolo che tutto divora. Compresa la dignità dell’artista, la sua verità, che scivola pian piano nell’oscurità. Annette è anche questo: una radiografia dell’epoca dell’egomania che contamina l’intera società, come i baccelli del film di Don Siegel L’invasione degli ultracorpi.


Un cinema-teatro mutevole e mutante, un film-opera sulla società dello spettacolo che fa ridere il pubblico a comando, ma che diventa qui canto e per giunta poesia. Senza dimenticare lo spettacolo perenne, quello che esiste fin dall’antichità. Le scenografie hanno sfumature di un blu che richiama quello dell’arte concettuale di Yves Klein, Marion Cotillard ne entra ed esce fino a diventare diafana come un fantasma e pastellizzata come in un quadro: qui, il suo urlo puramente visivo e mai vocale, filmato tra il rallentì e il fermo immagine, condensa in un batter d’occhio tutti gli archetipi della fanciulla/bambina sperduta nel bosco, in terra incognita, nella notte. E se c’è uno stacco naturalistico nella realtà, nella vera natura per esempio, è un’illusione anche qui, siamo sempre nella messa in scena. Non se ne esce mai. Il sipario del teatro non cala mai realmente. E a questo proposito, invitiamo i lettori ad attendere la fine dei titoli di coda per un’ultima magia.

Ma allora è un film sulla messa in scena, intesa in senso ampio, compresa la (im)postura che è in agguato in ogni essere umano, oppure sull’ego? In realtà è la messinscena dell’ego.

Ann è impaurita dallo sguardo, dagli occhi di Henry. Non c’è orientamento nella notte, e l’orco è vicino. La notte senza luce, inconoscibile come il nostro inconscio, cela il lupo o l’orco che insegue o aspetta la fanciulla. Il clima di onirismo persistente, avviluppante, dove il sogno e l’incubo sono attaccati come fratelli siamesi, dominano questo film di oscuri presagi dichiarati, anzi declamati. Ann si muta da angelo dell’amore, della luce, ad angelo della vendetta, dell’oscurità. E ad Annette resta soltanto il canto della solitudine al chiaro di luna.

A tratti si pensa a David Lynch, per le atmosfere ma soprattutto per la sua capacità di creare come lui immagini potenti, mai viste, ma che paradossalmente rimandano al profondo della memoria: la strada dove è situato il teatro dell’inizio rievoca senza citazionismi le visioni di un’America alla Edward Hopper che crediamo scomparsa.

Annette è ipnotico, incantatorio come un carillon o una sorta di lanterna magica da cinema delle origini, in particolare quello contaminato dalle avanguardie artistiche e a sua volta veicolo di avanguardia propria. I riferimenti cinefili evidenti, suggeriti o in dissolvenza di quest’opera sia fisica sia eterea – capolavori come La folla (1928) di King Vidor per esempio –, rendono ancora più vera, concreta, la sua grandezza evidente: Carax con Annette realizza un cinema che per ambizione folle e ricerca della sperimentazione abbinata a potenza formale, ravviva lo spirito del cinema degli anni settanta della New Hollywood, impregnato di grande spettacolo e sperimentazione in maniera quasi osmotica, e di cui è certamente paradigmatica l’opera di Francis Ford Coppola.

“Il vero amore trova spesso la giusta strada, il vero amore spesso si smarrisce”: sicuramente non si smarrisce qui l’amore per il cinema, perché se Annette è un’opera d’interrogazione morale lo è prima di tutto per via poetica. Una poesia di cinema allo stato puro.

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