Un’overdose di ottimi o grandi film. È quello che si rischia anche quest’anno dopo la già eccellente edizione del 2019 del festival di Cannes. Annullata l’edizione del 2020 a causa della pandemia, la Croisette ha riaperto quest’anno, non a maggio ma a luglio. Può sembrare strano, ma in verità ai nuovi titoli se ne aggiungono diversi altri che sono stati tenuti bloccati dalle rispettive produzioni perché la passerella di Cannes porta maggiori benefici. E questo è vero per lavori piccoli ma anche grandi, come nel caso di Benedetta, il nuovo film di Paul Verhoeven, prodotto come il precedente Elle dal francese Saïd Ben Saïd, e di Memoria, del tailandese Apichatpong Weerasethakul, regista quasi sconosciuto in Italia ma in realtà autore di primo piano e già vincitore della Palma d’oro con Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, che ritroviamo qui in trasferta in Colombia in compagnia di Tilda Swinton.

Tanto che le sezioni Concorso, Un certain regard, Cannes classics, le Proiezioni speciali e il Fuori concorso – dove figura tra gli altri Todd Haynes con Velvet undergound – sono state affiancate da nuove altre come Cannes première che, oltre al nostro Marco Bellocchio con Marx può aspettare, accoglie autori come il grande regista sudcoreano Hong Sang-soo, con In front of your face, e la britannica Andrea Arnold con Cow, una regista che amiamo molto ma purtroppo ancora troppo poco nota malgrado sia stata lanciata dalla Mostra veneziana e nonostante nel 2016 abbia presentato in concorso a Cannes American honey, una sarabanda piena di ritmo ed empatia verso l’America giovanile povera, vitale quanto messa ai margini. E questo solo per stare ai titoli e alle sezioni della selezione ufficiale, cioè senza contare sezioni parallele come la Quinzaine des réalisateurs, per il secondo anno diretta dall’italiano Paolo Moretti, la Semaine de la critique, l’Acid, sezione più recente ma sempre più agguerrita.

In passerella
E poi la consueta sfilata di registi, tra cui Bong Jong Hoo vincitore della Palma d’oro nella precedente edizione con Parasite – la prima volta per un film della Corea del Sud –, che incontrerà il pubblico, così come Oliver Stone che presenterà il documentario JFK revisited: through the looking glass sui documenti recentemente declassificati riguardo all’assassinio del presidente Kennedy, o Jodie Foster, attrice e regista ancora oggi troppo poco apprezzata e premiata con la Palma alla carriera. Inoltre, sono attesi diversi film italiani: oltre a Nanni Moretti, unico italiano in concorso con Tre piani, e al già citato film-confessione di Bellocchio, la Quinzaine presenterà Futura, il documentario sugli adolescenti italiani firmato a tre da Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, A Chiara, l’attesa chiusura al femminile della trilogia su Gioia Tauro di Jonas Carpignano, e Re granchio di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis che esordiscono nella fiction. Infine, la Settimana della critica presenta Piccolo corpo di Laura Samani.

Grandi titoli o titoli intriganti quindi, almeno sulla carta.

La cerimonia d’apertura è stata lo specchio della giuria, che ha un presidente nero, Spike Lee, molte più donne tra attrici e registe, e un regista brasiliano, Kleber Mendonça Filho, già coautore con Juliano Dornelles dello straordinario Bacurau, presentato in concorso e anche premiato nella scorsa edizione, ma purtroppo rimasto inedito in Italia.

Annette di Leos Carax è anche una fiaba sull’infanzia rubata

Se a lungo andare può esserci il rischio che una simile composizione, diventata strutturale, si riveli limitativa (se c’è un grande regista o un attore bianco, non appartenente alle etnie minoritarie, etero ma di talento riconosciuto non c’è ragione che non faccia parte di una giuria) al contempo è altrettanto auspicabile che questa impronta non sia solo temporanea, ancora figlia dell’era di Trump, dell’omicidio di George Floyd e del movimento Me too, ma che in buona parte si confermi anche nel futuro. Bei momenti, durante la cerimonia d’apertura, sono stati quando Jodie Foster, introdotta da Pedro Almodóvar, ha pronunciato il suo discorso in un francese perfetto e citato sua moglie seduta in platea, e infine il saluto finale sul palco di Spike Lee, della Foster, di Almodóvar e di Bong Jong Hoo.

Canoni sovvertiti
Il film di apertura, Annette, segna il ritorno di un regista quasi extraterrestre nel panorama cinematografico internazionale, il francese Leos Carax, con una produzione che ambisce a essere internazionale per via della presenza di due star come lo statunitense Adam Driver e la francese Marion Cotillard ma anche perché è un film più o meno musicale cantato in lingua inglese. Malgrado il pericolo in agguato di un’opera ruffiana, nulla di tutto questo appare alla visione. Piuttosto un’opera onirica di pura poesia visiva e sonora che spiazza tutti e sovverte ogni canone e che può piacere anche a chi non ama i musical ma ha invece amore per quei film che sembrano provenire da un’altra dimensione, proprio come fu per di Federico Fellini e Strade perdute o Mulholland drive di David Lynch. Visto che purtroppo Lynch è tenuto fermo dalla cecità dei produttori non si può che essere felici che ci sia almeno la follia anarcoide di Carax a supplire, sebbene il regista non sia propriamente sinonimo di prolificità.

Comunque l’ex critico dei Cahiers du Cinéma realizza qui il suo film più bello insieme all’indimenticabile Rosso sangue (1986). Il migliore sia rispetto al travagliato Gli amanti del Pont-Neuf (1991) sia rispetto all’eccellente Holy Motors (2012), il titolo che precede Annette. È un film malinconico e sereno, romantico e iconoclasta, cupo e leggero, operistico musicalmente ma anche rock, fatto di contrapposizioni con l’egocentrismo omicida dell’artista e con l’egocentrismo maschile tout-court che può essere così ossessivo da rasentare la follia.

Ma è anche una fiaba sull’infanzia rubata, nella fattispecie quella della piccola Annette, piccolo mostro extraterrestre e piccolo angelo antico, enfant prodige canoro sfruttato da chi l’ha generata come fosse una marionetta, marionetta peraltro splendidamente animata per il film da marionettisti sapienti. Sarà brutale il suo passaggio alla maturità, all’umano: un po’ Pinocchio rovesciato al femminile, questa fiaba nera sull’infanzia e le relazioni umane è cantata spesso in maniera celestiale e girata con un senso dello spazio che a tratti toglie allo spettatore la terra sotto i piedi. Un film-sogno che contiene delle immagini di grande poesia, uniche: quelle sulla solitudine nella notte tempestosa di una bambina-marionetta che soffre in silenzio, Annette, sequenze che aprono magnificamente questa 74ª edizione del festival di Cannes, con del vero cinema, del grande cinema.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it