18 maggio 2019 10:08

Risorgono i cangaçeiros. È probabilmente un capolavoro Bacurau, il film del brasiliano Kleber Mendonça Filho, ex giornalista della Folha de S.Paulo e di altre testate, giunto qui al suo terzo lungometraggio e che aveva già presentato nel 2016 in concorso a Cannes l’ottimo Aquarius, distribuito anche in Italia.

Questa volta, in coppia con il suo ex capo decoratore Juliano Dornelles, con il quale firma la sceneggiatura e la regia, la storia non è ambientata a Recife – la città dove sono nati entrambi gli autori. Con Bacurau ci immergiamo nel Nordest brasiliano, regione popolare e altamente meticcia.

Dietro le sue apparenze realistiche e arcaiche, e pur presentandosi come una distopia (siamo infatti in “un futuro prossimo”), il film confonde le acque, geografiche e temporali. D’altra parte la questione dell’acqua, e non solo quella, è centrale in un film che annulla magistralmente i confini tra i generi: western, fantascienza (c’è anche un ufo), horror, dramma sociale. E poi, grazie alla sua ambientazione tra passato, presente e futuro, arcaismo e ipermodernità, fa risorgere un momento fondamentale della storia del cinema, il cinéma nôvo brasiliano.

Un villaggio di resistenza
Bacurau è un villaggio sperduto, fuori dalle carte e dai gps, situato nel quasi desertico Sertâo, la terra che vide nascere tra la fine dell’ottocento e i primi decenni del novecento il fenomeno del banditismo sociale, quello dei cangaçeiros, contro le prepotenze di un sistema economico e politico dominato allora dai latifondisti.

Inesistente nella realtà, è un villaggio simbolico, un po’ addormentato rispetto alla realtà frenetica del mondo moderno, ma pieno di vitalità. Come il film, che avvince sempre, diverte molto, sovverte ogni situazione con ribaltamenti continui. Nella pellicola la violenza non genera mai fastidio e pare sempre giusta, e filma gli spazi aperti con un respiro, un’ampiezza e una freschezza di sguardo semplicemente unica.

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Niente è quello che sembra in un villaggio di resistenza un po’ bonacciona, alla Asterix, e un po’ violento, che celebra il suo passato con un museo dedicato all’era dei cangaçeiros. Perché ai margini del villaggio vivono dei presunti banditi, marginali disadattati che fanno in qualche modo risorgere i cangaçeiros in chiave ipermoderna e per giunta gay, in particolare con lo straordinario personaggio di Lunga. Costoro saranno chiamati dal villaggio per difendersi dalle multinazionali e dagli interessi dei padroni simbolicamente rappresentati da un gruppo di fanatici mercenari, guidati da un’icona del cinema di Fassbinder come Udo Kier.

Il villaggio risorge e, anche grazie all’uso di una droga psicotropa, i suoi abitanti paiono zombie al contrario, non solo rispetto a quelli patetici del film di Jarmush ma in generale. La vita e la dignità della comunità rinascono insieme alla memoria storica dei cangaçeiros, che furono in gran parte uccisi, i loro capi decapitati e le teste pubblicamente esibite per dissuadere le masse popolari. Qui avviene il contrario e il capitalismo pare violento, machiavellico, ma in fondo anche stupido, autolesionista, quasi suicida.

Lo sguardo deterministico di Ladj Ly
Se, come nel caso di Bacurau, la distopia invece di togliere futuro lo restituisce, è segno che la metafora e l’allegoria permettono di dire meglio certe cose dandogli una leggerezza malgrado la gravità delle questioni: la constatazione realistica del presente, se è necessariamente funesta è tuttavia importante, anzi necessaria.

Les misérables, esordio alla regia dell’attore francese Ladj Ly, è nell’insieme un ottimo film. Implacabile, segue una squadra di poliziotti in borghese, una tradizione del cinema francese. Ma qui è rovesciata dallo sguardo di un regista di origine maliane. La squadra di agenti – due bianchi e un nero – opera da anni nella cité di Seine-Saint-Denis, nella regione parigina, una di quelle cité sempre più abbandonate dove ormai da anni più generazioni di discendenti di famiglie africane non usufruiscono di reali politiche d’integrazione.

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Le allusioni alla grave rivolta del 2005 e al fatto che nulla è cambiato da allora, così come si fa riferimento alle pistole con proiettili di gomma (flashball) – sempre più contestate per il loro uso durante le manifestazioni dei gilet gialli – che qui colpiscono un ragazzino, ne fanno un film coraggioso. Uno stile di regia e fotografia naturalistico ma sensibile restituisce allo spettatore una realtà quasi rimossa dal cinema come dai mezzi d’informazione francesi. Lo sguardo è deterministico: i meccanismi sociali imposti dall’alto determinano e condizionano la vita e quindi le azioni degli esseri umani, che risultano alla fine tutti imprigionati. E se tutti sono un po’ carnefici e vittime, altri, come ragazzi e ragazzini privati di ogni futuro, sono più vittime di altri, perché, come dice la frase dei Miserabili di Victor Hugo citata nel finale, non esistono buone o cattive erbe, ma solo cattivi seminatori. Qui nasce infatti, insieme a una nuova e violenta rivolta, un personaggio che è la versione ragazzino di Lunga di Bacurau. Inquietante, profondo, forse profetico anch’esso.

Un Ken Loach poco vitale
Anche se con un lato didascalico rispetto a Bacurau il film è vivo e forte, soprattutto se confrontato al film di Ken Loach, Sorry we missed you. Spiace dirlo, ma l’anziano regista non pare ritrovare la vitalità, la forza, l’anarchia e la libertà perfettamente incarnata dal personaggio di Io, Daniel Blake che nel 2016 gli aveva fatto ottenere una meritata Palma.

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Anche qui l’analisi è deterministica all’ennesima potenza, simile – i personaggi sono prigionieri dei meccanismi sociali ed economici – a Les misérables, ma la tendenza del regista britannico a essere illustrativo e didascalico imprigiona a sua volta il film.

Mentre le famiglie sono sempre più indebitate, nel Regno Unito si diffondono i banchi alimentari. Una di queste famiglie tenta nuove avventure grazie all’attrattiva del digitale, con il risultato di aggravare la propria situazione. Basta un nulla provocato da eventi esterni perché l’implosione prima graduale diventi vertiginosa. La famiglia – primo luogo di comunità, quello rappresentato dai propri cari – non è più il rifugio dalle difficoltà del mondo esterno ma il luogo stesso della crisi. Malgrado alcuni momenti rilevanti, tra cui il finale, tutto è troppo meccanico, mancano personaggi forti e la famiglia nel suo insieme non riesce a essere personaggio a sua volta, mancano soluzioni di sceneggiatura e regia più libere e ispirate.

Comunque, questi tre titoli, e altri ancora, ci offrono un festival che a pochi giorni dal suo inizio si rivela nelle sue scelte politicamente scomodo, anche verso il governo.

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