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Armageddon time è un capolavoro profondamente umano 

Armageddon time. (Focus Features)

Dopo la grande apertura con gli italiani (ma in concorso la settimana prossima arriverà l’attesissimo Nostalgia di Mario Martone), in tutte le sezioni a Cannes si vedono i primi film belli e anche qualche grande titolo. Il concorso ha presentato alcune opere molto diversificate ma unite dalla comune attenzione verso figure atipiche e in qualche modo ai margini.

Il nuovo lavoro dello statunitense James Gray, una produzione Universal, segna il ritorno del regista originario del Queens newyorchese alle sue storie degli inizi, raffinatamente intime all’interno di una precisa cornice sociale, dopo aver transitato in altri generi e in grandi produzioni come il film d’avventura e di esplorazione oppure nella fantascienza. Gray, che ha presentato quasi tutti i suoi film a Cannes, dopo l’esordio a Venezia nel 1994 con il notevole Little Odessa, di quei primi film rinnova la capacità unica di suggerire una dimensione atemporale, sospesa, pur calando la narrazione in un preciso momento temporale: nella fattispecie la fine degli anni settanta e l’affacciarsi della presidenza di Ronald Reagan.

Qui siamo dalle parti dell’autobiografia e di un appassionante minimalismo narrativo, una primizia per uno dei pochi registi della sua generazione, se non l’unico, che faccia pensare ai grandi della New Hollywood degli anni settanta, come Martin Scorsese, Michael Cimino o Francis Ford Coppola. E l’Armageddon Time del titolo rimanda certo alle origini ebraiche di Gray, al libro dell’Apocalisse, ma al contempo assume una connotazione ironica e tragica nell’ambito del ritratto di un microcosmo, quello familiare, che prende qui un valore universale.

Predestinazione sociale
Paul Graff è un ragazzino piuttosto sognatore e desideroso di fare l’artista. La scuola del Queens in cui studia, sebbene sia un po’ carente di mezzi e caotica, a lui piace e soprattutto si trova molto bene con un ragazzino nero dalla situazione familiare precaria – vive con la nonna – che lo porta a fare delle cose che da noi sarebbero considerate delle ragazzate ma che in quel contesto sono quasi delle microapocalissi. Segnano l’individuo fino al punto da costruirgli una sorta di predestinazione sociale. Benché Paul venga da una famiglia di un certo anticonformismo – politicamente sono chiaramente elettori democratici, molto interessati alla cultura e all’arte – questo non li preserva del tutto dall’angoscia per la riuscita sociale, l’immagine pubblica in ambito sociale e il pregiudizio razziale camuffato.

Paul finisce in una costosa scuola privata, inamidata nelle regole e con ragazzini umanamente orribili: la Kew-Forest school – dove Gray ha realmente studiato – finanziata da Fred Trump, che vediamo più volte parlare ai ragazzi. È l’inizio di un calvario per Paul come pure per Johnny, il suo amico nero ormai cacciato anche dal liceo statale. Quando Paul incontra Johnny nel cortile recintato di casa si capisce benissimo che si sente in prigione, mentre Johnny, apparentemente libero di andare dove vuole, in verità lo è solo teoricamente: è così povero che non sa cosa fare e si rifugia nel cortile dell’abitazione di Paul, nella casetta costruita per lui dal padre, per sfuggire agli assistenti sociali che vogliono portarlo via dalla nonna.

Paul e Johnny sono due ragazzini che nel loro sogno di una vita “altra” cercano in fin dei conti solo una vita decente e magari un po’ speciale

Armageddon time è un capolavoro sul determinismo sociale e non solo di mera critica sociale: senza la freddezza dello sguardo da entomologo dei comportamenti, è anzi un film profondamente umano. La finezza dell’analisi sociale passa per la finezza dell’analisi dei rapporti familiari, dei sentimenti tra due ragazzini che nel loro sogno di una vita “altra” sognano in fin dei conti solo una vita decente e magari un po’ speciale. Senza vittimismi, privo di qualsiasi enfasi, sobrio, asciutto, il film riesce a costruire con piacevole lentezza e gradualità una narrazione inattesa e a commuovere nel profondo. Gli insegnamenti del nonno, grande figura unificante e stabilizzatrice della famiglia quanto realmente anticonformista – magnificamente incarnata da Anthony Hopkins – faranno crescere in Paul una nuova consapevolezza sulla vita. È la fine di un’infanzia che sconfinava nell’adolescenza. Ma senza anticipare troppo, quando l’Armageddon arriva, e di vario genere, è davvero uno sconquasso. E non è certo quello profetizzato alla televisione dall’allora governatore della California Ronald Reagan.

Su questo lungometraggio di James Gray, che paradossalmente lascia un sentimento di serenità perché profondamente umano, ci sarà modo di tornare sopra in occasione della sua uscita in sala. Per il momento aggiungiamo solo che ci stupirebbe se la giuria presieduta da Vincent Lindon lasciasse senza premio un film che non somiglia a nessun altro.


C’è di nuovo uno sconquasso intimo e familiare, anche qui tra due ragazzini, che si ritroveranno poi da giovani adulti, al centro di Le otto montagne dei belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch e tratto dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti, che ha partecipato alla realizzazione del film.

È il racconto ambientato tra gli alpeggi e i picchi della Valle d’Aosta di due amici e fratelli di fatto, che da ragazzini facevano montagna insieme prima che la vita li separasse. Se la parte dell’infanzia e dell’adolescenza è un po’ tirata via – troppe le situazioni dell’intimo importanti – in quella di vita adulta dei due amici-fratelli, la più ampia, il film trova un suo bell’equilibrio e ragion d’essere.

Molto ben interpretate da Luca Marinelli e Alessandro Borghi, che tornano a lavorare in coppia come nel magnifico Non essere cattivo di Claudio Calegari, è il confronto tra due personalità speculari, uguali e insieme opposte, una destinata a perdersi lasciando l’altra stordita per sempre, come per le due metà di un intenso rapporto eterosessuale. Tuttavia è la forma visiva scelta, sobria, classica, a dare un contributo importante alla riuscita del film: un formato televisivo quasi striminzito, in teoria una scelta blasfema per filmare degli imponenti paesaggi naturali, e una fotografia naturalistica priva di ricercatezze apparenti. Eppure in questa maniera lo sguardo è sempre focalizzato sui paesaggi, per esempio sugli stretti sentieri delle cime montagnose, da sembrare talmente in rilievo fino a poterli toccare: la montagna al cinema ripresa in questa maniera non la si è quasi mai vista e in definitiva il film sperimenta senza esibirlo.

Film incredibile, completamente folle ma costruito con rigore è quello del polacco Jerzy Skolimowski che a 84 anni torna con un’opera breve, intensa e davvero originale. Skolimowski, Leone d’oro veneziano alla carriera nel 2016, premiato sempre a Venezia per due lungometraggi (tra cui il capolavoro Essential killing del 2010), ma non sempre distribuito (11 minuti, sempre presentato a Venezia), nonostante i suoi film siano sempre molto forti e avvincenti, con Hi-han guarda alla società e al mondo attraverso gli occhi di un asinello. Era dai tempi di Au hasard Balthazar (1966), uno dei capolavori di Robert Bresson, che non accadeva. Skolimowski rivisita l’opera di Bresson in uno strano omaggio, con un asinello da circo che si trova improvvisamente “libero”. Rappresentazione dell’innocenza messa continuamente alla prova in un mondo spesso impazzito e potenzialmente stupratore, il film riesce a essere insieme realistico e sociale, documentaristico e onirico, psichedelico e fantascientifico, fiabesco e rurale, muto e parlato, umano e implacabile.

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