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Napoli onirica e lontana in Nostalgia di Mario Martone

Nostalgia. (Medusa)

“La conoscenza è nella nostalgia. Chi non si è perso non possiede”. Le parole di Pier Paolo Pasolini fanno da prologo all’apertura dello straordinario Nostalgia di Mario Martone, ora in sala a meno di un anno dal non meno notevole Qui rido io!.

È un film dal quale non si vorrebbe quasi più uscire, di cui si ha già nostalgia quando ci si avvicina alla fine. Questo percorso di conoscenza lo facciamo insieme al protagonista Felice Lasco – una delle più belle interpretazioni dell’ormai densa carriera di Pierfrancesco Favino – che in fondo è un sentimentale nel miglior senso del termine, animato da una vera interiorità. Felice torna alla sua Napoli, proprio come Martone alla sua città-mondo, con gli occhi e l’animo abbagliati da tanta sontuosa bellezza. È andato via da ragazzo girando il Medio Oriente, l’Africa meridionale; diventato imprenditore edile si è poi sposato al Cairo con una medica e si è convertito all’islam.

Con il suo bagaglio da autodidatta è tornato dopo tanti anni nella città dove è nato e dell’adolescenza spensierata, dove girava in scooter con l’amico del cuore. Ritrova l’anziana madre ormai fragile con grande tenerezza, una figura sola, minuta, che lo lascerà poco dopo. Con lo sguardo del bambino, gira per la città pieno di meraviglia, a piedi e più ancora in scooter. È un ritorno sui propri passi, per rimemorarsi e da questo prendere, trovare, una nuova consapevolezza.


Ai funerali della madre conosce un personaggio straordinario, un prete di strada, padre Luigi Rega (Francesco Di Leva, altra magnifica interpretazione), ispirato alla figura reale di padre Antonio Loffredo del rione Sanità, quello in cui Martone ormai da anni si è calato in maniera totale e che il sacerdote ha rivoluzionato con molteplici iniziative benemerite. Il regista filma i ristoranti, le case, i loro abitanti, i mercati e ci impregna con essi. Il suo sguardo è quello del protagonista che pare davvero felice – un nome che enuncia il personaggio – tanto da non voler tornare più al Cairo preferendo che la moglie lo raggiunga.

Ma c’è una sorta di peccato originale da risolvere, da affrontare. Quello con l’amico fraterno dell’adolescenza, Oreste Spasiano, divenuto nel frattempo un terribile quanto in fondo disperato boss del quartiere. Lui potrebbe chiamarsi l’infelice. Erano entrambi quindicenni ma un fatto terribile, rimasto segreto, li ha divisi forse per sempre. Felice ha lasciato Napoli in quel momento.

Come con Fellini la materia è il reale, ma l’essenza è onirica

Le sequenze continue di riesplorazione della città, del rione, assurgono qui a riappropriazione dei luoghi, a sinonimo di libertà ritrovata, e sono semplicemente magiche. Ma davvero siamo a Napoli? Queste enormi pareti rocciose sui cui sorgono case, queste grandi mura antiche, danno l’impressione di trovarsi in Nordafrica, in Medio Oriente, a tratti magari addirittura a Gerusalemme. Martone con il solo linguaggio visivo rompe, annulla i confini fisici e mentali. Compresi quelli tra passato e presente, con le magnifiche sequenze di Felice ragazzo in scooter con Oreste, e dove un lavoro di luce, di grana dell’immagine (grande la fotografia di Paolo Carnera), crea insieme differenza e osmosi.

L’effetto di straniamento operato sullo spettatore è grande. Non si sa più se siamo nell’ambito del cinema del reale, o del cinema della trasfigurazione, come non accadeva dai tempi di Federico Fellini, quello di Roma per intenderci, ma senza minimamente scimmiottarlo. Come con Fellini la materia è il reale, ma l’essenza è onirica. Il sogno come mezzo di conoscenza della realtà e di elevazione metafisica al contempo. E la leggerezza contiene la gravità.

Martone, regista di teatro, adattando un romanzo di Ermanno Rea non fa un film “letterario” ma ribaltando il concetto di cinema di impegno civile fa qui del cinema puro e ce n’era un gran bisogno. Per il cinema tout-court.


Altra storia splendida di fratelli spirituali, e di attese fraterne involontariamente tradite, è quella raccontata dal belga Lukas Dhont in Close, il suo secondo atteso lungometraggio dopo aver vinto nel 2018 a Cannes la sezione Un certain regard con Girl, film rivelazione. Se in Close non innova è perché sembra qui come voler segnare un’ideale continuazione con Girl. Se in Girl un ragazzo cercava di cambiare sesso, in Close siamo sempre su un crinale, quello tra la fine dell’infanzia e l’inizio dell’adolescenza, tra amicizia e sentimento fraterno – contiguo all’amore – tra due ragazzini. Il confine è fragile e delicato quanto i sentimenti di esseri umani in formazione, ed è stupefacente la loro direzione su un tema a priori così ostico. Tuttavia, mentre in Girl si fioriva a una nuova vita, qui un ragazzino si trova a dover cercare un nuovo senso alla vita, dopo la tragedia, dopo il lutto. E si va ben oltre la denuncia degli effetti del bullismo.

Emerge quasi un nuovo potenziale concetto di famiglia dal caos raccontato in Brother da Hirokazu Koreeda (già vincitore nel 2018 della Palma d’oro con Un affare di famiglia). Una ragazza abbandona il suo neonato in appositi luoghi previsti in Giappone e due impiegati si impossessano del bambino, la ragazza li scopre, la polizia segue segretamente il tutto. Ognuno ha una colpa eppure ciascuno rivela poi un’umanità trasparente, una luce che lo eleva. Nessuno è “ubicato” in maniera chiara, sul piano morale quanto familiare. Del resto lo stesso regista è qui in trasferta in Corea del Sud. Tuttavia, soprattutto nel finale, lo sguardo umanista del regista si fa di maniera, un po’ facile, e la forza del film decade in parte.


Chi non è mai di maniera, e nemmeno poi tanto alla “loro” maniera, sono Jean-Pierre e Luc Dardenne. Con Tori e Lokita, questa volta i due fratelli belgi si attaccano con la camera ai corpi – sempre con quel mirabile equilibro che li contraddistingue impedendogli di essere pornografici sul dolore, cioè sul tipo del cinema verità – di una ragazza nera, Lokita, e di suo fratello Tori, originari del Benin. Siamo talmente abituati a questo cinema da non vederne forse più la profondità, l’unicità. Eppure Lokita e Tori sono due personaggi stupendamente delineati, degni del cinema neorealista, benché il cinema dei Dardenne sia notoriamente una filiazione – molto autonoma – di quello di Robert Bresson.

Sono letteralmente in simbiosi Tori e Lokita. Si muovono come una cosa sola. Questa è la loro forza e gli permette di affrontare e sopportare i continui soprusi che la sorella deve subire dal capo cuoco italiano di un ristorante – dove Lokita canta con la sua voce meravigliosa – dedito a traffici e a sfruttamento, o dal ragazzo che gestisce la “prigionia” lavorativa di Lokita, o dallo strozzino che li taglieggia togliendogli il denaro da inviare alla madre che peraltro nemmeno gli crede. Tutte le figure maschili sono negative, e Tori nell’aiutare la sorella sembra quasi come voler anche rimediare per loro.

Lokita ha un bisogno disperato di documenti che le permettano, tra le altre cose, di restare accanto all’adorato fratellino che li ha già ottenuti. E in questa disperazione lei è disposta a legarsi mani e piedi a un’organizzazione di gente losca pur di ottenere quello che vuole. Di entrare in un inferno pur di uscire dall’inferno di abitare eternamente nella “terra di nessuno”.

È un film sociale, di denuncia ma al contempo è il contrario di quel tipo di cinema. Non c’è retorica, non c’è maniera, il film è breve quanto il taglio della narrazione è secco e asciutto. In fondo è una gang da film noir e Tori, protagonista della seconda parte, si muove come il perfetto protagonista di un film noir, con pedinamenti e astuzie. Con la differenza che è un bambino. Nero per giunta.

La verità e il candore di Tori e Lokita si esprimono attraverso il loro agire, in maniera naturale, senza il bisogno di orpelli di maniera, ma questo va a cozzare pesantemente con la crudezza circostante. Due mondi opposti. Ed è una guerra tra mondi quella messa in scena dai Dardenne, con tutte le conseguenze del caso.

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