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I film del Cinema ritrovato ci parlano ancora

The blues brothers proiettato in piazza Maggiore a Bologna, il 3 luglio 2022. (Lorenzo Burlando, Cineteca di Bologna)

È stato l’evento clou, se non l’apoteosi, della manifestazione bolognese Il Cinema ritrovato giunta a conclusione domenica. Si tratta della proiezione in piazza Maggiore di The blues brothers (1980) di John Landis, in extended version e alla presenza del regista. Landis ha parlato a lungo, raccontando molti degli aneddoti divertenti dietro alla produzione di un film unico, espressione di un cinema che pare sempre inserito nel presente, sempre attuale. Durante l’intero festival, infatti, non si è mai vista una folla simile per nessun altro dei titoli proiettati. In piazza non si camminava, e questo nonostante fosse prevista in via eccezionale una proiezione anche al cinema Arlecchino. E vedere una parte del pubblico agghindata secondo l’abbigliamento ormai reso mitico dalla coppia John Belushi-Dan Aykroyd – quasi un’elegante e stilizzata divisa anarcoide – e muoversi sincronica nelle file ad alcuni dei pezzi musicali più celebri è stato un altro spettacolo nello spettacolo.

Il fatto è che The blues brothers non solo non somigliava a quanto fatto fino ad allora, ma nemmeno a quanto fatto dopo. La potenza folle, allegra e travolgente del film lascia ancora a bocca aperta, ed è tanto più vero sul grande schermo a oltre quarant’anni di distanza da quando Landis dovette trasformare in una sceneggiatura compiuta 324 pagine scritte in “verso libero” e riuscire nell’impresa non meno folle di far diventare personaggi cinematografici i membri del celebre show Saturday Night Live, in particolare proprio Belushi e Aykroyd, già autori di un disco, Briefcase full of blues, vincitore nel 1978 del doppio platino. Ma è puro cinema e di grande regia, coreografia del movimento, dei corpi come delle automobili che, reinventando il film musicale, aggiorna ai tempi nuovi e con notevole originalità la comicità splapstick e quella di Buster Keaton. Ne viene fuori una folle corsa, dove viene travolto l’intero ordine costituito e trafitta l’intera ipocrisia puritana dell’America bianca, mentre scorrono gioiosamente i grandi della musica nera che se la ridono e se la cantano in esibizioni che hanno segnato intere generazioni. L’ossessione degli Usa per l’ordine costi quel che costi, quasi un catalogo, è perfettamente messa in scena e ridicolizzata dalla coppia “Joliet” Jake Blues (John Belushi) ed Elwood Blues (Dan Aykroyd), che idealmente sembrano chiudere con un ultimo, grandioso fuoco d’artificio gli incontrollati anni settanta prima del grande riflusso degli anni ottanta, che sembrano non finire mai.

È un cinema dove la sceneggiatura è uno scheletro da riempire con la polpa della regia, ma la sorpresa e il piacere non sono stati meno grandi nell’assistere alla proiezione, sempre in piazza Maggiore, di Cantando sotto la pioggia (1962), il classico di Stanley Donen e Gene Kelly. La magnificenza dei colori restaurati e l’inventiva delle coreografie e delle scenografie lasciano ancora a bocca aperta, ci fanno sentire come bambini nella dimensione dell’incanto. E la stessa sensazione si prova assistendo alla versione restaurata in 4K di Il conformista di Bernardo Bertolucci, che si conferma uno dei grandi film sul fascismo e ipnotizza fin dall’inizio.

Ma in piazza c’è stato posto anche per i film muti, come nel caso della versione integrale e restaurata del capolavoro di Erich von Stroheim, Femmine folli, a cento anni dalla sua uscita. Fu il primo grande successo mondiale del regista austriaco ma statunitense d’adozione. Accompagnati in maniera ottima dalle musiche dell’orchestra del teatro Comunale di Bologna, i circa 26 minuti in più rispetto alle più recenti versioni, anche se sempre breve rispetto ai 386 minuti della versione originaria voluta dal regista, hanno amplificato la potenza di uno capolavori del cineasta che fece ricostruire in studio la cittadina del Principato di Monaco con costi altissimi, per raccontare al meglio la sua magnifica ossessione: la decadenza della civiltà europea e quindi della civiltà tout-court. Le parti a colori monocromatici sono state ricostruite con un complesso lavoro e tuttavia ancora oggi creano un effetto onirico straniante nello spettatore, non del tutto lontano dal trip psichedelico, amplificando la forza di questa parabola crudele sulla vacuità meschina di una civiltà destinata all’autodistruzione.

All’estremo opposto del mondo aristocratico in decadenza rappresentato da Stroheim, è stata invece una sorpresa totale la presentazione in piazza dell’ultimo film muto prodotto in Francia, Dans la nuit (1929), unico lavoro da regista dell’attore Charles Vanel, un omaggio intenso e commovente al padre di Vanel – un minatore – e a quel mondo fatto di grande fatica ma anche di grande umanità. L’accompagnamento con musica elettronica della coppia formata da CW03 e CW04, del gruppo musicale finlandese d’avanguardia transgender Cleaning Women, ha rappresentato un esperimento riuscitissimo su cui andrebbe fatta un’analisi a parte e che sembra aderire perfettamente allo spirito dell’opera: dopo una parte iniziale dalla grande bellezza realistica, compreso il modo di fare festa dei minatori, gran parte del film scivola in una dimensione onirica, se non da incubo, e si rivela una sorta di manifesto teorico per una sperimentazione allucinata all’interno di una produzione per il grande pubblico, degna di essere accostata ai capolavori del cinema surrealista o del mitico L’Atalante (1934) di Jean Vigo. E rattrista che i tempi di lavorazione del film non abbiano consentito a quest’opera unica e sincera di arrivare in sala prima dell’esplosione dei film con il sonoro, finendo presto nel dimenticatoio.

Sono opere di puro cinema, opere cioè dove la regia predomina sulla sceneggiatura, dove l’unicità di un talento predomina e dirige gli altri talenti. È emblematico, per esempio, il caso del giapponese Kenji Misumi (1921-1975). La rassegna a lui dedicata è la rivelazione di un autore vero, anche se ricordato come un “autore inconsapevole” per riprendere la definizione di un critico, ed è di quelle che fanno accorrere critici e studiosi da tutto il mondo, come dimostrano le proiezioni andate esaurite. Soprannominato anche “piccolo Mizoguchi”, in particolare per la sua sensibilità al femminile, i suoi film privilegiano il genere della Shambara (il cinema di cappa e spada giapponese), e impressionano davvero. In particolare Kiru (1962), dove in appena settanta minuti un equilibrio miracoloso tra montaggio secco e una raffinata stilizzazione visiva sconfina nell’astrazione e nella poesia, conferendo a questo capolavoro una densità tale da mutare nello spettatore la percezione temporale, amplificando così la forza di quest’analisi, in un determinato contesto sociale, delle dinamiche umane e in particolare femminili che Misumi delinea con notevole forza espressiva.

La sezione Cinema libero, infine, ha riempito i cinema Jolly e Arlecchino con l’indiano Thamp (1978) di Aravindan Govindan, viaggio mirabile tra l’antropologico e la poesia mistica, in uno straordinario bianco e nero, all’interno della piccola comunità di un villaggio messa a confronto con una comunità ospite, quella di un circo itinerante. E con Dar Ghorbat (1975) dell’iraniano Sohrab Shahid Saless, su un gruppo di immigrati turchi nella Germania ovest della fine degli anni settanta. Modernità, secchezza di narrazione, dialoghi e montaggio e una sensibilità quasi pittorica nei colori, con una qualche prossimità con il Nuri Bilge Ceylan degli inizi, questo capolavoro appassiona dall’inizio alla fine e rivela al contempo una modernità e una profondità tali da meritare la proiezione nelle scuole superiori. Perché questo è un cinema che andrebbe “ritrovato” molto spesso.

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