×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

In Messico Francesco è stato un papa scomodo

Papa Francesco nella basilica di Nostra signora di Guadalupe, a Città del Messico, il 13 febbraio 2016. (Max Rossi, Reuters/Contrasto)

Quello in Messico (12-17 febbraio) è stato uno dei viaggi più difficili e complessi per papa Francesco; il paese attendeva infatti il vescovo di Roma con sentimenti diversi a seconda di chi guardava all’evento: speranza, richiesta di giustizia, timore, fastidio.

Una nazione attraversata da violenze gravissime, da una corruzione pubblica che segna la vita politica e spesso ne determina gli esiti, da crisi sociali che non trovano risposte, vedeva in Bergoglio forse l’unica personalità di rilievo a livello mondiale in grado di rompere lo schema di questo dramma. E mai si era visto un papa denunciare con tanta decisione il narcotraffico, la corruzione, addirittura lo schiavismo in certi settori dell’economia o definire tragedia umanitaria la questione delle migrazioni tra nord e sud del continente.

Il papa non ha risparmiato nemmeno la chiesa, invitata seccamente a uscire dalle consorterie di potere, quindi ha celebrato una messa in lingua maya in Chiapas, un fatto le cui ripercussioni non sono facili da comprendere a queste latitudini, ma che ricolloca culturalmente e socialmente la chiesa dalla parte degli indios, vicino ai settori più emarginati della popolazione.

Attese deluse

Cosa è mancato allora? In particolare non c’è stato l’incontro con i familiari dei 43 studenti della scuola di Ayotzinapa rapiti nel settembre del 2014 a Iguala, nello stato di Guerrero; una vicenda che ha suscitato scandalo nel paese, non solo per la gravità evidente del fatto (in Messico sparizioni e uccisioni sono all’ordine del giorno), ma soprattutto per il depistaggio messo in atto da apparati dello stato che hanno cercato di chiudere il più in fretta possibile il caso, forse anche per coprire complicità inconfessabili. Sono state poi commissioni d’inchiesta internazionali a mostrare che i risultati delle indagini ufficiali erano tutt’altro che inattaccabili, e la storia dei 43 ha di conseguenza acquisito con il tempo un alto valore simbolico.

L’entourage del pontefice ha poi lasciato filtrare la notizia che il papa ha parlato del caso dei 43 ragazzi sequestrati incontrando i gesuiti messicani presso la Nunziatura apostolica di Città del Messico. Questi ultimi gli hanno consegnato una lettera dei familiari degli studenti rapiti e il papa ha paragonato il fatto all’esperienza dei desaparecidos argentini, non proprio un complimento per il governo.

Il papa ha denunciato i legami con il potere che per molto tempo hanno caratterizzato una parte ampia della gerarchia messicana

L’altro tema assente è stato quello degli abusi sessuali da parte del clero; un argomento particolarmente drammatico nel paese dei Legionari di Cristo e di padre Marcial Maciel, il loro fondatore, morto da qualche anno, coinvolto in una catena di scandali. E tuttavia, nel discorso rivolto ai vescovi messicani, tra l’altro Francesco ha osservato: “Non perdete tempo ed energie in cose secondarie, nelle chiacchiere e negli intrighi, nei vani progetti di carriera, nei vuoti piani di egemonia, negli sterili club di interessi o di consorterie”.

In queste e in altre parole c’è la denuncia dei legami con il potere che per molto tempo hanno caratterizzato una parte ampia della gerarchia messicana, la stessa che ha sostenuto l’integralismo reazionario dei Legionari. Il papa è andato insomma oltre il già noto, e ha provato a trasmettere quell’idea di “chiesa in uscita” dai palazzi, dai club del potere, per andare in mezzo al popolo.

La Santa Sede non poteva d’altro canto andare allo scontro frontale con il governo di Enrique Peña Nieto: l’obiettivo dei viaggi del pontefice è infatti sempre quello di garantire alla chiesa uno spazio per operare; già i gesuiti e le loro organizzazioni contestano duramente le politiche dell’attuale presidente e denunciano i casi di corruzione come quelli di violazione dei diritti umani; il papa non può trasformarsi in un attore politico, la sua parola deve essere riferimento per tutto il paese.

D’altro canto, sul versante opposto, il governo, che ha dovuto comunque accogliere il pontefice, ha chiesto qualche garanzia ed è stato un negoziato non facile. Di certo tuttavia si è rotto il rapporto preferenziale tra Vaticano e potere politico costruito in Messico negli ultimi venticinque anni dalle gerarchie vaticane. Dietro i sorrisi, gli abbracci, i tentativi messi in atto dalle autorità di trasformare la visita in una fiesta folkloristica un po’ grottesca, c’era tensione. Ma la chiesa, attraverso il papa, riconquistava una voce autonoma, indipendente.

Francesco ha stretto la mano al presidente, come è giusto, ma non ha nascosto il degrado nella vita pubblica: “L’esperienza ci dimostra che ogni volta che cerchiamo la via del privilegio o dei benefici per pochi, a scapito del bene di tutti, presto o tardi la vita sociale si trasforma in un terreno fertile per la corruzione, il narcotraffico, l’esclusione delle culture diverse, la violenza e persino per il traffico di persone, il sequestro e la morte”, ha detto appena arrivato ai responsabili politici del paese.

Un viaggio sotto le minacce

Il papa ha riservato alcuni dei colpi più duri per l’ultima tappa del viaggio, quella nella famigerata Ciudad Juárez, terra di sequestri, femminicidi, traffico di droga e di esseri umani attraverso la frontiera con gli Stati Uniti. Il processo migratorio è stato definito “crisi umanitaria”, “una tragedia umana che si può misurare in cifre”, ha detto Bergoglio, ma “noi vogliamo misurarla con nomi, storie, famiglie”.

Infine, particolare non secondario, il viaggio di papa Francesco è stato costellato da minacce dirette e indirette. Decine di morti in scontri a fuoco a opera dei narcos hanno preceduto e accompagnato la visita, dal conflitto tra bande nel carcere di Monterrey, ai 13 corpi rinvenuti nello stato di Sinaloa, alla giornalista Anabel Flores Salazar, 32 anni, che indagava sui casi di omicidio a Veracruz, ritrovata morta pochi giorni prima che Francesco arrivasse in Messico. C’è poi la vicenda, strana e inquietante, del laser puntato contro l’aereo del papa al suo arrivo nel paese.

Bisogna insomma fare i conti con tutto questo, con un quadro già delicatissimo. Nel frattempo però si potevano registrare i primi effetti del viaggio: la denuncia della tragedia umanitaria delle migrazioni compiuta a Ciudad Juárez (e ascoltata anche dall’altra parte del confine, a El Paso) varcava la frontiera tra i due paesi e incrociava la campagna elettorale per la Casa Bianca in corso negli Stati Uniti, dove il problema dei diritti dei migranti è al centro di dure polemiche tra i candidati e il voto dei latinos è sempre più determinante al momento di eleggere il presidente.

pubblicità