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Bob Dylan va per la sua strada, per questo fa dischi grandiosi

Bob Dylan durante il concerto con Neil Young a Hyde park, Londra, 12 luglio 2019. (Brian Rasic, WireImage/Getty Images)

Qualche giorno fa Bob Dylan ha concesso una rarissima intervista al New York Times. A una domanda su vecchiaia e salute ha risposto nel solito modo sibillino: “Penso che il corpo e la mente vadano di pari passo. La mente è lo spirito, il corpo è la materia. Come le due cose si debbano integrare, non ne ho idea. Cerco di seguire una linea retta, di stare al passo”.

È una risposta apparentemente elusiva e generica, eppure è significativa. Perché Bob Dylan nella vita e nella musica segue da sempre una linea retta, o perlomeno quella che lui pensa sia una linea retta. Negli anni sessanta per seguire quella linea ha abdicato al ruolo di menestrello dei diritti civili, nonostante fosse stato eletto (dagli altri) il portavoce di una generazione. Ha piantato tutti in asso e si è messo a cantare di ragazze sbandate “with no direction home”, lasciando da parte la politica per raccontare l’interiorità, sostituendo per qualche anno l’impegno civile con la psichedelia. Quando tutti sono andati a Woodstock a cantare la rivoluzione, lui ha preferito esibirsi all’isola di Wight. Negli anni ottanta si è riscoperto cristiano, e ha cominciato a fare musica religiosa come un Kanye West ante litteram.

Negli ultimi anni Dylan ha giocato a fare il crooner, riscoprendo un novecento in bianco e nero. Nell’ultimissima fase ha addirittura ricantato (male) Frank Sinatra e il grande canzoniere americano, con un’operazione nostalgia culminata con il noiosissimo Triplicate. Gli hanno dato il Nobel per la letteratura e non si è neanche presentato, ha mandato Patti Smith. Nel frattempo ha continuato ad andare in tour per il mondo, riarrangiando come al solito i suoi successi del passato come gli pareva e scontentando sempre qualcuno (gli è sempre piaciuto tradire le aspettative, del resto).

Citazioni, pessimismo, blues
Ora, nel bel mezzo di una pandemia globale e di un conflitto etnico e sociale che infiamma gli Stati Uniti, Dylan è tornato con Rough and rowdy ways, il suo primo disco di inediti in otto anni, il 39° in studio in carriera, un nuovo passo nel solco della linea retta. Rough and rowdy ways è un disco nostalgico fin dal titolo, che omaggia il cantautore country Jimmie Rodgers, maestro dello yodel (si fa fatica a immaginare una cosa più antistorica dello yodel). Il titolo dell’album allude ai difetti dell’essere umano, ma anche a quelli del suo autore, famoso per avere un carattere spigoloso. E non è certo un lavoro ottimista: è pieno di quadretti apocalittici, immagini che fanno pensare alla fine dei tempi, alla morte. Non è la prima volta. Già da giovane Dylan cantava di una “dura pioggia” che sarebbe presto caduta sulla Terra. Ai tempi gli altri dicevano che si riferiva alla guerra nucleare, lui negava. Oggi direbbero che la dura pioggia è il coronavirus, o il cambiamento climatico. Lui sicuramente negherebbe.


Musicalmente Rough and rowdy ways fa pensare a due dischi recenti del cantautore di Duluth: Modern times e Tempest. È più elettrico che acustico, più country e blues che folk. C’è qualche episodio più sorprendente, come Black rider, dove sembra di essere quasi dalle parti del flamenco. Una novità da far notare è forse il gusto quasi tarantiniano per le citazioni. Dylan snocciola titoli di canzoni, film, libri e avvenimenti storici del novecento: c’è Anna Frank, c’è Jimmy Reed, a cui Dylan dedica un blues a metà disco, ci sono i Rolling Stones e Charlie Parker. Ma il cantautore va anche molto più indietro. I contain multitudes, il primo brano in scaletta, omaggia il gusto per la contraddizione di Walt Whitman e comincia con una citazione di Macbeth. Altrove saltano fuori Marx e Poe, mentre nella dolceamara My own version of you il protagonista crea un’amante raccattando pezzi di cadavere in moschee e monasteri e assemblandoli. La donna nasce in un’esplosione di elettricità, mentre il suo creatore piange e ride contemporaneamente: impossibile non pensare a Frankenstein.

Le due zampate finali del disco sono così intense che sembrano in grado di scuotere l’aria. La prima è Key West (Philosopher pirate), un pezzo folk dedicato alla città circondata dal mare in Florida, che Dylan descrive come una specie di paradiso in terra lungo un ispiratissimo flusso di coscienza. Per l’incedere e la melodia Key West fa pensare a Most of the time, splendido brano di Oh mercy, ma anche al Tom Waits di Cold, cold ground, con quella fisarmonica a fare da contrappunto alla voce di Bob. “Key West è il posto migliore dove trovarsi se si cerca l’immortalità, Key West è il paradiso divino. Se hai perso il senno, lo ritroverai là. Key West è sulla linea dell’orizzonte”, declama il cantautore con tono profetico. Un pezzo che da solo vale tutto il disco.


E alla fine c’è Murder most foul, che da solo occupa tutto il secondo cd e meriterebbe una recensione tutta per sé. Murder most foul è un pezzo torrenziale, il più lungo nella carriera del cantautore (16 minuti e 56 secondi) ed è stato il suo primo numero uno nella classifica statunitense. Il pezzo parla dell’assassinio del presidente americano John F. Kennedy, avvenuto a Dallas nel 1963, ma nasconde talmente tanti riferimenti che è difficile analizzarli e coglierli tutti. Quello più evidente è ancora una volta Shakespeare, in particolare Amleto (“Murder most foul” è un’espressione usata nel primo atto della tragedia dal fantasma del padre di Amleto). La stessa morte di Kennedy assume i contorni del regicidio, trascende lo spazio e il tempo, diventando una vicenda simbolica.

Ma c’è di più. A un certo punto del brano Dylan si rivolge a Wolfman Jack, storico disc jokey statunitense morto nel 1995 e comparso anche in American graffiti, e gli chiede di suonargli delle cose da ascoltare nella sua “lunga Cadillac nera”. Gli tornano in mente film e altre schegge del passato, cose che l’hanno formato da ragazzino. E così, da un certo punto in poi, la canzone diventa quasi un elenco di persone, film, luoghi, un po’ come succedeva nel capolavoro Desolation row. Sotto il tetto dei ricordi di Dylan convivono i Beatles, Marilyn Monroe, Woody Allen, gli Who, John Lee Hooker, avvenimenti storici come il massacro di Tulsa e la guerra civile tra nord e sud, canzoni come St. James Infirmary (citata anche nella Peste di Camus, a proposito di pandemie), Etta James, Charlie Parker, i Queen, Via col vento, Beethoven e non solo. Ritorna, ancora una volta, Shakespeare, che s’interseca con Miles Davis (“Play Merchant of Venice, play Merchants of Death. Play Stella by Starlight for Lady Macbeth”). Arrivati ai quasi diciassette minuti, non si può che restare meravigliati da quello che Bob Dylan è ancora capace di fare a 79 anni.

La stampa internazionale ha accolto Rough and rowdy ways in modo entusiasta: testate prestigiose come il Guardian e Mojo gli hanno dato cinque stelle su cinque. E in effetti il disco è molto ispirato, soprattutto grazie ai testi, e regge il confronto con alcune delle sue produzioni migliori degli ultimi decenni (non con gli anni sessanta, quelli sono inarrivabili). Da un punto di vista formale ormai siamo sempre più dalle parti dello spoken word, un po’ come negli ultimi album di Leonard Cohen.

Quando a marzo è uscito Murder most foul, per un attimo ho pensato che quella era la sua ultima canzone. Un commiato dai fan e dalla vita. Ora è uscito Rough and rowdy ways, e ci vorrà tempo a metabolizzarlo per bene e a incasellarlo nella vasta discografia dylaniana. In un certo senso sarebbe bello se fosse il suo ultimo lavoro. Sarebbe la chiusura grandiosa di una carriera che, è scontato ma necessario dirlo, non ha pari. Eppure qualcosa mi dice che, quando meno ce lo aspetteremo, Bob Dylan si rimetterà in cammino su quella linea retta. Retta secondo lui.

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