La tradizione vuole che le ultime parole di Goethe prima di morire furono “Mehr Licht”, più luce. Il poeta e cantautore canadese Leonard Cohen invece ha scelto di andarsene sprofondando lentamente nell’oscurità del suo ultimo album You want it darker in cui, canzone dopo canzone, vengono spente “le milioni di candele accese per implorare un aiuto che non è mai arrivato”.

You want it darker è un canto funebre che riavvicina Cohen alle radici ebraiche: “Hineni, hineni”, canta, “Eccomi signore, sono pronto”. Cohen come David Bowie sapeva che doveva morire e, come Bowie, è riuscito a organizzare un’uscita di scena da grande mattatore. Cohen è riuscito anche a leggere il suo coccodrillo più bello da vivo. Il lungo articolo di David Remnick sul New Yorker, uscito in occasione del lancio del disco (il suo secondo album nella top ten statunitense), letto oggi ha tutta l’aria di un sentito elogio funebre. L’ultima musica di Cohen è oscura, ma il buio in cui si ritira fino a scomparire non è spaventoso, è quasi rassicurante, accogliente. E Cohen ci si immerge con la curiosità, la sensualità e l’ironia che hanno segnato tutto il suo lavoro.

Leonard Cohen nacque a Montréal in Canada nel 1934 e ha cominciato come poeta, folgorato dai versi di Federico García Lorca. Pubblicò il suo primo album, Songs of Leonard Cohen, solo nel 1967. La sua prima canzone a diventare famosa fu Suzanne, cantata dall’artista folk Judy Collins l’anno prima.

“Quando la gente parla di Leonard Cohen”, ha detto Bob Dylan in un’intervista con David Remnick, “si dimentica di ricordare le sue melodie che, secondo me, insieme alle parole che scrive, sono il suo tratto più geniale”. In certi pezzi di Cohen pare che il canto, la linea melodica, arrivi prima delle parole che sembrano formarsi quasi da sole su quell’onda.

Da qui nasce la maestosa semplicità di un pezzo come Hallelujah, di cui Bob Dylan si era appassionato ben prima che fosse un fiammeggiante successo per Jeff Buckley e che, elegantemente cantato da Rufus Wainwright, finisse nella colonna sonora di Shrek. Hallelujah è forse la canzone di Leonard Cohen che meglio di tutte mostra l’ambiguità della sua poesia, beffarda anche quando parla del vecchio testamento, ma che si adagia su una melodia celeste che di beffardo non ha nulla e che, anzi, ha molto della musica sacra. “But you don’t care for music, do you?”, ma tanto a te la musica non interessa, no?

La linea melodica purissima di Hallelujah è stata anche la sua maledizione. È diventata una vetrina per bravi cantanti e belle voci che a volte le hanno fatto onore (Jeff Buckley e kd Lang) e nei casi peggiori l’hanno trasformata in carne da macello per talent show.

Cohen era anche un grande cantante, uno showman. Quando ha cercato di fare un album più pop con il produttore più famoso degli anni sessanta, Phil Spector, è stato un disastro annunciato. Nel 1977 sia Cohen che Spector erano due pugili suonati, uno era depresso e l’altro un pazzo furioso, e la genesi di Death of a ladies’ man è stata punteggiata da crisi di ogni tipo, culminate con una pistola puntata dal produttore alla tempia dell’artista. “Io ti voglio bene, Leonard”, pare avesse detto Spector a Cohen tenendogli la pistola puntata contro. “Spero davvero che sia così”, gli avrebbe risposto Cohen mantenendo la calma. L’album è stato accolto con estrema freddezza dalla critica: Rolling Stone lo definì “Un incubo doo wop”. Eppure il disco, con la sua produzione enfatica e le sue ridondanze, ha un fascino particolare e ci mostra un artista che rimane tale anche fuori dalla sua zona di sicurezza, un intrattenitore disperato che canta di desiderio sessuale animalesco e voyeurismo. In Don’t go home with your hard-on (Non tornartene a casa con la tua erezione), Allen Ginsberg e Bob Dylan, capitati in studio per caso, fanno da coristi.

Cohen ritrova la sua voce alla fine degli anni ottanta con l’album I’m your man (1989), in cui si rivela di nuovo capace di proiettare nella musica le diverse sfumature della sua poesia, quella più spirituale, quella satirica e quella sensuale. I’m your man, la canzone che dà il titolo all’album, è forse uno dei testi d’amore più sexy e contraddittori mai scritti da un uomo. Gli uomini sono abituati a proiettare le loro fantasie sessuali sulle donne, a convivere con i propri fantasmi erotici, con i sogni proibiti, a coltivarseli e rivederseli ossessivamente come vecchie videocassette. Cohen capovolge il gioco e si offre passivamente come schermo su cui la sua donna può proiettare il proprio immaginario sessuale. Vuoi un pugile che salga sul ring per te? Vuoi un dottore che ti esamini palmo a palmo? (nel live del 2014 il pubblico ha una reazione tra la risata e l’ovazione su questo punto, perché il sesso in una performance è sempre sesso, a trent’anni come a ottanta), Vuoi un autista o vuoi essere tu a portarmi in giro? Cohen si offre come oggetto di piacere, come compagno di vita, come fuco per la riproduzione. Più la canzone va avanti e più il suo desiderio diventa scomposto e l’uomo si ritrova a supplicare, a guaire come un cane con una catena troppo corta.

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Il canto è il filo d’Arianna da seguire per ricostruire la vita e l’arte di Leonard Cohen, forse prima ancora della parola. Da quello mitico delle sirene dell’isola greca di Idra, in cui ha vissuto all’inizio degli anni sessanta in poetico eremitaggio, fino a quello dei monaci buddisti del monastero californiano in cui si è ritirato negli anni novanta. Passando per le voci dei grandi crooner e dei bluesmen che lo hanno influenzato, fino a quelle delle sue più amate muse e collaboratrici: Judy Collins, Joni Mitchell, Sharon Robinson, Jennifer Warnes e Anjani Thomas.

Leonard Cohen si era già costruito da tempo, come i faraoni, la sua piramide. È quella Tower of song che chiude I’m your man. Una torre altissima in cui Cohen sente tossire tutta la notte il cantautore country Hank Williams che abita “cento piani più in alto”, un Valhalla in cui paghi l’affitto con il tuo canto.

E anche quando sarò andato, canta Cohen, “mi sentirai ancora, ti parlerò dolcemente da una finestra nella torre della poesia”.

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