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L’apocalisse dolce di Nick Cave in un nuovo disco

Warren Ellis e Nick Cave. (Joel Ryan)

Nick Cave è ossessionato dalla Bibbia. Negli anni sessanta, da bambino, fece parte del coro della chiesa di Wangaratta, in Australia. Da quel momento, come ha raccontato lui stesso nel libro Stranger than kindness, le storie cristiane l’hanno catturato e non l’hanno mollato più, diventando una delle principali fonti d’ispirazione delle sue canzoni: per esempio The mercy seat, il brano del 1988 che racconta la storia di un condannato a morte destinato alla sedia elettrica, è intrisa di lessico celeste. Tupelo, la canzone sulla nascita di Elvis Presley contenuta nell’album The firstborn is dead, usa un linguaggio che sembra uscito dall’Apocalisse di Giovanni.

Carnage – il nuovo album di Cave pubblicato a sorpresa in digitale il 25 febbraio, che Internazionale ha potuto ascoltare in anteprima nei giorni scorsi – prosegue su questa scia e getta un’ombra biblica sulla pandemia di covid-19 che sta colpendo il mondo. È un disco apocalittico e dolce, ancora una volta sospeso tra dannazione e redenzione. Il cantautore l’ha registrato durante il lockdown insieme al polistrumentista Warren Ellis, senza gli altri componenti dei Bad Seeds. Uscirà in cd e in vinile a maggio.

Il primo pezzo, Hand of God, comincia con una melodia dolce, ma nel giro di pochi secondi sembra collassare su se stesso, aprendosi ad atmosfere elettroniche in stile Nine Inch Nails e a orchestrazioni alla Scott Walker. Nel brano il protagonista va lungo un fiume, che potrebbe essere il Giordano o il Mississippi di William Faulkner, poco importa, e una mano di Dio scende minacciosa dal cielo.

Nel finale di White elephant, una canzone che cita le proteste del movimento Black lives matter negli Stati Uniti (“Un manifestante s’inginocchia sul collo di una statua / La statua dice I can’t breathe”, canta Cave), spunta un inno gospel che invoca il regno dei cieli (l’espressione “kingdom in the sky” ricorre spesso nell’album). La cronaca entra nella musica, ma sempre in chiave surreale, un po’ come succedeva in Higgs boson blues.

Dal punto di vista sonoro, Carnage è il gemello minimalista del precedente Ghosteen: i brani sono scarni, per lo più si reggono solo su tappeti di sintetizzatori e qualche nota di piano. Oltre al lutto e all’orrore però, come sempre più spesso succede nei dischi del cantautore australiano, c’è anche la dolcezza: viene fuori tutta nella commovente Albuquerque, che sembra una canzone d’amore per la moglie Susie, dove “un bambino nuota tra due barche”. Nelle peripezie on the road di Old time, tra una citazione di Glen Campbell, la visita a un motel lungo la strada e le fughe del violino distorto di Warren Ellis, si nasconde uno dei pezzi migliori.

Carnage è un album di appena otto brani, costruito come detto su pochi elementi, ma la qualità della scrittura di Nick Cave è ancora una volta molto alta. E il verso finale dell’ultimo pezzo, l’etereo Balcony man, è una chiusura perfetta tra nichilismo e ironia. Mentre il protagonista balla su un balcone come Fred Astaire sotto il sole del mattino, un’immagine che piacerebbe a Bob Dylan, Cave canta: “And what doesn’t kill you just makes you crazier”, tutto quello che non ti uccide ti rende più pazzo.

Una versione più breve di questo articolo è stata pubblicata sul numero 1398 di Internazionale.

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