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La nuova metamorfosi di St. Vincent

St. Vincent. (Zachery Michael)

St. Vincent, Pay your way in pain
Annie Clark, in arte St. Vincent, si nutre di metamorfosi. Da paladina dell’indie-rock dei primi dischi è diventata prima spalla di David Byrne, poi icona sexy un po’ androgina (in Masseduction, il suo disco più di successo, ma anche il meno interessante che ha fatto). Queste identità oggi convivono in lei: è una nerd collezionista di chitarre elettriche, suona con i Nirvana (o quel che ne resta) e fa le cover dei Tool, ma ha prestato il suo volto alle pubblicità di Tiffany, per non parlare della sua storia da rotocalco con la modella Cara Delevingne.

Di solito, a ogni disco St. Vincent cambia pettinatura. E il caschetto biondo platino un po’ anni settanta con cui presenta il nuovo album Daddy’s home, che uscirà il 14 maggio ed è ispirato alla storia di suo padre, uscito dal carcere nel 2019 dopo nove anni per una storia legata a una truffa finanziaria, non è casuale. È il segnale della nuova svolta glam, evidente già nel primo singolo estratto dal disco, Pay your way in pain.

Tra le fonti d’ispirazione di Daddy’s home, come ha raccontato Clark in un’intervista al Guardian, ci sono i vinili che il padre le faceva ascoltare da bambina. Tutta musica newyorchese degli anni settanta. E infatti nei suoni della canzone sembra di risentire una versione rielaborata di certi pezzi di David Johanesen, del Lou Reed di Transformer ma, per citare dei musicisti non newyorchesi, del solito Bowie (il gioco di parole “Pay, pain, pray, shame” fa venire in mente il capolavoro Fame) e, perché no, di Prince, dal quale St. Vincent prende in prestito una ritmica funky e quell’uso dei cori nel ritornello.

A prima vista, la nuova svolta di St. Vincent sembra più interessante di quella di Masseduction, che suonava come un disco troppo cerebrale. Certo, giudicare un disco da un singolo è veramente prematuro e mancano tre mesi. Però questo primo antipasto fa molto ben sperare.


Silk Sonic, Leave the door open
Avevo delle aspettative alte sulla collaborazione tra Anderson .Paak e Bruno Mars, ma sinceramente sono un po’ deluso. Leave the door open è un brano con un’ottima confezione, ma troppo scolastico. Avrei preferito che i due musicisti si lasciassero un po’ più andare. Il pezzo anticipa l’album An evening with Silk Sonic, che avrà un ospite speciale: il mostro sacro del funk Bootsy Collins, già attivo nei J.B.’s, la band di James Brown negli anni settanta, e nei Parliament-Funkadelic di George Clinton.


Colapesce e Dimartino, Musica leggerissima
C’è Sanremo, e in questi giorni lo sappiamo anche troppo bene che c’è, visto che ne parlano tutti (anche Internazionale, e vi consiglio questi due articoli di Claudia Durastanti e di Daniele Cassandro). Ma c’è vita anche oltre Sanremo. E quindi per i cantanti non si tratta solo di andarci, al festival, ma anche di sopravvivere al suo carrozzone, di riuscire a essere se stessi tra una gag di Fiorello e l’altra, soprattutto se non si vive (quasi) solo di questi contesti come Ermal Meta o Noemi.

Colapesce e Dimartino sono arrivati all’Ariston da outsider, ma hanno trovato la chiave giusta per sopravvivere. Anzitutto hanno affrontato fin da subito l’esperienza con molta autoironia. Sul palco, poi, hanno portato un brano che ha una confezione pop retrò molto leggiadra, ma che in realtà parla di pandemia e depressione, tra buchi neri, figli alcolizzati e voglia di niente. È la canzone di Sanremo che rappresenta meglio il momento assurdo nel quale ci troviamo. Forse è proprio per questo che è la più trasmessa dalle radio.


Bruce Springsteen, Royals
3 gennaio 2014. Bruce Springsteen suona ad Auckland, in Nuova Zelanda. E che fa? Si presenta sul palco voce, chitarra e armonica e suona una versione acustica di Royals, successo della popstar neozelandese Lorde che prende in giro il lusso inutile delle star dell’hip hop.

Suonato così, Royals sembra proprio un pezzo di Springsteen, come fosse il flusso di coscienza dei protagonisti delle canzoni di The river o di Born to run, dei perdenti che prendono in giro i ricchi, ma sotto sotto li invidiano. Il brano fa parte di The Live Series. Songs under cover vol. 2, la nuova pubblicazione dagli archivi live del Boss.


Ian Sweet, Drink the lake
Gli Ian Sweet sono il progetto della cantautrice Jilian Medford, 27 anni. Fanno una musica malinconica e dolcemente psichedelica. Qualcosa a metà tra i Big Thief e i Beach House. Il 5 marzo è uscito il loro terzo album, intitolato Show me how you disappear. Come ha raccontato Pitchfork, il disco, oltre a essere stato registrato in parte nei mesi della pandemia, è stato scritto mentre la cantante affrontava un periodo difficile, durante il quale è andata in terapia per affrontare problemi di ansia.


P.S. Playlist aggiornata, c’è anche Nick Cave che avevo recensito la settimana scorsa. Buon ascolto!

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