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Il debito che tutti abbiamo con Franco Battiato

Franco Battiato a Roma, 10 novembre 2015. (Ansa)

Dal cruscotto della macchina, durante le gite del fine settimana, spuntavano fuori sempre le solite tre o quattro cassette, con le copertine di plastica rigate e i nastri che ogni tanto uscivano fuori e andavano sistemati con una forcina, o anche con le dita. Achtung baby degli U2, Blue’s di Zucchero, Discanto di Ivano Fossati. E poi c’era Caffè de la Paix, di Franco Battiato. Era l’inizio degli anni novanta e la musica mi arrivava così, come un suono tutt’altro che perfetto in uscita dalle casse dell’autoradio della Golf di mio padre. E mentre ascoltavo quelle canzoni mi veniva voglia di guardare fuori dal finestrino. Franco Battiato, per me che sono nato nella seconda metà degli anni ottanta, è comparso così, quasi subdolamente, tra le pieghe delle mie prime gite fuori porta.

Nel pezzo che apre Caffè de la Paix c’è uno dei tanti esempi di quello che il cantautore – nato a Ionia nel 1945 e morto oggi a Milo – sapeva fare: sintetizzare. Battiato era un esploratore, un uomo colto che si divertiva ad abbattere i confini tra le arti. Ma non era un elitario, nonostante il modo in cui è stato spesso dipinto. Battiato era pop. E la canzone Caffè de la Paix è pop al quadrato, anche se leggendola a un livello più profondo ci si possono trovare tantissime cose, dagli echi della musica classica al mistico e filosofo George Gurdjieff, dal suo locale preferito di Parigi al Libro tibetano dei morti, dagli echi della musica indiana a quella mediorientale.


In quel disco c’è un altro brano che dice tanto di Battiato: Fogh in nakhal, reinterpretazione di un canto della tradizione popolare irachena. Battiato l’aveva suonato nel 1992 in occasione dello storico concerto a Baghdad, accompagnato dai Virtuosi italiani e dall’orchestra sinfonica nazionale d’Iraq. L’evento era stato organizzato per sostenere l’Unicef e le bambine e i bambini iracheni, che pagavano le conseguenze sia della guerra del Golfo sia delle sanzioni economiche.

A chi gli contestava la scelta di aver suonato nella capitale del regime di Saddam Hussein, Battiato aveva dato una risposta delle sue: “Lo scopo della mia visita in Iraq era umanitario, perché non trovo giusto che un popolo debba soffrire per colpe non sue; ma è anche vero che credo sia giusto dare a tutti una possibilità di redenzione, agli assassini di diventare santi”.


Negli anni successivi, Battiato per me è ritornato più volte. Prima con il cd dell’Imboscata, che vedevo spesso appoggiato sopra lo stereo in salotto, con quelle chitarre rock, con le citazioni di Eraclito e i testi del filosofo Manlio Sgalambro, con il successo mainstream della Cura (che sarà pure inflazionata, ma resta una canzone monumentale). Poi con i suoni oscuri di Gommalacca, uno dei suoi dischi che ancora mi affascinano di più, dove al basso c’era il suo discepolo Morgan (uno che cantava “capire Battiato”).

Al tempo Radio Deejay passava Shock in my town varie volte al giorno. Battiato era capace di questo, di cantare parole in sanscrito e finire contemporaneamente su una delle più ascoltate radio commerciali in Italia. Ed è rispuntato fuori nei modi più assurdi, per esempio in una canzone da discoteca di Prezioso. Ma chi altro potrà mai avere la capacità di trasportare i derviches tourneurs sulla pista del Cocoricò di Riccione? Nessuno, probabilmente.


Poi dopo, solo molto dopo, ho scoperto la sua discografia più nota, quella del periodo con Giusto Pio, del sodalizio con Alice, che continua a influenzare la maggior parte dei cantautori italiani. Musica capace anche di fare critica sociale tenendo sempre la giusta distanza dalla stretta attualità. E quindi canzoni perfette (difficile definirle altrimenti) come Summer on a solitary beach, Passaggi a livello, Povera patria, Stranizza d’amuri.

È stato uno dei primi musicisti pop in Italia a sperimentare con i sintetizzatori e la musica concreta, a omaggiare Karlheinz Stockhausen (nell’album Clic). Ed ebbe il coraggio di mettere un feto in copertina nel suo primo album in studio, Fetus, nel 1972. L’elettronica sofisticata di Sulle corde di Aries, se ascoltata oggi, regge benissimo la prova del tempo.

Battiato si è spinto ancora oltre: si è dedicato perfino alle atmosfere esoteriche con Gilgamesh, un’opera in due atti ispirata all’eroe dell’epica mesopotamica. Ed è stato un custode prezioso delle canzoni degli altri, che ha interpretato con una classe invidiabile nella serie Fleurs. Ricordo ancora mia nonna che canticchiava Perduto amor, una canzone dei suoi tempi, nel salotto di casa.

Negli ultimi anni le canzoni di Battiato sono state cantate da diversi musicisti. I Subsonica l’hanno affrontato di petto, i Csi l’hanno aggirato con le loro chitarre dandogli un retrogusto grunge, Colapesce e Carmen Consoli, anche loro siciliani, sono tra quelli che l’hanno omaggiato con più grazia e rispetto, sia nei loro brani sia nelle cover che hanno cantato.

In questi giorni si parla molto di un disco, Ira di Iosonouncane, un album che prende in prestito da Franco Battiato la voglia di superare le frontiere, di esplorare territori sonori molto lontani dai nostri. Ecco, perfino Iosonouncane ha un grande debito nei confronti di Battiato. E non a caso dieci anni fa ha suonato e cantato (molto bene) Summer on a solitary beach.


Introducendola, ha detto: “Adesso faccio l’unica canzone non mia che ogni tanto faccio dal vivo. Magari fosse mia, invece è sua”. Forse quasi tutti i musicisti quando ascoltano le canzoni di Battiato pensano proprio la stessa cosa: “Magari fosse mia”.

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