×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

Orfani di Pitchfork

Ryan Schreiber, fondatore di Pitchfork, nella sede del giornale a New York, negli Stati Uniti, 14 luglio 2010. (Joshua Bright, The New York Times/Contrasto)

Pitchfork non piace a tutti gli appassionati di musica. Alcuni lo considerano un giornale online per hipster con la puzza sotto il naso, altri (in parte anche giustamente) sostengono che negli ultimi anni il sito statunitense di recensioni e notizie musicali è peggiorato, che i suoi articoli si sono annacquati e che la scelta di coprire generi mainstream come il pop sia sbagliata (su questo sono un po’ meno d’accordo). Le recensioni di Pitchfork dividono: alcuni le trovano brillanti, divertenti, perfino colte. Altri le considerano irritanti, gratuite, scritte male. Ma che Pitchfork piaccia o no, il forte ridimensionamento della testata e il licenziamento di dodici giornalisti della redazione voluto da Condé Nast, l’editore che l’ha rilevata nel 2015, non può che essere una brutta notizia. Perché? Provo a spiegarlo.

Pitchfork esiste (viene la tentazione di usare il passato) dal 1996, quando Ryan Schreiber, che al tempo lavorava in un negozio di dischi, fondò un blog di recensioni musicali focalizzato soprattutto sulla musica alternativa e indipendente. Nel 1996, per capirci, non esisteva ancora Napster, quindi l’industria musicale non somigliava neanche lontanamente a quella di oggi. L’idea alla base di Pitchfork era semplice: far scoprire alle persone nuova musica da ascoltare, consigliargli quali album comprare e quali evitare. Schreiber, dopotutto, lavorava in un negozio di dischi.

Negli anni Pitchfork è cresciuto sempre di più, trasformandosi da un piccolo sito di culto a un punto di riferimento per la critica musicale statunitense, e non solo. Ha svecchiato un linguaggio consolidato da anni, ha fatto da ponte tra la generazione dei boomer e quelle successive. Ha avuto un ruolo nel successo di tante band importanti: per esempio ha aiutato i Radiohead a conquistare una fetta di pubblico negli Stati Uniti, un compito sempre difficile per le band britanniche, dando un voto di 10 su 10 a Ok computer e Kid A (un disco che, va sempre ricordato, quando uscì non fu proprio capito da tutti i critici). E ha dato una bella spinta alle carriere dei Wilco e degli Arcade Fire (gli stessi che poi, anni dopo, ha affossato con un’inchiesta sulle molestie commesse dal cantante Win Butler).


Nel mio piccolo, per esempio, mi ha convinto ad approfondire la conoscenza di Kanye West, del quale mi sono innamorato tardivamente solo dopo aver ascoltato My beautiful dark twisted fantasy. Pitchfork inoltre faceva parlare molto di sé anche quanto stroncava senza pietà artisti come i Jet, con recensioni spassose, al limite del situazionismo. E il suo festival, partito da Chicago e allargatosi in altre parti del mondo, ha offerto sempre delle line up di alto livello.

Poi però, come ha scritto Casey Newton in un ottimo articolo uscito la settimana scorsa sul sito Platformer, le cose sono progressivamente cambiate. Mentre Pitchfork cresceva, l’industria musicale si evolveva. Prima era arrivato Napster (nel 1999), poi l’iTunes store (2003), e l’accesso illimitato alla musica ha cominciato a mettere in crisi l’idea di album.

La mazzata finale è stata data da Spotify, che non solo ha permesso alle persone di ascoltare musica senza limiti (e in modo legale, quindi con l’appoggio delle case discografiche), ma ha anche assunto il ruolo di guida all’ascolto proponendo alle persone delle playlist curate dalla stessa piattaforma. Se un tempo una recensione poteva dare una spinta decisiva a una carriera, oggi è il fatto di essere o non essere dentro una playlist a risultare decisivo. E l’uso dell’intelligenza artificiale sta rendendo queste playlist sempre più aderenti ai gusti degli utenti. Per Pitchfork è stato molto difficile competere con queste piattaforme, fa notare Newton. E ha ragione.

Pitchfork, come detto, negli ultimi anni sotto la direzione di Puja Patel (che ora se ne andrà perché Pitchfork diventerà di fatto una costola del sito del mensile maschile GQ) aveva perso alcune firme storiche, ma aveva comunque provato ad allargare la platea del sito, occupandosi sempre più di pop e lanciando una sezione (fatta molto bene) chiamata Sunday reviews, dove dischi del passato venivano recensiti e analizzati a posteriori, raccontando il contesto che gli stava attorno, oltre ovviamente ai podcast e ad altri progetti. Ma, forse, i conti del sito erano in passivo e la Condé Nast, invece che investire risorse su un possibile rilancio di Pitchfork, ha deciso di ridimensionarlo e, chissà, un domani di chiuderlo. A questo punto, a giudicare dall’allontanamento di Patel e di altri giornalisti, ci sarebbe poca differenza.

Cosa c’insegna questa storia di Pitchfork? Che per l’editoria non è un momento facile, ma questo già lo sapevamo. E che per l’editoria musicale sono proprio tempi bui, ma anche questa non è una novità. L’unica cosa che mi sento di dire a margine – per provare a difendere il piccolo fortino sempre più traballante del giornalismo musicale – è che nessuna playlist è in grado di raccontare tutto quello che sta attorno alla musica; di creare collegamenti non scontati tra gli artisti, di storicizzare i generi e i periodi; non è in grado, insomma, di avere e trasmettere senso critico. Forse è scontato farlo notare, ma conviene farlo. Leggete, per esempio, questo articolo del mio collega Daniele Cassandro pubblicato nei giorni scorsi su Internazionale. Probabilmente una cosa così l’intelligenza artificiale non sarebbe in grado di scriverla. Fino a quando reggeranno queste obiezioni? Chi lo sa, dipende anche dai passi avanti dell’intelligenza artificiale e dall’impatto che avranno sull’editoria. Per il momento proviamo a difendere il fortino. Come soldati nella notte d’inverno, cantava quello.

Questo testo è tratto dalla newsletter Musicale.

pubblicità