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Regalare libri è una dichiarazione di guerra

Gentile bibliopatologo,
ogni volta che mi sono affezionata a qualcuno, ogni volta che ho raggiunto un legame più profondo con un amico, ma soprattutto ogni volta che mi sono innamorata, ho sentito il bisogno incontrollabile di regalare un libro. Non uno in particolare né uno qualsiasi, bensì il libro perfetto (secondo me) per quella persona. Qui partiva un’attentissima analisi delle novità, dei classici o delle rarità per accoppiare la persona al volumetto. A volte la ricerca cominciava dalla mia libreria personale, altre volte finivo a passare giornate in librerie immense o nottate su cataloghi online. Considerando che spesso lo sforzo non è stato apprezzato, o addirittura ha condizionato in negativo l’opinione del destinatario, dovrei porre fine a questa romantica abitudine?

–Costanza D.

Cara Costanza,
davvero credi che la tua sia un’abitudine romantica? Io direi piuttosto che è un’abitudine guerriera. La logica del dono, a dare ascolto agli antropologi, è vicinissima alla logica della vendetta. Sono due territori confinanti, e la frontiera è così labile che per un nonnulla ci si ritrova a passare dall’uno all’altro. In entrambi i casi è all’opera un vincolo di reciprocità: il dono dev’essere contraccambiato, il sangue versato dev’essere ripagato, nella speranza di ripristinare un equilibrio per sua natura molto instabile. “Gli scambi sono guerre pacificamente risolte, le guerre sono il risultato di transazioni sfortunate”, ha scritto Claude Lévi-Strauss, e io dico che ci risparmieremmo molti equivoci se capissimo, una buona volta, che nel mondo dei doni il cavallo di Troia non è un’eccezione, è la regola. Nel più grazioso dei pacchettini si annida sempre, se non un esercito nemico, un elemento ostile. Ma non voglio annoiarti con usanze di tribù remote o nomi di spiriti strani. La nostra guida sarà la serie tv Seinfeld, che sta agli scambi di regali nelle società contemporanee come il Saggio sul dono di Marcel Mauss a quelli dei maori neozelandesi o degli indigeni delle isole Trobriand.

Prima lezione, The deal (stagione due, episodio nove). Jerry ed Elaine un tempo stavano insieme, ora sono amici. Stremati da mesi di astinenza sessuale, una sera decidono di andare a letto. L’idea è quella di farlo di tanto in tanto rimanendo amici; ma la scelta comporta dei rischi, e così architettano un rigoroso sistema di regole per evitare di ritrovarsi in situazioni di spiacevole ambiguità. Il problema è che si avvicina la data del compleanno di Elaine. Cosa regalarle? Jerry ha il terrore, dopo quella notte, di mandarle il messaggio sbagliato: “Sono in una posizione molto delicata. Qualunque cosa le regali, lei convocherà esperte da tutto il paese per interpretarne il significato implicito”. Porta allora il suo migliore amico George – che ha per cognome il tuo nome: Costanza – in un negozio di articoli da regalo e con lui passa in rassegna le opzioni. Un carillon? No, troppo da fidanzati. Un portacandele? Troppo romantico. Lingerie? Troppo erotico. L’attrezzo per fare i waffle? Troppo casalingo. Un busto di Nelson Rockefeller? Troppo governativo (!). Finisce che Jerry regala a Elaine una busta con 182 dollari, così lei può comprarsi ciò che vuole. Ovviamente ne nasce una lite furibonda. Perché non si scappa: un regalo non è solo un oggetto che passa da una mano all’altra; nel ventre del più innocuo cavalluccio di Troia si nasconde, quanto meno, l’immagine che abbiamo dell’altro e del nostro rapporto con lei o con lui. Sperando, col più neutro dei regali, di non far passare nessuna immagine, Jerry ha fatto passare la peggiore di tutte: “Dei soldi? E cosa sei, mio zio?”.

Seconda lezione, The label maker (stagione sei, episodio dodici). È la grande puntata sul dono, e quella che ha reso popolare nel linguaggio quotidiano, in America, la parola regifting, che indica il riciclaggio di un regalo sgradito. Ma si parla anche del degifting, ossia il riprendersi indietro un regalo, in una girandola di giochi di parole e variazioni linguistiche che avrebbero fatto la gioia di Emile Benveniste o dello stesso Marcel Mauss, che dava molto peso alla sovrapposizione semantica, nelle lingue germaniche, tra gift come dono e gift come veleno. Non sto qui a riassumerti la puntata, ma ti invito a fare attenzione al colpo di genio annunciato già dal titolo: il regalo che passa di mano in mano è un label maker, un’etichettatrice (molti da bambini ne avevano una, e si divertivano con zelo notarile a creare etichette a rilievo per i loro giochi, in caso sorgessero, tra fratelli, dubbi sul proprietario). Ecco, prova a vederla in questi termini: scegliendo il libro perfetto per una persona, le stai appiccicando in fronte un’etichetta; e non è un atto romantico, è un atto violento, che può essere vissuto come una dichiarazione di guerra. “Ma come? Mi regali La coscienza di Zeno? Davvero pensi che io sia un inetto?”. “Perché proprio L’avversario di Carrère? Dunque per te sono un impostore?”. “Il male oscuro di Giuseppe Berto? Ma davvero ho l’aria così nevrotica e depressa?”. Eccetera.

Piccolo esercizio: ripercorri il curriculum dei tuoi doni avvelenati pensando che non hai regalato libri ma immagini. Hai cucito addosso al malcapitato o alla malcapitata un vestito che sentivano secondo i casi troppo stretto, troppo largo, della foggia sbagliata, di un colore orribile. Non sei una romantica, sei una guerriera achea – e gli achei, come sai, vanno temuti proprio quando portano doni.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it

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