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Psicoanalisi dello spoiler

Dottore mi perdoni,
quando mi trovo in libreria o in biblioteca e sto per prendere un volume, leggo sempre l’ultima riga; come se mi piacesse cominciare dalla fine, come se volessi essere rassicurata. Però così mi perdo il finale e svelo tutto, ma perché? Perché?
–Miss Spoiler

Cara Miss Spoiler,
settimana di tutto riposo, mi hai tolto il grosso del lavoro. La tua lettera contiene in embrione due risposte, due quadri diagnostici che si lasciano intravedere dietro la formula pudica del “come se”.

Come se mi piacesse cominciare dalla fine.
Prima ipotesi diagnostica: potresti essere contagiata da uno di quei virus narratologici e semiotici, di solito contratti per via accademica, i cui ceppi più pericolosi sono stati identificati dall’Istituto biblioepidemiologico in due contesti precisi: la Francia degli anni sessanta-settanta e i campus americani dei due decenni successivi, affetti dal mal francese e trasformati in focolai di decostruzionismo, post-strutturalismo e altre malattie terribili. Il sintomo più diffuso del contagio si rivela in dichiarazioni come questa: “Ma a me mica interessa la trama, mi interessa il modo in cui è raccontata”. Frase che in sé non ha nulla di patologico, se applicata alla seconda o alla terza lettura di un romanzo. Il problema è che questi virus avvelenano già la prima lettura, ed è raro che il pieno piacere di una storia non sia intaccato dalla conoscenza del finale. Certo, ci sono libri concepiti appositamente per questo tipo di lettori frigidi – i romanzi di Alain Robbe-Grillet o di Michel Butor, per fare un paio di nomi – ma appaiono spesso illeggibili al lettore immune dal virus.

Attenta, sono compagnie pericolose: a colpi di narratologia sono riusciti a rovinare anche i gialli, e in particolare L’assassinio di Roger Ackroyd di Agatha Christie, cavia di mille esperimenti teorici e accademici. Ma perché imporsi questi supplizi, perché infranciosarsi inutilmente, perché indossare queste cinture di castità concettuali e non godersi piuttosto la lettura? Un amico mi raccontò del caso – degno di un untore manzoniano – di una ragazza che prendeva in prestito i gialli in biblioteca e scriveva sul frontespizio il nome dell’assassino, per fare un dispetto al lettore successivo – probabilmente perché lo riteneva un gonzo, un “uomo medio sensuale” ancorato alla banale aspettativa di divertirsi e appassionarsi. Riesci a immaginare crudeltà più raffinata?

Se ti riconosci in questa diagnosi, prendi due piccoli libri del grande Frederick C. Crews, The Pooh perplex e Postmodern Pooh, raccolte di saggi parodistici dove le storie dell’orsacchiotto Winnie the Pooh sono lette alla luce di tutte le mode teoriche del momento. Il primo è del 1964, il secondo del 2001: c’è tutto il necessario per capire da quale variante del virus sei stata infettata.

Come se volessi essere rassicurata.
Seconda ipotesi diagnostica: sei una lettrice ansiosa, e anticipare come andrà a finire una cosa temuta – nella lettura come nella vita – è uno dei modi più comuni per attenuare l’ansia. Ma attenzione, è come gettare il bambino con l’acqua sporca, perché quell’ansia è la lettura. Se uccidi nella culla il senso di incertezza, il timore, l’angoscia, le incognite di un’avventura pericolosa attraverso cui il libro ti vuole guidare, uccidi il libro. E a quel punto non ti resta che leggerlo da anatomopatologa (vedi prima ipotesi diagnostica).

Diventi simile a una cacciatrice che si aggira per boschi narrativi disabitati e silenziosi, tra carcasse di animali morti e mucchi di ossa già spolpate. Ma ancor più esattamente, per restare nel campo delle metafore venatorie, diventi come l’opossum che si finge morto per sfuggire ai predatori, nella fattispecie per aggirare l’incontro fatale con il lupus in fabula. La triste verità è che non c’è modo di sfuggirgli, non c’è tanatosi che possa salvarti. I predatori sono ovunque, nei romanzi e nella vita, ma almeno quelli di carta non possono ucciderti. Offrono però una provvidenziale preparazione, un’iniziazione, un “apparecchio alla morte”, per usare la formula antica di sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Ma lasciamo stare i santi, e diciamo piuttosto che la fine di un libro dà accesso all’esperienza di una petite mort, una piccola morte, come i francesi chiamano l’orgasmo. Ne ha scritto qualcosa Roland Barthes, ma non ti dico dove per evitare di esporti ai virus di cui al punto uno.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it

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