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Quel libro ha un brutto carattere

Cavan Images/Getty Images

Gentile bibliopatologo,
qualche giorno fa ho esitato a comprare un libro perché stampato in un carattere tipografico (Palatino) che detesto: sproporzionato, sciatto nella selezione dei glifi ornamentali, troppo tondo__. Non è solo una questione di gusto personale, credo, piuttosto una deriva di tanta editoria e pubblicistica degli ultimi anni: l’appiattimento (anche dei costi?) su caratteri banali, da dotazione standard di Word (Times New Roman e Book Antiqua su tutti …), con poca cura per il risultato finale in termini di proporzioni e leggibilità. Così adesso sempre più spesso mi capita di giudicare un libro anche da questo e per questo di non comprarlo. Sbaglio? Sono la sola? Le scrivo questa email in Adobe Caslon pro, il font del New Yorker, che in questo periodo riesce a darmi un po’ di pace.
– Serena

Cara Serena,
conoscerai senz’altro la battuta di Dino Risi sull’io un po’ ingombrante di Nanni Moretti – regista, attore e non di rado personaggio dei suoi stessi film: “Scansati e fammi vedere il film”. Al contrario, Risi era così abituato a farsi piccolo e a scomparire dietro la cinepresa che perfino nel libro autobiografico I miei mostri, citando quella battuta su Moretti – così perfetta che chiunque avrebbe sognato di intestarsela – la attribuì, con infinito understatement, a “uno spettatore”. Ebbene, la mia filosofia in materia di caratteri tipografici è semplice: voglio dei font Dino Risi, non dei font Nanni Moretti (che nei Caratteri non tipografici ma umani di Teofrasto corrisponde grosso modo al garrulo, colui che “impedisce, se assiste a uno spettacolo, di vedere”). Scansati e fammi leggere il libro.

In altre parole, per me i caratteri ideali devono essere abbastanza belli perché si possa apprezzare la loro eleganza, ma abbastanza dimessi da non calamitare l’attenzione su di sé stornandola dalla lettura. Devono piacermi subito, e se li trovo respingenti si dà il caso che io non cominci neppure a leggere; ma dopo quel primo colpo d’occhio non devono più dar nell’occhio, e tornerò ad ammirarli solo quando, finito il libro, lo soppeserò tra le mani e lo congederò. Ars est celare artem, l’arte consiste nel nascondere l’arte, prescriveva la retorica antica; ma dall’arte oratoria il principio si estese lungo i secoli all’arte dello stare al mondo (la sprezzatura di Baldassarre Castiglione) e all’arte propriamente detta. I giapponesi hanno una categoria che si avvicina molto alla nostra sprezzatura, ed è l’iki. Il suo teorico più noto, Shūzō Kuki, diceva che “in linea di massima, non sono mai iki i motivi troppo complicati”, e che “quando la decorazione si fa sfarzosa, scompare ogni traccia d’iki”. Su tutte queste cose ti consiglio il bel libro di Paolo D’Angelo.

L’alternativa Risi/Moretti tuttavia non coglie pienamente nel segno, perché esistono grandi registi che celano l’arte (Lubitsch, Ozu, Bresson) e registi altrettanto grandi che ne fanno sfoggio (Welles, Ophüls, Fellini). Lo stesso vale per i romanzi e per i loro autori. Ma in questo ambito la mia predilezione non è solo affare di gusti, e forse l’analogia cinematografica più corretta è quella con le caratteristiche della sala – la comodità della poltrona e la sua posizione, l’isolamento dalle luci e dai rumori, la qualità della proiezione. Un font fastidioso – che sia per eccesso o difetto di bellezza – è come un suono gracchiante che s’insinua in tutta la colonna sonora impedendo di ascoltare i dialoghi, come una poltrona su cui non si trova pace, come un graffio al centro di ogni fotogramma.

Se insisto con questa analogia, è perché il libro e il film sono due apparati illusionistici più simili di quanto possa sembrare, che funzionano solo a condizione che ci dimentichiamo a sufficienza dei loro supporti materiali. Quanto più restiamo inchiodati alla superficie della pagina, disseminata di ostacoli visivi e da caratteri impervi, tanto meno riusciremo a penetrarla per accedere alla terza dimensione.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it.

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