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Una possibilità di pace per l’Etiopia 

Abiy Ahmed arriva in parlamento per il giuramento da primo ministro, Addis Abeba, 2 aprile 2017. (Epa/Ansa)

Al di fuori del partito al governo nessuno sa molto di Abiy Ahmed, a parte quello che recita la biografia ufficiale di partito. Al momento però il nuovo primo ministro dell’Etiopia somiglia molto a un mago. Tre anni di proteste sempre più forti si sono concluse all’improvviso, lo stato di emergenza è stato revocato e con un solo annuncio a effetto ha messo fine a vent’anni di guerra calda e fredda con la vicina Eritrea.

Lo ha fatto il 5 giugno, dichiarando (con il piglio che solo il leader di un regime autoritario potrebbe avere) che l’Etiopia accetta quanto stabilito nel 2002 da una commissione internazionale sui confini e che ritirerà le sue truppe da Badme, la città commerciale al centro della disputa territoriale con l’Eritrea.

Almeno ottantamila tra soldati e civili sono stati uccisi nella guerra con l’Eritrea (1998-2000) e diversi milioni di solati hanno sprecato anni delle loro vite sul confine nella successiva guerra fredda (che si è brevemente surriscaldata di nuovo nel 2016). Abiy Ahmed ha messo fine a tutto ciò con un semplice cenno della mano.

Un fenomeno nuovo
Questa cosa sarebbe dovuta accadere molto tempo fa, ma l’Etiopia aveva difficoltà ad accettare le decisioni della commissione sui confini per due ragioni. In primo luogo, era stata l’Eritrea a cominciare la guerra occupando Badme. È stata una vera e propria stupidaggine, tenuto conto del fatto che l’Etiopia è venti volte più popolosa dell’Eritrea, ma le stupidaggini capitano. Nel 2008 i georgiani avevano ancora meno probabilità di farcela, ma hanno attaccato ugualmente la Russia (sia gli eritrei sia i georgiani hanno perso).

In secondo luogo, la guerra fredda è durata così a lungo perché il territorio nei dintorni di Badme era nello stato etiopico del Tigrè, patria del gruppo etnico di lingua tigrina all’epoca dominante nel Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf), il partito al potere. Costituiscono appena il 5 per cento della popolazione etiopica, ma per sedici anni si sono rifiutati di consegnare Badme.

Ora è chiaro che qualcosa è cambiato in Etiopia, e lo stesso Abiy Ahmed rappresenta un fenomeno nuovo. Appartiene al gruppo etnico oromo, il più numeroso del paese, ed è il primo oromo della storia etiope a guidare il governo.

Le proteste crescenti degli ultimi tre anni sono state più virulente in Oromia, perché lì la gente si sentiva messa ai margini dal punto di vista politico, culturale ed economico. Centinaia di persone sono state uccise nel corso delle manifestazioni e la situazione stava sfuggendo di mano, perciò il partito al potere ha deciso di risolvere la situazione ponendo alla guida del governo un oromo che però aveva trascorso tutta la sua vita da adulto nell’Eprdf.

Stile di governo sovietico
Quell’uomo è Abiy. Entrato nell’esercito subito dopo aver finito la scuola, si è fatto strada fino al grado di colonnello, poi è andato a occupare una posizione di rilievo negli apparati di intelligence e sicurezza di quello che tutto sommato è uno stato di polizia, e alla fine si è spostato nella politica.

Gli è stato conferito il potere di affrontare alcune delle più gravi rivendicazioni della popolazione proprio perché si confida che non lascerà che il potere sfugga di mano all’Eprdf. Forse la sua nomina alla carica di primo ministro contribuirà a tranquillizzare le cose, ma non confondiamola con l’inizio di una “transizione democratica”.

L’Etiopia è l’unico dei tre giganti economici dell’Africa subsahariana a non essere democratico. A differenza del Sudafrica e della Nigeria, ha un unico partito al potere che controlla qualsiasi cosa. L’Eprdf è una coalizione permanente di quattro partiti che, pur rappresentando i quattro principali gruppi etnici del paese (oromo, amhara, tigrino e somalo), compone un insieme fortemente disciplinato il cui stile di governo è quasi sovietico. Non è ostacolato da ossessioni specificamente comuniste o anche socialiste, ma le elezioni non sono più significative di quanto non lo fossero quelle sovietiche di un tempo.

Nell’ultimo decennio questo approccio oltranzista ha generato una crescita economica annua del 10 per cento, molto più che in Sudafrica o in Nigeria. E sebbene le evidenti frizioni tra i vari gruppi etnici etiopi che compongono l’Eprdf siano piuttosto gravi, non sono comunque peggiori delle rivalità etniche che affliggono la vita politica delle altre due grandi democrazie.

Nessun sistema di questo tipo dura per sempre, e quando sparirà potrebbe farlo con uno schianto fortissimo

Non bisogna dunque stupirsi se c’è chi si chiede apertamente se per i paesi africani non sia preferibile il modello etiope. È vero che la gente finisce in carcere o in esilio se si oppone al regime, o magari sparisce nel nulla, ma tutto sommato non così spesso, e comunque il sistema mantiene le sue promesse dal punto di vista economico. Forse varrebbe la pena provarci?

Meglio non contarci troppo. Nel breve periodo la politica autoritaria può portare a risultati migliori rispetto alla democrazia. Gli ordini sono impartiti ed eseguiti e le cose vengono fatte. Nel lungo periodo però cresce l’opposizione e non esiste una valvola di sicurezza democratica che le consenta di sfogarsi. Quando alla fine gli argini si rompono, molto può andare perduto.

Pensiamo al quarto di secolo di crescita che la Russia ha perso dopo il crollo dell’Unione Sovietica. L’Eprdf non durerà per sempre, perché nessun sistema di questo tipo dura per sempre, e quando sparirà potrebbe farlo con uno schianto fortissimo. Questo forse non succederà ancora per molto tempo, ma Abiy Ahmed forse non è un mago.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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