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Banche, credito e colpa

Ho un’età rispettabile, ottimi studi, un discreto curriculum professionale, scrivo da quando ho imparato l’alfabeto e dicono che non sono del tutto stupida. Eppure ogni volta che un impiegato di banca prova a convincermi a investire qualche euro in questo o quel prodotto, azione, obbligazione, bot, cct , fondo, titolo e non so cos’altro, il mio cervello si chiude, le mie competenze linguistiche collassano, il significato delle parole mi abbandona e l’uso della tabellina mi risulta impossibile anche per calcolare un tre per cento: divento un’imbecille, abbozzo un grazie, ci penserò e me ne vado. Funzionava così anche prima che la crisi del 2008 fornisse qualche appiglio razionale a questo comportamento istintivo: semplicemente, non capivo e non mi fidavo. Non capivo, e tuttora capisco a stento malgrado molte buone letture sulla finanziarizzazione del capitale intervenute nel frattempo, la pretesa dei soldi di moltiplicarsi da soli, per partenogenesi. Non mi fidavo, e tuttora non mi fido, di quella lingua astrusa e specialistica, incomprensibile e sadica che riempie pagine e pagine e pagine di contratti bancari scritti in corpo 3 quando ti danno un bancomat, figurarsi dei titoli o delle azioni o delle obbligazioni. Non per questo tuttavia mi sentivo, o mi sento, accorta o furba o preveggente. Al contrario: mi sento una stupida, circondata da amici e conoscenti incompetenti quanto me ma che però investono, comprano, vendono, rispondono al telefono al consulente finanziario che spara consigli ansiogeni su quello che sta andando su e quello che sta scendendo giù. E mi chiedo quando questa specie di mutazione antropologica che ci ha trasformati (quasi) tutti in aspiranti broker sia cominciata.

Non c’è nessuna trasparenza nella lingua della finanza, e di conseguenza nessuna consapevolezza e nessuna libera scelta

In realtà credo di saperlo, quand’è cominciata. È cominciata un martedì mattina che un mio amico mite e stravagante, poeta e sognatore, si è presentato a casa mia con in mano il Sole 24 ore, che in precedenza leggeva solo la domenica per via dell’inserto culturale, mi ha chiesto di fargli un caffè e mi ha spiegato che stava imparando come si gioca in borsa perché era l’unico modo che vedeva per comprarsi una casa. Non ho mai saputo se poi se la sia comprata in questo modo per davvero, ma so che quella mattina davanti ai miei occhi si è aperta una faglia, fra chi ci sapeva fare e chi no. Eravamo a metà degli anni Ottanta e nessuno era in grado di prevedere dove ci avrebbe portato la summenzionata finanziarizzazione del capitale.

Ora invece lo vediamo, dove ci ha portato. Ci ha portati, o deportati, in un pianeta dove l’imperativo è che i soldi devono rendere, e perché rendano non serve investirli in beni o in attività: basta che si muovano, anzi che qualcuno li muova per noi. Basta che si scambino con delle figurine astratte, titoli azioni e obbligazioni, che hanno il potere di moltiplicarli, un potere magico, insondabile e incontrollabile, come quello dei giochi di prestigio. Con la differenza sostanziale che mentre di fronte a un qualsiasi altro gioco di prestigio noi spettatori non siamo responsabili della sua riuscita, di cui risponde solo il mago, in questa magia dei soldi che si moltiplicano a mezzo di soldi siamo tutti supposti esserlo. Il gioco lo fa qualche altro di cui dobbiamo fidarci, ma noi corriamo dei rischi dei quali si presume che siamo informati e consapevoli, e siamo responsabili dei rischi che consapevolmente e liberamente accettiamo di correre: se va bene va bene, se va male è colpa nostra.

Peccato che come tutti i giochi di prestigio anche questo sia truccato: nel presupposto, che sarebbe l’informazione chiara e trasparente di cui saremmo dotati. Non c’è nessuna chiarezza e nessuna trasparenza nella lingua della finanza, e di conseguenza nessuna consapevolezza e nessuna libera scelta. Senza di che, responsabilità è un nome messo al posto di un altro, colpevolizzazione.

Ad Arezzo come a Wall street il capitalismo finanziario funziona come una bolla di ricatti e raggiri

La vicenda di Banca Etruria e delle sue consorelle, che pare abbia fatto cadere di parecchi punti in un mese la fiducia nel governo Renzi, ha svelato questo trucco in modo definitivo. Delle innumerevoli e meritorie cose che si sono potute leggere sui vari aspetti del crac e del salvataggio, dei controlli mancati, dei conflitti d’interesse e degli insider trading presunti, ce n’è una che non riesco a togliermi dalla testa, l’intervista al funzionario della banca che curava i rapporti con Luigino D’Angelo, il pensionato suicida diventato il simbolo tragico di questa epopea. Nera su bianco e non smentita, lì c’è tutta la morale della favola: ebbene sì, ammette il funzionario, i risparmiatori li abbiamo programmaticamente raggirati, perché a nostra volta eravamo ricattati dai vertici della banca; o accettavamo di farlo o rischiavamo il licenziamento, e viceversa, più riuscivamo a raggirarne e più venivamo premiati. C’è bisogno di altre prove per capire com’è andata e come va? C’è bisogno di altre prove per smetterla con la solfa della responsabilità, e della colpa, dei risparmiatori, trasformati da più d’un commentatore in investitori spericolati e ancora ieri l’altro divisi da un esponente del governo in truffati e corrivi?

Altro che informazione trasparente, altro che libera scelta e responsabilità. Ad Arezzo come a Wall street il capitalismo finanziario funziona così, come una bolla di ricatti e raggiri con a monte la promessa che puoi farcela, a valle la colpevolizzazione perché non ce l’hai fatta. È lo stesso dispositivo che all’inizio della crisi ci ha trasformati d’un botto da creditori esigenti in debitori penitenti, da cicale euforiche in formiche depresse. Non finirà finché qualcuno non comincerà a chiamarlo con il suo nome: il meccanismo perverso che ci tiene legati all’etica del capitalismo neoliberale, un’etica in cui rischio e colpevolizzazione si annidano e si annodano sotto quello che chiamiamo credito e fiducia.

I nomi, finora, sono stati diversi. Con la solita scappatoia delle mele marce, si è continuato a dire che a fronte del caso isolato delle quattro banche in questione, il sistema bancario nel suo complesso è solido, laddove nel suo complesso si regge largamente e ovunque sul dispositivo di cui sopra. Oppure sono state messe a fuoco, giustamente, le responsabilità dei dirigenti delle banche fallite, del governo che ha salvato le banche a spese degli azionisti e degli obbligazionisti e a favore della famiglia di un proprio membro, dei controllori che non hanno controllato. Tutte imputazioni sacrosante, sulle quali è giusto che si continui a indagare ma sulle quali non è facile sperare che sia fatta giustizia: i precedenti della crisi americana insegnano quanto poco abbiano pagato lì i responsabili dei crolli bancari, e tutti conosciamo i meandri in cui riesce a impantanarsi l’individuazione delle malefatte dei potenti in Italia.

Il nome proprio dell’affaire, invece, stenta a usarlo perfino quella che si presenta come la nuova sinistra italiana, a vocazione – si presume – anticapitalista. Quel nome è: etica del capitalismo finanziario neoliberale, un’etica che ci abbindola e ci truffa tutti, salvo i maghi che se ne avvantaggiano. Prima ce ne rendiamo conto meglio è. La crisi di fiducia che muove la protesta dei risparmiatori traditi di Banca Etruria potrebbe rivelarsi una crepa nel sistema del credito, finanziario e politico, ben più profonda di quanto non appaia. Sarebbe un ottimo auspicio per l’anno che è appena cominciato.

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