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Il referendum sulle trivelle

Non ha ottenuto il quorum la consultazione popolare del 17 aprile sull’estrazione di gas e petrolio in mare. I promotori chiedevano di votare sì per non rinnovare le concessioni alle piattaforme che si trovano a meno di 12 miglia nautiche dalla costa.

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Voti che contano

Giorgio Benvenuti, Ansa

Ci sono stati referendum per cui non ho votato. Ce n’è stato uno, quello per l’abolizione della quota proporzionale del Mattarellum, per cui ho fatto, nel mio piccolo, una campagna attiva per il non voto, ovvero per il non raggiungimento del quorum (che non fu raggiunto, sul filo): quel referendum si proponeva di completare la torsione maggioritaria del sistema elettorale, e far saltare il quorum significava mettere un alt alla religione del maggioritario che a mio avviso è stata responsabile di quasi tutti i guai della cosiddetta seconda repubblica. Questo tanto per dire che astenersi a un referendum, o a una qualsiasi consultazione elettorale, è ovviamente legittimo, ci mancherebbe, come pure è legittimo fare campagna per l’astensione.

Ma è legittimo farlo per me, che sono una cittadina qualsiasi e di parte, e per tutti i soggetti politici di parte: partiti, sindacati, associazioni. Che sia legittimo per un presidente del consiglio, o per un presidente emerito della repubblica, è invece a dir poco opinabile. Tanto più se il presidente del consiglio in questione è lo stesso che, contemporaneamente, fa un’attiva campagna per trasformare in un plebiscito il referendum confermativo della sua riforma costituzionale. E tanto più se il presidente emerito della repubblica in questione è lo stesso che un giorno sì e l’altro pure, per i nove lunghi anni del suo doppio mandato, ha predicato a proposito e a sproposito contro la disaffezione verso la politica, definendola per giunta, molto approssimativamente, antipolitica. In entrambi questi casi l’appello all’astensione sarà pure non illegittimo, ma è, sia detto a chiare lettere, non solo inopportuno ma anche scandaloso, provenendo da due autorità che in primo luogo non dovrebbero essere di parte, e in secondo luogo dovrebbero militare per l’estensione, non l’estinzione, della partecipazione democratica alla cosa pubblica.

Vero è che come sempre negli scandali c’è un nocciolo di senso. Nella fattispecie, abbiamo a che fare con un presidente del consiglio che non solo si spende per l’astensione in questa circostanza, ma che, salvo la chiamata alle urne per il referendum confermativo della riforma costituzionale, ha fatto dell’astensione la propria rendita di posizione. L’Italicum, ovvero la legge elettorale che dovremmo ingurgitare di qui a poco, è fatto apposta per conquistare una maggioranza abnorme in parlamento con un numero risibile di voti e di votanti. Non solo. Già tutta la narrazione della grande vittoria di Renzi alle ultime elezioni europee, che l’avrebbe secondo lui legittimato a governare senza passare per le elezioni politiche, è abilmente basata sull’occultazione dell’elevato tasso di astensionismo che caratterizzò quella consultazione: il famigerato 40 per cento allora conquistato dal Pd, vale la pena ricordarlo, fu un 40 per cento del 58 per cento dei votanti. Cioè un modesto 23 per cento del corpo elettorale.

Quanto al presidente emerito della repubblica, lui le elezioni e l’esercizio del voto ha già ampiamente dimostrato di non gradirli granché. Nel 2011, dimessosi Berlusconi, riuscì nella mirabile impresa di insediare Monti senza farci passare per il rito elettorale, un rito mai come in quel caso necessario per archiviare il ventennio del Cavaliere. Ma pochi mesi prima c’erano stati il referendum sull’acqua e le amministrative vinte da sinistra, e anche quella era pericolosa antipolitica, non per difetto ma per eccesso di partecipazione democratica: meglio un sano stato d’eccezione. La mirabile impresa si ripeté, sempre il presidente emerito officiante, nel passaggio da Letta a Renzi, ma ormai c’eravamo abituati.

Morale della favola. Votare è un diritto-dovere, ci insegnavano a scuola quando ancora esisteva una scuola pubblica orgogliosa di essere tale. Quel diritto-dovere lo si può e lo si deve esercitare, quando le condizioni della democrazia lo consentono. Si può decidere di non esercitarlo, quando le condizioni della democrazia sono tali da farci decidere che l’esodo è più significativo della partecipazione. Ma quando sono due massime autorità dello stato a dirci che quel diritto-dovere non conta un fico secco, allora è il momento di difenderlo con le unghie e con i denti. Io domenica vado a votare (sì). E pure di buon mattino.

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