×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

I libri che smontano il mito del colonialismo buono degli italiani

Una nave della marina miliare italiana diretta in Nordafrica, nel canale di Suez, 1937 circa. (Archivio Gbb/Contrasto)

La sera del 21 marzo 2017 la sala del cinema Farnese a Roma è piena. I giovani sono molti.

L’occasione d’altronde è di quelle da non perdere: la proiezione del documentario di Raoul Peck I’m not your negro, basato su uno scritto inedito di James Baldwin. Il documentario ripercorre con intelligenza e sentimento la stagione afroamericana dei diritti civili e le vicende di tre personaggi – Malcolm X, Martin Luther King, Medgar Evers – uccisi per il loro impegno contro il razzismo. Peck è un regista che non dà tregua. Ogni fotogramma è un invito a non abbassare la guardia, a non nascondersi dietro il velo del conformismo.

Sa come ferirci con immagini di linciaggi reali o ricostruiti per lo schermo. Sa come scuotere le coscienze assopite o troppo impaurite per agire. E vediamo in ogni inquadratura quel corpo nero, quel popolo nero, maltrattato, umiliato, annientato, polverizzato. Un corpo che a seconda delle esigenze del potere diventa portatore delle ansie e della cattiva coscienza di un’intera nazione.

Mi ha colpito una scena, in particolare, di questo film. A un certo punto, James Baldwin, finito un discorso davanti a degli studenti universitari, perlopiù bianchi (wasp, white anglo-saxon protestant), sembra impaurito dal loro entusiasmo. Lui è l’unico nero e sta al centro della sala. Loro sono in piedi ad applaudire. Per un attimo Baldwin li guarda a uno a uno, scosso. Non è solo l’emozione che può provare uno scrittore quando viene apprezzato, c’è qualcosa di più nei suoi occhi che scrutano gli studenti. C’è una ferita mai sanata della storia, c’è un nero al centro di una folla bianca che sta per essere linciato. Baldwin sa di essere in un’aula universitaria, sa che gli studenti lo adorano. Ma per un attimo i suoi occhi pieni e rotondi vedono un’altra scena, e come in un cortocircuito della memoria lo attraversa la paura di non essere più protetto, di perdere il corpo.

La voce di una storia nascosta
Nel documentario dell’Italia si parla una sola volta. Il nome del paese è per Baldwin legato all’aggressione fascista contro l’Etiopia degli anni trenta e in generale il riferimento è al feroce colonialismo in Africa orientale a cui gli afroamericani hanno risposto con manifestazioni antifasciste in favore del popolo etiope aggredito. Quell’Italy pronunciato da James Baldwin, e nel film filtrato dalla voce bassa e profonda di Samuel L. Jackson, mi fa tremare il cuore.

In quel momento si crea una connessione tra l’America (del nord e del sud) e l’Europa. Due continenti che hanno una storia di violenza alle spalle, mai del tutto pacificata. Una storia nascosta o mistificata in vari modi. E che solo ora, e pure faticosamente, trova voce.

Chissà quanti in sala conoscono la storia del colonialismo italiano, dei suoi crimini e dei suoi paradossi. Ancora troppo pochi, mi dico.

In un attimo, dal comizio di James Baldwin mi trovo catapultata davanti a un palcoscenico romano.

Ci sono un uomo e una donna. Lui indossa una giacca stropicciata, lei ha una gonna colorata e molto sportiva. Sono Daniele Timpano ed Elvira Frosini, autori-attori dello spettacolo Acqua di colonia, che già dal titolo suggerisce il tema del colonialismo italiano. Al centro, accanto a loro (ignorata da loro) una donna nera seduta su una sedia scomoda, di quelle che si usano all’asilo.

Ed ecco uno scambio di battute tra Timpano e Frosini:

Timpano: “Queste cose in Italia non le sa nessuno. Nemmeno noi”.

Frosini (indicando il pubblico): “Nemmeno loro”.

Timpano: “Ecco. Una cosa è certa. Non sappiamo nulla. Tu per esempio che sai?”.

Frosini: “Boh, Faccetta Nera? Viale Libia… via dell’Amba Aradam a Roma, dove c’è l’ufficio dell’Inps… poi?”.

Una piccola parola, “poi”, e mi rendo conto di essere racchiusa lì dentro, in quell’interrogativo che Elvira Frosini lascia in sospeso. In quella parola ci sono io, afroitaliana, ma c’è anche la ragazza afrodiscendente seduta sulla sedia scomoda dell’asilo.

Il colonizzato è diventato solo il suo corpo. Un corpo bello da possedere o un corpo brutto da annientare

Il sistema Italia ha cercato di costringere al silenzio quella memoria che ci riguarda ed Elvira Frosini e Daniele Timpano mettono in scena, con un gioco teatrale, questa violenza che ci è stata fatta. Per molto tempo i nostri antenati non hanno avuto il diritto di parola, di pensiero, di vita, chiusi nel freddo stereotipo di un fraintendimento. Il colonizzato è diventato solo il suo corpo. Un corpo bello da possedere o un corpo brutto da annientare. Siamo le nostre labbra, i nostri seni, le nostre vagine, i nostri testicoli. Quei testicoli che durante il linciaggio negli Stati Uniti o in Africa orientale venivano soppesati dal branco e poi tagliati con un’accetta. Evirazioni, stupri, omicidi hanno caratterizzato le politiche segregazioniste. Corpi neri, capri espiatori di una società in continua mutazione, negli Stati Uniti come in Italia.

Truppe etiopi marciano verso il nord del paese durante l’occupazione italiana, 1935 circa.

Per fortuna non siamo stati muti. Gli afroamericani hanno manifestato, resistito, scritto. E del colonialismo italiano si è molto dibattuto anche nella narrativa. Opere come Regina di fiori e di perle di Gabriella Ghermandi, L’abbandono di Erminia Dell’Oro, o Timira, il romanzo meticcio scritto dall’italiano Wu Ming 2 e dall’afroitaliano Antar Marincola (figlio di Isabella Marincola, protagonista della storia) hanno fatto scuola. Io stessa, con i miei Adua e Roma negata (quest’ultimo in collaborazione con il fotografo Rino Bianchi) ho contribuito al dibattito.

Ma l’essere di quell’Africa orientale (o esservi legati per altre vie come in Timira) ci ha portato ad affrontare direttamente questa storia, perché ne eravamo segnati nel profondo. Quel colonialismo aveva a che fare con la nostra nascita, con la nostra lingua, con i nostri gesti, con i nostri genitori, con le nostre paure e soprattutto con la nostra rabbia, un autentico furore per i crimini commessi in Africa e mai pagati.

Furore per una storia avvenuta e mai ricordata. Per questo nei libri elenchiamo i numeri dei morti uccisi dai gas asfissianti lanciati dall’esercito di Benito Mussolini o le stragi compiute dal generale Rodolfo Graziani dopo l’attentato del 1937. Senza dimenticare “la bomba dell’ignoranza” come la chiama Ribkha Sibhatu (autrice di Aulò, Sinnos, e mediatrice e attivista eritrea), quell’accesso all’istruzione negato ai popoli di Somalia, Eritrea, Libia, Etiopia. Questi numeri, questi fatti, per noi originari di quell’Africa orientale sono diventati tracce (quasi un promemoria) di qualcosa che dobbiamo ricordare per non subirlo di nuovo.

I conti con il passato
Chi ha le sue origini in quella storia (penso al bellissimo documentario Asmarina sugli eritrei a Milano di Medhin Paolos e Alan Maglio) è portato naturalmente a fare i conti con le ferite di quel passato. Si può dire la stessa cosa – mi domando – per gli artisti italiani (o meglio italiani di nuova generazione) di oggi?

La risposta è sì. Anzi, oggi più che mai.

All’inizio, c’era solo Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, primo premio Strega e unico romanzo dell’autore. Basato anche (ma non solo) su echi biografici, Tempo di uccidere è un romanzo complesso. Un uomo vaga per l’Africa orientale, ha un mal di denti furioso e poca voglia all’inizio di mettersi in gioco. L’Africa di Flaiano non è esotica, ma quasi malvagia. In questa Africa fatta dei suoi incubi, lui si muove senza uno scopo. Incontra una donna del posto, la costringe a un rapporto sessuale, si fa coccolare da lei e poi la uccide (dice per sbaglio) come una bestia.

In Tempo di uccidere il protagonista entra in questa Africa, definita “sgabuzzino delle porcherie”, non in punta di piedi, ma con i suoi primitivi scarponi da militare. Le immagini che ci mostra Flaiano sono ancora quelle di un continente ingenuo, nel più perfetto cliché colonialista. Ma lui per primo sembra chiedersi che ci facesse lì. E anche il suo rapporto con l’indigeno Joannes, un ex ascaro, non è quello con un deferente servitore, ma con un pari che scruta, osserva e duella a distanza con il protagonista.

Un’esercitazione amatoriale di civili con maschere antigas a Baggio, vicino a Milano, 1935.

Mette molta carne al fuoco Ennio Flaiano, ma il suo romanzo per molto tempo, decenni interi, è rimasto un unicum nel panorama letterario della penisola. Dopo di lui c’è stato solo un lungo, colpevole silenzio.

Per fortuna il tempo passa e allo scoccare del ventunesimo secolo tocca a Carlo Lucarelli riprendere in mano l’incandescente materia coloniale con il suo L’ottava vibrazione, un libro che di fatto è uno spartiacque. Lucarelli ripercorre le vicende che portano alla battaglia di Adua, una delle pagine di storia – l’esercito italiano sconfitto da quello etiope – che l’Italia ha cercato a ogni costo prima di vendicare (con il fascismo che cantava Adua è liberata, è ritornata a noi) e poi dimenticare.

I personaggi di L’ottava vibrazione si muovono in una tela in perenne movimento. Una tela dove oppressori e oppressi si contendono una scena fatta di omicidi, possessi coatti e strane convergenze. Lucarelli non vuole dare un giudizio, vuole solo osservare quello che per decenni nessuno ha più osservato: i soldati italiani parlano tutti in dialetto, non si capiscono tra di loro, provano a “fare gli italiani” attraverso una guerra, ma perdono sia la sfida identitaria sia la battaglia. In scena Lucarelli mette uno stato, ancora risorgimentale, che baratta i suoi ideali per entrare nel giro dei grandi dell’Europa.

La ragazza giovanissima, 12 anni, era di fatto un bottino coloniale e Indro Montanelli per giustificarsi diceva ‘a dodici anni quelle lì sono già donne’

In un attimo l’Africa orientale diventa un far west dove c’è chi si crede John Wayne e considera le donne del luogo cagne da monta. Lucarelli osserva, appunta e ci trasferisce tutte queste microstorie usando una lingua onesta, a tratti poeticamente antropologica. Così il romanzo apre la strada di una visione tutta italiana su quel passato coloniale poco raccontato.

Anche perché quel passato è la storia d’Italia. Di tanti che lì sono andati a combattere per l’Italia liberale e poi ci hanno mandato, anni dopo, i nipoti a conquistare un impero per Benito Mussolini. È la storia di donne africane prese con la forza o con l’inganno per avere una sposa di compagnia, come Indro Montanelli e la sua sposa bambina (che lui chiamava il mio animalino) acquistata per 500 lire insieme a un cavallo e un fucile. La ragazza giovanissima, 12 anni, era di fatto un bottino coloniale e Montanelli per giustificarsi diceva “a dodici anni quelle lì sono già donne” e poi “Scusate, ma in Africa è un’altra cosa”. Però il continente oltre a essere teatro di crimini di guerra è anche stato, per molti italiani, vita quotidiana di chi aveva un emporio o un negozio di barbiere, di chi costruiva o faceva il cappuccino, chi si inventava monumenti e chi invece li distruggeva. Un coacervo di storia patria e storia intima insomma. Storia soprattutto al maschile, ma non del tutto svuotata di presenze femminili.

Inciampare nel colonialismo
Per questo Daniele Timpano si chiede in Acqua di Colonia: “Ma che siamo come la Francia con l’Algeria? Come l’Inghilterra con l’India? Come i cattivi di Sandokan? Ma che siamo colonialisti noi?”.

Su questa domanda una generazione, anzi due, di trentenni e quarantenni (con qualche punta verso i cinquanta) si è caricata un peso necessario da sostenere soprattutto oggi in questa Europa che riprende quello stesso razzismo coloniale e lo veste con nuove parole come sovranismo o con giustifiacazioni come “non siamo razzisti, ma… prima gli italiani/gli europei”.

D’altronde molti tra gli autori nel colonialismo ci sono inciampati, per un viaggio, per una militanza politica o perché più semplicemente era una storia di famiglia, di un nonno, di un padre, di uno zio.

È lì tutta l’ambiguità della storia coloniale, nel sorriso di un carnefice efficiente di 28 anni

Durante il fascismo si era di fatto colonizzati dalla propaganda coloniale (come ci ricorda il duo Timpano-Frosini) e questo ha lasciato tracce negli album di fotografie tenuti sopra il camino o nelle vecchie cantine umide piene cimeli di quell’Africa solo apparentemente lontana. Recentemente è anche stata scoperta la foto di un massacro, quella dei diaconi di Debre Libanos (a cui di recente è stato dedicato il docufilm Debre Libanos di Antonello Carvigiani con la regia e fotografia di Andrea Tramontano, a cura di Dolores Gangi). A Debre Libanos furono uccisi (come vendetta dopo l’attentato a Graziani) più di duemila diaconi e pellegrini indifesi. La foto li mostra seduti in circolo prima dell’esecuzione. Il fotografo, Virgilio Cozzani, tenente di un battaglione coloniale, ebbe il compito di eseguire le fucilazioni a Shunkurtì. Il tenente, nelle note di suo pugno (che sono state mostrate in anteprima mondiale su Tv2000) mostra una personalità che da una parte è quella di un carnefice, ma dall’altra quella di un ragazzo mandato lì a eseguire gli ordini e che quando non massacra, sorride.

Soldati italiani in partenza per l’Etiopia, 1935.

Ed è lì tutta l’ambiguità della storia coloniale, nel sorriso di un carnefice efficiente di 28 anni.

Molti scrittori e scrittrici di oggi hanno fatto tesoro dell’opera degli storici, primo fra tutti Angelo del Boca, ma ricordiamo anche Nicola Labanca, Alessandro Triulzi e il grande Gian Paolo Calchi Novati recentemente scomparso. Dai loro lavori fondamentali autori e autrici sono partiti per togliere la polvere accumulata sulla memoria del colonialismo italiano.

Stereotipi duri a morire
Adesso i risultati si vedono in libreria. Non a caso un mio amico qualche settimana fa mi ha chiesto se il colonialismo stia diventando un settore editoriale.

In effetti basta farsi un giro in libreria per leggere i tanti titoli che sono usciti ultimamente su questo argomento, da La malinconia dei Crusich di Gianfranco Calligarich a La grande A di Giulia Caminito passando per I fantasmi dell’impero di Marco Cosentino, Domenico Dodaro e Luigi Panella, senza contare poi i diari di ex soldati (recentemente è uscito Ti saluto, vado in Abissinia di Stefano Prosperi, per Marlin) pubblicati da piccole case editrici, o i tanti approfondimenti saggistici.

Tuttavia non sta nel mercato la spinta alla proliferazione di titoli a cui stiamo assistendo, ma nella voglia di colmare un vuoto in una storiografia nazionale che sta ancora combattendo con gli stereotipi creati allora.

E dalla lista mancano le nuove uscite: Sangue giusto di Francesca Melandri, che unisce la storia del colonialismo al presente dei flussi migratori e l’attesissimo romanzo della scrittrice etiope-americana Maaza Mengiste.

Lo spazio coloniale diventa così da una parte spazio per il noir come in I fantasmi dell’impero – una discesa conradiana negli inferi dei crimini di guerra – e dall’altra dolce ricordo di infanzia, come nel sorprendente La grande A di Giulia Caminito, dove il colonialismo scolora nel dopoguerra e dove il romanzo si fa anche storia di emigrazione.

Sono tanti i giovani ricercatori (come Valeria Delpiano, Giulietta Stefani, Gabriele Proglio tra i tanti) che si stanno occupando di questo periodo storico, anche con approcci nuovi per l’Italia che vanno dagli studi postcoloniali a quelli sul genere.

C’è fermento in libreria insomma e, finalmente, presa di coscienza. Ancora forse è assente il grande romanzo sui rapporti tra la Libia e l’Italia (anche se non mancano studi storiografici come Non desiderare la terra d’altri. La colonizzazione italiana in Libia di Federico Cresti), ma di fatto nella letteratura italiana c’è stata una rivoluzione silenziosa che ha messo insieme scrittori e scrittrici italiani (di origine migrante, proprio di quelle ex colonie, e italiani da una o più generazioni) che stanno lavorando contro un oblio durato troppo a lungo. Forse, anche grazie a questi libri, diversi tra loro per densità, obiettivi, tessitura, si potrà superare il mito autoassolutorio degli italiani brava gente e finalmente insegnare a scuola quello che per troppo tempo è stato taciuto.

pubblicità