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A Hong Kong il virus non ferma la repressione

Un manifestante viene arrestato dalla polizia a Hong Kong, 10 maggio 2020. (Isaac Lawrence, Afp)

Hong Kong sta convivendo con due traumi: dopo nove mesi di violenze tra polizia e manifestanti, scatenate da una legge sull’estradizione verso la Cina poi ritirata, l’ex colonia britannica è stata colpita dalla pandemia di covid-19. Il territorio finora si è difeso bene (mentre scrivo i casi confermati sono 1.041 e i morti quattro), in buona parte grazie all’esperienza della Sars nel 2003. Appena si sono diffuse le notizie di un nuovo ceppo di coronavirus nella Cina continentale, la maggior parte delle persone ha deciso di non aspettare le indicazioni ufficiali e ha cominciato a indossare le mascherine, a ridurre le interazioni sociali e a lavare mani e abitazioni con più frequenza. Il tergiversare del governo, d’altro canto, aveva poco a che vedere con la salute pubblica.

Nell’ottobre del 2019, ricorrendo a leggi sullo stato d’emergenza che risalivano all’epoca coloniale, le autorità hanno vietato d’indossare maschere in pubblico, per evitare che i manifestanti nascondessero la loro identità mentre partecipavano a cortei non autorizzati (o a quelli autorizzati che venivano vietati mentre erano in corso). E poi non hanno voluto cedere di un centimetro. Sono servite varie conferenze stampa prima che la governatrice Carrie Lam si decidesse a consentire l’uso di maschere chirurgiche per evitare la diffusione del covid-19, pur confermando che sarebbero rimaste vietate durante le manifestazioni.

Per il governo di Hong Kong la pandemia avrebbe potuto essere l’occasione di un nuovo inizio, in cui concentrarsi sulla difesa della salute pubblica e fare un passo in avanti verso la riconciliazione. Le cose sono andate diversamente. Anche quando Hong Kong ha registrato un aumento delle infezioni, la polizia ha continuato a fare arresti e i tribunali hanno continuato a processare gli oppositori. Ad aprile quindici famosi attivisti sono stati arrestati per assembramento illegale in una manifestazione avvenuta ad agosto, quando era sceso in piazza più di un milione di persone.

Nelle stesse ore il Liaison office, la principale rappresentanza del governo cinese a Hong Kong, ha deciso di assumere ancora più chiaramente la posizione di supervisore dell’amministrazione locale, dichiarando di non essere vincolato all’articolo 22 della Basic law, la costituzione di Hong Kong. Questo articolo prevede che nessun dipartimento del governo cinese possa interferire negli affari interni del territorio. L’annuncio minava alcuni princìpi fondamentali su cui si regge l’esistenza di Hong Kong, come quello di “un paese, due sistemi”, ma non ha provocato proteste di piazza: la paura del virus e l’impossibilità di organizzare manifestazioni hanno trasferito il malcontento sui social network.

La richiesta di una democrazia degna di questo nome è trattata come se fosse un altro virus da espellere con la forza

Dalla fine di marzo è entrato in vigore il distanziamento sociale, con una disposizione che vieta le riunioni di più di quattro persone, rendendo le manifestazioni impossibili. E, quando la repressione va avanti, gli emoji arrabbiati possono fare poco. La condanna di Law Man- Ching, un manifestante antigovernativo, è passata da duecento ore di servizi sociali a venti giorni di detenzione, dopo che il governo ha fatto appello contro la prima sentenza, ritenendola “troppo leggera”. Il suo crimine? Aver gettato nella spazzatura una bandiera cinese.

Questa nuova ondata repressiva si colloca tra due appuntamenti elettorali importanti. A novembre del 2019 sia le autorità locali sia quelle centrali erano state colte di sorpresa quando alle elezioni distrettuali, considerate di solito un evento politico minore, il fronte democratico aveva conquistato 17 distretti su 18. Ma questo risultato storico, evidentemente, non ha determinato un atteggiamento più aperto verso le richieste dell’opposizione: le autorità vogliono evitare un risultato simile alle elezioni dei consigli legislativi previste per settembre. Secondo alcune voci, escluderanno alcuni candidati dalle liste elettorali (è già successo in passato). Un funzionario cinese ha cercato di rassicurare la popolazione dicendo che la cosa non succederà se tutti i candidati “sosterranno il governo di Hong Kong”.

Nei giorni scorsi sono ricominciate le proteste. Si sono svolte soprattutto nei centri commerciali, dove le persone possono riunirsi dando meno nell’occhio e poi cominciare a urlare degli slogan rispettando le regole sul distanziamento sociale. Il 1 maggio, dopo che la polizia si è rifiutata di autorizzare il tradizionale corteo dei lavoratori, una contestazione all’interno di un centro commerciale si è conclusa con la polizia che usava lo spray al peperoncino e arrestava i manifestanti.

Il governo non è interessato alla riconciliazione e, perfino durante una pandemia, continua a definire i manifestanti “rivoltosi”. La richiesta di una democrazia degna di questo nome è trattata come se fosse un altro virus da espellere con la forza.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul numero 1357 di Internazionale. È stato pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian. Compra questo numero|Abbonati

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