30 aprile 2020 14:20

Per il secondo anno consecutivo aprile è davvero il “mese più crudele” per i veterani del movimento per la democrazia di Hong Kong.

Nell’aprile 2019, infatti, sono stati arrestati alcuni principali leader emersi dal movimento di protesta del 2014 noto come “movimento degli ombrelli” e non legati al movimento degli studenti. Benny Tai e Chan Kin-man, entrambi sulla cinquantina, sostengono da tempo la disobbedienza civile non violenta. Il 24 aprile 2020 la polizia ha arrestato altri quindici veterani della difficile battaglia per la libertà di Hong Kong, che la rendono così speciale. Tra i detenuti ci sono anche l’avvocato Martin Lee e l’avvocata Margaret Ng, rispettivamente di 81 e 72 anni, e il battagliero editore Jimmy Lai, di 71 anni. Il messaggio lanciato in questi ultimi arresti è inquietante, ed è stato preceduto da una dichiarazione altrettanto inquietante del governo di Hong Kong che di fatto accetta il controllo di alcuni rappresentanti di Pechino sulla politica cittadina.

Nel 1997 il Regno Unito aveva ceduto la sovranità su Hong Kong alla Cina nell’ambito di un accordo noto con l’espressione “un paese, due sistemi”, che avrebbe dovuto garantire a Hong Kong di continuare a godere di un “forte grado di autonomia” per i successivi 50 anni. Quell’accordo adesso vacilla.

Una questione globale
Il fatto che questi sviluppi siano rilevanti per chi vive a Hong Kong è più che ovvio. Prima dell’attuale pandemia centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro provvedimenti che avrebbero reso la città più simile a una metropoli della Cina continentale. Quelle stesse persone potrebbero di nuovo scendere in piazza quando sarà passata la paura del covid-19. A questi cittadini interessano anche altre questioni: per esempio il fatto che secondo l’indice sulla libertà di stampa, tra il 2003 e il 2020 è scivolata all’ottantesimo posto dalle prime venti posizioni nella classifica dei paesi dove per i giornalisti è facile lavorare.

Per ragioni meno evidenti però ciò che accade a Hong Kong non dovrebbe avere soltanto un peso locale, ma riguardare tutto il mondo. Basta guardare a quanto è accaduto con il nuovo coronavirus per capire perché. Nel 2002, quando una patologia nota con l’acronimo di Sars (Severe acute respiratory syndrome, sindrome respiratoria acuta grave) emerse nella provincia del Guangdong, nella Cina continentale, i mezzi d’informazione di Hong Kong svolsero un ruolo fondamentale nell’impedirne la diffusione. I giornalisti della città, vicini al Guangdong ma non sottoposti allo stesso livello di controllo rispetto ai colleghi nella terraferma, poterono parlare della crisi molto più liberamente.

Il pugno duro usato dalla polizia ha dato l’impressione che avesse poco senso impegnarsi solo in azioni autorizzate

Purtroppo l’attuale pandemia ha distratto gli osservatori internazionali dalla lotta di Hong Kong e ha scatenato tra tanti abitanti il terrore delle folle. Le autorità cinesi lo sanno. I leader del partito comunista cinese e le autorità locali che prendono ordini da Pechino hanno fatto la loro mossa contro Lee e gli altri sapendo di correre molti meno rischi di ritorsioni internazionali o di vaste azioni di massa rispetto a quanto sarebbe accaduto pochi mesi fa.

Questi arresti sfortunatamente hanno dei precedenti. Nel 2014 ci furono manifestazioni di piazza per chiedere vere elezioni con cui scegliere il governatore (avevano diritto di voto meno di duemila persone in una città di sette milioni di abitanti). Da quelle proteste era emerso il movimento degli ombrelli. I leader più conosciuti del movimento erano giovani. Tuttavia, soprattutto nelle prime fasi della protesta, Tai e Chan erano stati importantissimi organizzatori e portavoce.

Avevano sottolineato la necessità di astenersi da azioni militari preferendo invece la disobbedienza civile, che le autorità locali di Hong Kong, refrattari alle proteste, avrebbero potuto considerare accettabile. Quattro anni dopo, nell’aprile 2019, lo stato ha punito i due leader con l’arresto. Tai e Chan sono campioni della non violenza che si ispirano a Martin Luther King jr e al mahatma Gandhi. Con la loro detenzione sono stati messi fuori gioco due sostenitori delle tattiche moderate poco prima che cominciasse l’ultima ondata di proteste, nel giugno 2019. La loro condanna e il pugno duro usato dalla polizia anche in raduni approvati dalle autorità alla fine del 2019 hanno dato a molti attivisti l’impressione che non avesse alcun senso impegnarsi solo in azioni autorizzate. Dopo tutto la governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, ha rifiutato di criticare o limitare una forza di polizia che sembrava pronta a punire allo stesso modo chi seguiva le regole e chi le infrangeva.

I sostenitori internazionali del movimento sono distratti dalla crisi sanitaria ed economica globale

Gli ultimi arresti mandano lo stesso messaggio ai manifestanti e rafforzano ancora una volta la logica secondo cui non c’è niente da guadagnare evitando tattiche militari. Stavolta però l’azione del governo è stata ancora più pesante. Non solo il numero di leader arrestati è più elevato – quindici anziché nove – ma il loro arresto è avvenuto a pochi mesi di distanza dalle proteste invece che dopo diversi anni. Lee e Ng sono più anziani e ancora più rispettati di Tai e Chan, il che è tutto dire. Lee in particolare ha una levatura speciale, è tra i redattori della Basic law (legge fondamentale), spesso definita a tutti gli effetti la costituzione di Hong Kong, che definisce il quadro di riferimento noto come “un paese, due sistemi”.

Questo mese di aprile è ancora più crudele a causa della pandemia. I sostenitori internazionali del movimento sono distratti dalla crisi sanitaria ed economica globale. I giornali di tutto il mondo hanno parlato degli arresti ma mai in prima pagina, forse in parte perché negli ultimi anni da Hong Kong sono giunte tante storie simili. Nella città, a causa delle preoccupazioni sanitarie, le persone non possono scendere con facilità in piazza per esprimere il loro sdegno, perfino se tra gli arrestati c’è il “nonno della democrazia” di Hong Kong, come a volte viene chiamato con affetto Lee.

Onorare gli impegni
Questo mese ricorre un altro anniversario: sono passati trent’anni dalla ratifica della Basic law di Hong Kong. I negoziati tra Londra e Pechino avevano gettato le basi per questa legge secondo cui fino al 2047 Hong Kong avrebbe funzionato in modo molto diverso rispetto a qualsiasi altra città della Cina continentale. Il Partito comunista cinese, soprattutto con la leadership del presidente Xi Jinping, ha fatto ben poco per rispettare gli accordi presi nel 1990.

Nel giugno di quell’anno, solo tre mesi dopo la stesura finale della legge fondamentale e un anno dopo il massacro degli studenti e di altri abitanti di Pechino che protestavano nei pressi di piazza Tiananmen, la prima ministra britannica Margaret Thatcher intervenne in una trasmissione radiofonica della Bbc, esprimendo preoccupazione sul ritorno di Hong Kong sotto la sovranità cinese nel 1997. In ultima analisi però, aveva proseguito, “la Cina manterrà fede agli impegni presi con noi sul futuro di Hong Kong, perché penso che voglia far vedere alla comunità internazionale che li sta rispettando”.

Trent’anni dopo – durante i quali Hong Kong avrebbe dovuto godere di un “forte livello di autonomia” – alla Cina non sembra importare molto che gli altri paesi la vedano “onorare” le sue promesse, sicuramente molto meno di quanto immaginato da Thatcher. Né la “comunità internazionale” appare preoccuparsi di Hong Kong quanto quest’ultima aveva previsto o forse sperato.

Poco dopo il trasferimento del 1997 il principe Carlo scriveva nel suo diario: “Abbiamo abbandonato Hong Kong al suo destino sperando che Martin Lee, il leader dei democratici, non sia arrestato”. All’epoca aveva previsto con facilità un momento in cui Lee sarebbe stato catturato dalle autorità. Una cosa però lo avrebbe sorpreso moltissimo, e cioè che all’arrivo della polizia l’arresto di Lee non sarebbe finito in prima pagina su tutti i giornali.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul bimestrale statunitense Foreign Affairs.

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