19 novembre 2019 11:30

In Cina ci sono cose che non cambiano mai. Il 26 aprile 1989 un editoriale pubblicato in prima pagina sul Quotidiano del popolo di Pechino, organo centrale del Partito comunista, indicava chiaramente che il governo aveva scelto la linea dura nei confronti del movimento studentesco pro-democrazia di piazza Tiananmen. Cinque settimane più tardi, il 4 giugno, l’esercito avrebbe stroncato nel sangue la primavera di Pechino.

Il 18 novembre 2019 il Quotidiano del Popolo ha pubblicato un altro editoriale dal tono molto simile, dove si legge che “nessuna esitazione è possibile” con i giovani in rivolta di Hong Kong. Dal Brasile, dove si trovava in visita, il 14 novembre il presidente cinese Xi Jinping ha dichiarato che “il ripristino dell’ordine a Hong Kong è l’obiettivo più urgente”.

Il metodo sarà sicuramente diverso rispetto al 1989, ma il messaggio è lo stesso: non sarà tollerata alcuna sfida nei confronti del Partito comunista cinese e dunque della patria. Anche se a pagarne il prezzo, ancora una vola, sarà un’intera generazione.

Rullo compressore totalitario
La battaglia dell’università politecnica di Hong Kong, in corso ormai da tre giorni, costituisce il parossismo della violenza dopo sei mesi di proteste nell’ex colonia britannica.

Il migliaio di studenti asserragliati ha trasformato il campus in una “Stalingrado”, con archi, frecce, catapulte per lanciare Molotov e altre armi improvvisate. Gli studenti si sentono investiti da una missione storica e pensano che, se dovessero cedere, il rullo compressore totalitario travolgerebbe Hong Kong e quello che resta della loro libertà, garantita dall’autonomia del territorio.

Le scene di guerriglia sono il risultato di sei mesi segnati dall’impossibilità di avviare un dialogo

Le forze dell’ordine agiscono a ruota libera e con forza sproporzionata per catturare i “ribelli”, anche quando sono disposti a lasciare il campus. Un deputato democratico che ha tentato una mediazione racconta di essere stato coperto di insulti da alcuni agenti sovreccitati.

Le scene di guerriglia urbana a cui assistiamo sono il risultato di sei mesi caratterizzati dall’impossibilità di avviare un dialogo, dall’inerzia della guida dell’esecutivo Carrie Lam e dalla radicalizzazione di un movimento che inizialmente non era affatto violento.

Un sondaggio condotto nel fine settimana indica che la maggioranza della popolazione continua a sostenere il movimento malgrado le violenze e gli eccessi.

La solidarietà della piazza nei confronti dei giovani ribelli dimostra che buona parte degli abitanti di Hong Kong attribuisce la colpa delle violenze alla polizia e al governo locale, anche se i giovani hanno scelto di rispondere alla violenza con altra violenza.

Il 24 novembre a Hong Kong sono previste elezioni locali. Se si svolgeranno, daranno un’idea più precisa dell’orientamento della popolazione. Ma non è detto che la votazione si farà, perché le autorità hanno insinuato la possibilità di annullare le elezioni a causa del clima attuale. Sarebbe un errore, perché in questo modo sarebbe rafforzata l’immagine autoritaria del potere in un momento in cui il dialogo sarebbe indispensabile. Ma la parola d’ordine che arriva da Pechino è diversa: nessun compromesso.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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