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Perché i paesi africani tornano sempre a indebitarsi

Lavoratori del mercato Rood Woko di Ouagadougou, in Burkina Faso, in fila per farsi misurare la temperatura, 20 aprile 2020. (Olympia de Maismont, Afp)

Le cifre sono da capogiro: l’Unione africana e i ministri delle finanze del continente chiedono un alleggerimento immediato del debito per un ammontare di 44 miliardi di dollari e la costituzione di un fondo supplementare da 50 miliardi di dollari per far fronte al rinvio del pagamento degli interessi sulla parte non cancellata del debito africano.

Dopo il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale, anche il G20 e il presidente francese Emmanuel Macron hanno annunciato un cospicuo alleggerimento del debito africano. Perfino papa Francesco ha chiesto a gran voce nella benedizione pasquale urbi et orbi l’annullamento del debito africano. Da dove nasce questo bel consenso? Perché i debiti africani tornano di continuo nel dibattito internazionale come esempio della compassione del resto del mondo verso l’Africa?

Il mondo uscito dalla seconda guerra mondiale si è basato sull’idea che i paesi ricchi dovessero aiutare quelli poveri a imprimere un’accelerazione al loro processo di sviluppo, colmando lo scarto tra le loro necessità di investire e la loro scarsa disponibilità di capitali. Lo schema applicato è stato quello del piano Marshall che ha permesso all’Europa di finanziare la sua ricostruzione e di dare il via a quei “trent’anni gloriosi” di boom, terminati con la prima crisi petrolifera nel 1973.

L’implacabile realtà
Questa visione degli aiuti ha avuto molto successo anche per la disarmante semplicità: il sostegno finanziario esentava dallo sforzo di comprendere la complessità delle specificità istituzionali e sembrava ubbidire a una logica di guadagno reciproco, nel momento in cui i paesi beneficiari degli aiuti raggiungevano la prosperità economica diventando di fatto ottimi partner commerciali: “Dopo gli aiuti, le merci”.

L’Africa non è sfuggita a questa dottrina promossa dall’Fmi e dalla Banca mondiale che si è concretizzata in una serie di piani per l’alleggerimento del debito: il piano Brady, il piano Baker, il piano Kissinger, e così via, a seconda del nome del segretario di stato americano di quel momento, fino ad arrivare all’Azione internazionale a favore dei paesi poveri indebitati che ha reso possibile, all’inizio degli anni duemila, una cospicua cancellazione del debito africano.

Sono relativamente in pochi a chiedersi perché i debiti africani continuino a riproporsi

La logica dietro l’alleggerimento del debito è implacabile: affinché l’Africa possa essere un vero partner commerciale, cioè affinché possa acquistare beni e servizi provenienti dal resto del mondo, è necessario che disponga di margini di manovra di bilancio e di sufficienti risorse private, ovvero la famosa capacità di assorbimento. Tuttavia, per preservare questa capacità di assorbimento, era necessario cancellare regolarmente il debito che pesa sulla capacità di inserirsi in modo armonioso nel meccanismo commerciale internazionale.

Gli annunci di annullamento dei debiti africani che sentiamo oggi non sfuggono a questa logica, sullo sfondo delle difficoltà che si prevedono per le economie del mondo sviluppato e per quelle in via di sviluppo nel periodo post covid-19.

La vera emergenza
In compenso, sono relativamente in pochi a chiedersi perché i debiti africani continuino a riproporsi, o perché l’Africa non riesca a uscire dalla spirale dell’indebitamento eccessivo. Proprio la risposta a questa domanda strutturale mette in luce la vera emergenza del continente africano.

Il primo fattore che spiega l’indebitamento ricorrente è la pressione fiscale (il rapporto tra gli introiti fiscali e la ricchezza creata nel corso dell’anno) che nell’Africa subsahariana è strutturalmente bassa, meno del 20 per cento del prodotto interno lordo (pil), mentre nel mondo sviluppato è superiore al 40 per cento. Le risorse fiscali costituiscono il grosso delle entrate degli stati e gli permettono di finanziare la spesa pubblica. Perciò una forte pressione fiscale significa, in teoria, una buona copertura delle spese pubbliche grazie agli introiti fiscali.

L’Africa non riesce ancora a produrre da sola ciò che consuma

Il secondo fattore che spiega l’eccessivo indebitamento è il livello strutturalmente elevato dei tassi d’interesse reali in Africa, spesso più che doppi rispetto a quello della crescita economica; quando si ottengono prestiti a un tasso di interesse superiore al tasso di crescita, le possibilità di rimborsare il prestito sono molto poche, visto che il ritmo con cui si crea ricchezza (il tasso di crescita economica) è inferiore al costo d’acquisto dei mezzi per creare quella stessa ricchezza (tasso d’interesse sui prestiti). Lo stesso ragionamento vale sia sul piano microeconomico sia su quello macroeconomico. Morale della favola: i flussi di deficit di accumulano e si trasformano alla fine dell’esercizio finanziario in ulteriori debiti.

Il terzo e ultimo fattore (il più strutturale) è la ridotta base produttiva africana. L’Africa non riesce ancora a produrre da sola ciò che consuma. Si crogiola nel ruolo che le è stato assegnato nella divisione internazionale del lavoro, ossia quello di esportatrice di materie prime, che portano guadagni più volatili e più bassi rispetto ai prezzi dei beni e dei servizi che importa in modo massiccio per far fronte alla sua grande domanda sociale, come vuole l’ipotesi Prebish-Singer.

Il risultato di queste modalità attraverso cui è avvenuto in principio l’inserimento dell’Africa nel contesto del commercio internazionale è l’accumulazione del cosiddetto deficit gemello, ossia il deficit di bilancio e il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti.

Di un’altra epoca
In definitiva l’annuncio della cancellazione del debito africano appare una ricetta vecchia per affrontare un mondo nuovo. L’Africa che verrà dopo il covid-19 non può accettare di giocare una partita dalla quale uscirà ancora una volta perdente, perché le stesse cause produrranno gli stessi effetti.

Leader che rubano grandi quantità di aiuti e prestiti accordati dalla comunità internazionale che, come il Tartuffe di Molière, distoglie pudicamente lo sguardo dal malgoverno cronico delle economie africane. La comunità internazionale può davvero vantarsi di cancellare un debito africano legato a prestiti che hanno aiutato così poco o per nulla l’Africa? Può davvero continuare ad applaudire i cattivi studenti a scapito di quelli buoni, che anno dopo anno cercano faticosamente di risanare le finanze pubbliche, cercano di rafforzare il controllo dei cittadini sull’azione del governo e hanno a cuore l’interesse generale? L’alleggerimento del debito non deve tradursi in una smobilitazione generale dell’Africa che lotta ogni giorno per la sua dignità e la sua sovranità, quell’“Africa che verrà” in cui tutti speriamo.

L’economia politica della compassione internazionale non può essere la via dell’emancipazione africana. Meditiamo insieme sul proverbio che dice: “La mano che dà si trova sempre sopra quella che riceve”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Quest’articolo è uscito su Le Point.

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