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Le conseguenze incalcolabili del governo Draghi sui partiti

Un dipendente di palazzo Chigi durante la cerimonia del passaggio di poteri tra Giuseppe Conte e Mario Draghi. Roma, 13 febbraio 2021. (Alessia Pierdomenico, Bloomberg via Getty Images)

Un’onda di entusiasmo sta accompagnando la nascita del governo Draghi. La gran parte dei mezzi di informazione racconta l’evento come una svolta epocale e parla del suo principale protagonista come di un semidio, di un salvatore della patria. Lasciamo da parte questi toni – talvolta imbarazzanti – più degni di una monarchia che di una democrazia. Concentriamoci invece sulla sostanza politica. È indubbio che Mario Draghi può vantare una fiducia vastissima: nel parlamento, nel paese, in Europa, sui mercati finanziari. Una fiducia che è una risorsa utilissima.

Ma è altrettanto indubbio che l’ex presidente della Banca centrale europea non ha soppiantato un governo – quello di Giuseppe Conte – screditato, o arrivato a fine corsa a causa di una sfiducia montante. In questi giorni si legge che “lo spread è crollato”. Certo, con l’arrivo di Draghi la differenza di rendimento tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi è scesa allo 0,9 per cento. Ma prima, con Conte, non era così alta. Da mesi era in costante discesa fino ad arrivare, prima della crisi di governo, all’1,1 per cento. Ai tempi del primo governo Conte, formato da Movimento 5 stelle (M5s) e Lega nord, raggiungeva picchi del 3 per cento. L’abbassamento si deve al Conte II e soprattutto all’Europa che con il recovery plan aveva dato un chiaro segnale di fiducia verso i paesi duramente colpiti dalla pandemia come l’Italia.

Anche tenendo conto della fiducia espressa dai cittadini in alcuni sondaggi non si può parlare di un’immagine in bianco e nero. Il governo Draghi è visto con favore dal 70 per cento degli italiani. Ma, d’altro canto, Conte e il suo governo non erano affatto impopolari e superavano agilmente il 50 per cento di approvazione. Ancora il 1 febbraio, secondo un sondaggio di Ipsos, il 66 per cento degli intervistati vedeva la crisi di governo scatenata da Matteo Renzi come “inutile” e il 44 voleva che Conte rimanesse premier.

Si può concludere che non è stato un senso generale di sfiducia a porre fine al governo Conte. Si può anche dire che forse quel governo non le ha sbagliate tutte, né sulla gestione della pandemia né sulla reazione alle sue conseguenze economiche e sociali. Quante ne abbiamo sentite su un “governo senz’anima”, senza prospettive e progetti. Intanto in questi bilanci affrettati molti commentatori tralasciano di ricordare che è stato proprio quel governo a portare a casa il recovery plan di più di 200 miliardi di euro, risultato tutt’altro che scontato, tutt’altro che secondario.

Una questione politica
Se Conte è arrivato a fine corsa lo deve al semplice fatto che non disponeva più di una maggioranza parlamentare. Questo fatto merita uno sguardo ravvicinato. Dopo le elezioni politiche del 2011 l’Italia non ha più avuto capi del governo indicati chiaramente dal voto popolare, usciti vittoriosi dalle urne come leader del loro partito o della loro alleanza, e dal 2013 non ci sono state alleanze organiche con una maggioranza in parlamento. Con le elezioni del 2013 e il successo dei cinquestelle il sistema partitico è passato dal bipolarismo al tripolarismo.

Nel tempo sono poi nate coalizioni fragili che univano il diavolo con l’acqua santa, il Partito democratico con pezzi della destra nei governi Letta, Renzi e Gentiloni; i cinquestelle con la Lega nel Conte I, e poi con i cari nemici del Pd (fino al giorno prima accusato di essere il “partito di Bibbiano”) nel Conte II.

Sappiamo bene che quest’ultimo esecutivo è nato per paura della elezioni, per “salvare l’Italia dai nuovi barbari”, come ha detto Beppe Grillo. E che questa paura di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni all’inizio era l’unico collante della strana coalizione nata grazie a Grillo e, non bisogna dimenticarlo, Matteo Renzi.

Date le pessime premesse questa coalizione mal assortita ha fatto molto meglio di quanto ci si potesse aspettare, probabilmente a causa della dura prova della pandemia. Che dovesse fallire non era scritto nella storia, ma esclusivamente nei piani di Italia viva, minuscola ma indispensabile forza politica guidata da Renzi, dapprima ispiratore e poi affossatore del Conte II.

L’operazione Draghi si rivela rischiosa più per le forze che sostenevano il governo precedente

Non trovo molto a fuoco quei commenti che parlano della presunta “incapacità della politica, dei partiti”. In un parlamento privo di maggioranze organiche chiunque sarebbe “incapace” di tirare fuori maggioranze negate dal voto dei cittadini. A questo punto rimanevano due alternative: o il voto subito o un governo “del presidente”.

Sergio Mattarella ha optato per la seconda soluzione, soluzione passata – ricordiamocelo – grazie al sì di quasi tutti i partiti. È stato un sì molto strano, a scatola chiusa, senza porre condizioni sul programma e sulla composizione del consiglio dei ministri. Si può dire che è stato un sì che nell’immediato può giovare all’Italia sullo scacchiere europeo e internazionale, dove Draghi è percepito come massima garanzia di affidabilità e di stabilità. Ma è anche un sì le cui conseguenze per il sistema partitico, già sfilacciato e sfibrato, appaiono incalcolabili.

Sarebbe senz’altro positivo se la Lega di Matteo Salvini facesse sul serio sulla svolta, al momento solo di facciata, verso una posizione non più rudemente ultranazionalista (“Prima gli italiani!”) e antieuropea. Rispetto a questo nuovo esecutivo, Salvini ha il vantaggio di non dover temere un “effetto Monti” sui consensi del suo partito: mentre il governo Monti nel 2011 sottoponeva gli italiani a un programma di lacrime e sangue, l’esecutivo di Draghi deve gestire una crisi economico-sociale pesantissima, ma ha dalla sua più di 200 miliardi di euro per farlo. Inoltre Salvini ha potuto realizzare una svolta improvvisa senza causare scossoni nel partito: non una voce critica si è levata contro la sua decisione di sostenere il governo.

L’operazione Draghi si rivela invece ben più rischiosa per le forze che sostenevano il secondo governo Conte. Il segretario del Pd Nicola Zingaretti per ora è riuscito a tenere insieme quel centrosinistra fatto dai democratici, dai cinquestelle e da Liberi e uguali, respingendo quello che ai suoi occhi era il piano di Renzi, e cioè disarcionare l’alleanza Pd-M5s.

Ma quell’alleanza, per sopravvivere, ha bisogno della sopravvivenza dei cinquestelle. Già prima della nascita del governo Draghi il movimento godeva di pessima salute, senza bussola e senza leadership legittimata. Ora i suoi problemi peggiorano ulteriormente: deve sostenere un premier che – anche se Grillo definisce Draghi “grillino” – è la quintessenza di quell’establishment contro cui è nato il M5s, e lo deve fare ingoiando inoltre il rospo indigeribile di governare insieme a Forza Italia e a Silvio Berlusconi (lo “psiconano” di grillina memoria) contro cui si scatenò sin dai primi v-day.

In questo contesto i rischi di sfaldamento e di declino inesorabile si fanno ancora più concreti. I cinquestelle hanno solo una via d’uscita: quella di definire cosa vogliono fare da grandi, magari recuperando con più forza quel profilo ecologico e civico degli albori (rinunciando però al mito dello splendido isolamento che accompagnò la loro nascita). Altrimenti la loro storia sarà finita così come quella del nuovo centrosinistra, e il governo Draghi sarà ricordato, al più tardi nel 2023, come un breve intermezzo prima della vittoria di una delle peggiori destre in Europa.

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