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Come rendere utile la solitudine

Mark Griffiths, Getty Images

Di questi tempi, nel mondo della psicologia si parla molto della solitudine. Ormai è argomento di così tanti studi, articoli e conferenze che a volte vorremmo veder sparire chi la studia e starcene un po’ in pace per conto nostro. Forse sapete già che la solitudine può essere letale: è legata alle malattie cardiache, all’insonnia e alla depressione, ed è un indicatore migliore dell’obesità di una possibile morte prematura.

Ma la nuova teoria sul senso di isolamento è che, in dosi modeste, dovremmo accoglierlo con gioia. “Finché riusciamo a fare quello che dovremmo fare – cioè a mantenere i contatti con le persone – il senso di isolamento è una cosa positiva”, spiega la psicologa tedesca Maike Luhmann, “perché è un segnale inviato dalla nostra psiche per avvertirci che qualcosa non funziona”. È un “sistema d’allarme biologico” che si è evoluto nel corso dei millenni e ci avverte che stiamo raggiungendo un livello di isolamento potenzialmente pericoloso. È vero che oggi i pericoli legati all’isolamento sono minori: un londinese senza amici non rischia di morire di fame, o di essere sbranato, come poteva accadere a un cacciatore-raccoglitore senza amici nella preistoria. Ma c’è un motivo per cui il senso di isolamento ci fa stare così male.

Questa teoria è stata accolta con grande sorpresa – sentirsi soli è una cosa positiva? – ma è ancora più sorprendente aver sempre pensato il contrario. Perché mai avremmo sviluppato questa reazione all’isolamento se non fosse servita a qualche scopo? (Come osserva la scrittrice di psicologia Melissa Dahl, la stessa cosa si potrebbe dire della noia, perché ci avverte che abbiamo bisogno di dare più significato alla nostra vita, e dell’ansia, che ci aiuta a prepararci ad affrontare potenziali pericoli). Questo ci appare più ovvio se pensiamo al dolore fisico. Un dolore lancinante all’addome non è piacevole, ma è “una cosa positiva” se ci spinge ad andare dal medico per cercarne la causa. Per usare il gergo informatico, il dolore non è un bug, è una qualità.

Il senso di isolamento, come la depressione, può diventare cronico

Se non riusciamo a considerare le emozioni come dei campanelli d’allarme forse è perché suggerire di farlo suona come un’accusa. Dire a chi si sente solo di uscire di più sembra implicare che se è solo è per colpa sua. Anche certe forme di depressione sono una risposta del nostro cervello a una situazione sbagliata che dovremmo cambiare: forse è ora di interrompere un rapporto, o di affrontare un conflitto interiore. Ma preferiamo non sentircelo dire. Dare la colpa a uno “squilibrio chimico” ci spaventa di meno. Trattiamo la depressione come una malattia, mentre forse faremmo meglio a considerarla un sintomo.

L’aspetto negativo di questa nuova visione è che il senso di isolamento, come la depressione, può diventare cronico. È l’inizio di un circolo vizioso. Cominciamo a considerare ostile l’ambiente che ci circonda – in fondo ci fa stare male – quindi siamo scostanti con gli altri, o evitiamo del tutto i contatti (questo è il primo segnale d’allarme: nel paleolitico forse spingeva le persone molto isolate a stare all’erta per evitare potenziali pericoli, ma ormai non è più così).

Questo tipo di senso di isolamento richiede una risposta intelligente: dobbiamo prestare attenzione al campanello d’allarme, ma non ai pensieri che ci suscita, al desiderio di fuggire da tutto. Dobbiamo tendere la mano agli altri, anche se non ne abbiamo voglia. Ancora una volta, l’analogia con il dolore fisico ci aiuta a capire. Non avremmo voglia di sottoporci a un’operazione chirurgica, ma a volte è proprio quello di cui abbiamo bisogno.

(Traduzione Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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