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Faber & sons

1. Ex-Otago, Amore che vieni, amore che vai
Arieccolo, Faber nostrum. Fabrizio De André reinterpretato nella raccolta così titolata da un trenino indie in partenza da Genova Sant’Ilario: da Motta a Vasco Brondi. Non ci sono stravolgimenti (tranne Willie Peyote che col Bombarolo la butta sulla cover rap, partendo per sue tangenti), e come rappresentanti del genovesato ci sono solo gli Ex-Otago. Che neanche scelgono Crêuza de mä, ma un pezzo del 1966. La dolceamarezza dell’originale resta fuori portata, ma il trenino si spera raggiunga nuove generazioni.


2. Giua, Argilla (feat. Jacques Morelenbaum)
Inopinatamente assente dalle compilazie trendy intorno al Faber, lei che ne è stata interprete oltre che conterranea, la cantante di Rapallo rispunta con l’album Piovesse così, una riprova della sua bravura. Sconta forse un’eccessiva generosità, una propensione a cimentarsi con ogni registro: dal singolo Feng shui, canzone-cabaret in cui è affiancata da Carla Signoris, a slanci pink-floydiani. Non che l’ambizione sia veleno ma le è più congeniale il violoncello brasileiro di Morelenbaum che la affianca in cinque dei dodici pezzi.


3. Al Raseef, Longa Şehnaz
Un vocìo dai mercati, e sembra di tornare tra i pusher di gianchetti e acciughe su cui si chiudeva Creuza de mä del Faber. Però qui, nell’album Mina Zena, uscito l’anno scorso, accanto al dialetto genovese s’intrecciano voci da suq arabo. Ed è un modo efficace di continuare l’inseguimento di sonorità panmediterranee di cui De André fu pioniere. La band è nata a Ramallah e cresciuta all’ombra del conservatorio di Genova, formata da quattro palestinesi, un siriano e due liguri. Arab brass, strumentali a perdifiato, da festa e da ballo, al pesto e al cumino.


Questo articolo è uscito sul numero 1305 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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