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Raymond Poulidor, Parigi, 1964

Raymond Poulidor durante una tappa del Tour de France, il 26 giugno del 1965. (Rolls Press/Popperfoto/Getty Images)

Per i francesi Raymond Poulidor è sempre stato l’eterno secondo, l’eroe che non ha mai indossato la maglia gialla al Tour de France. Ha gareggiato contro Jacques Anquetil per tutta la vita, fino alla fine: se n’è andato il 13 novembre 2019 e, volendo leggere i suoi ultimi momenti come una classifica, si è piazzato con 32 anni di vantaggio, o di ritardo, rispetto al suo grande rivale, ucciso da un cancro nel 1987. Anquetil era il simbolo dei successi trionfali e della modernità beffarda del trentennio glorioso, mentre Poulidor, detto “Poupou”, incarnava l’altra metà del paese: le persone semplici, gli sfortunati (una donna chiese di essere sepolta in una bara piena di sue foto), i coraggiosi, i perdenti, i campagnoli. Un’epoca della Francia che si è chiusa definitivamente con la sua morte.

Il suo cuore ha finito per cedere prima della sua Mercedes. Nonostante la sua età, Poulidor non restava mai a casa. Andava – guidando senza sosta per seicento chilometri – dovunque fosse richiesta la sua presenza, e quindi molto spesso nella campagna delle sale polivalenti, delle feste del vino, dei mercatini dell’usato e delle inaugurazioni d’ipermercati, nelle frazioni che a torto immaginiamo deserte e nelle province che a ragione crediamo agonizzanti, alle cene dei volontari delle mense dei poveri, e alle mostre di vecchie magliette ciclistiche che ravvivano la fierezza di una regione e una piccola pagina del romanzo della nazione, nel tempo in cui questo sport era re e la Francia viveva, apparentemente, tranquilla.

“Non voleva fermarsi, Raymond ha dato tutto fino alla fine”, ci aveva confidato Claude Louis, presidente del suo fan club ancora attivo, quando nell’agosto 2019 i medici avevano diagnosticato un cuore in cattive condizioni al coriaceo Poulidor. Non voleva fermarsi, temendo che non lo riconoscessero più. “Il giorno in cui questo accadrà”, aveva minacciato, “sarò morto”.

Storie da camino
Maggio 2014. Un capanno di cacciatori nell’Ariège, un dipartimento nei Pirenei dove, come altrove, Poulidor aveva attaccato la strada con la sua bicicletta. Lui ci aspettava in ciabatte. Una cena tra amici: una decina d’invitati a casa di Daniel Salles, ex corridore della nazionale francese dilettanti. Raymond era già affamato da un pezzo: “È questa l’ora d’arrivare?”. A casa sua si cenava alle 18, davanti alla televisione. Quella sera c’era del civet di beccaccia. Quella sera Poupou si era ripromesso di non parlare di ciclismo. Almeno non per primo.

E invece era stato lui a cominciare. “Sapete che non ho mai sofferto come scalando il Puy-de-Dôme?”. All’improvviso, come una radio che si accende da sola per un cortocircuito, Poulidor aveva deciso di raccontare la storia di una delle sue foto più belle: quella dove lo si vede quasi titubante mentre scala il vulcano spento nell’Alvernia, fianco a fianco con Anquetil, viso squadrato e naso rotondo, che si fa forza con le spalle per avanzare. Era il torrido Tour de France del 1964. “Nessuno dei due voleva cedere di un metro. Mi ustionai la gamba toccando il tubo di scappamento di una moto che aveva rischiato di fermarsi”. Raymond in ciabatte e accanto al camino raccontava, come se fosse la prima volta, una storia che aveva puntigliosamente riferito almeno in una trentina di libri e confidato a 75mila ammiratori (stima prudente, tenendo conto dei cinque resoconti fatti ogni giorno per mezzo secolo).

Poulidor (a destra) e Anquetil scalano il Puy-de-Dôme, il 12 luglio del 1964.

Due giorni prima di questa cena nel capanno, aveva parcheggiato la sua Mercedes sotto alcuni platani, e un cliente uscito da una macelleria gli aveva detto: “Ciao Raymond”. Nessuno si stupiva di incontrarlo, perché tutti lo vedevano ogni giorno nella pubblicità per gli apparecchi per l’udito, nelle riviste sui programmi televisivi distribuiti alle casse del supermercato, sempre più incurvato, vestito con pantaloni troppo larghi e scarpe buone per il giardinaggio. La gente lo chiamava “Raymond” e gli dava del tu. Poulidor aveva guardato quell’uomo e aveva indicato il cielo con la testa: “Fa freschino qui da voi”. Poi era tornato a prendere un maglione di lana.

Contrariamente al belga Eddy Merckx, il suo altro grande avversario – che nell’estate del 2019 aveva smesso di fare il “mostro sacro” in pubblico – Poulidor non si stancava mai di firmare pezzi di carta e ascoltare le persone che gli confidavano segreti di famiglia. “Sapete che mio nonno…”. Oppure: “Ho un fratello ciclista, ma non era molto forte”. O ancora: “Eravate l’idolo di mia madre”. Più di recente: “Che meraviglia, vostro nipote”, parlando di Mathieu van der Poel, al quale molti (compreso il nonno) hanno pronosticato dei trionfi al Tour de France, il che per Raymond sarebbe stato sia una rivincita sia una beffa del destino.

Felice nei campi
Raymond Poulidor era nato il 15 aprile del 1936 nel dipartimento della Creuse, da genitori mezzadri, in una fattoria a cui una veggente locale aveva dedicato una profezia: “Qui verrà al mondo una persona celebre”. Le persone del posto non andavano in città, si davano una mano a vicenda per il raccolto, votavano comunista ma andavano in chiesa. Una volta al mese mangiavano ciotole di castagne e zuppa insieme a una grossa forma di pane scuro. La “persona celebre” ha dichiarato che, crescendo, non gli era “mai mancato nulla”, un’espressione pudica, mai davvero veritiera.

Inizialmente usava la bicicletta di sua madre e accompagnava i suoi due fratelli sui sentieri di campagna. Poi, a 16 anni, ne comprò una nuova con i soldi ottenuti facendo il parrucchiere clandestino. Non ha mai rinnegato i suoi valori d’origine né li ha esibiti più di tanto. “Da piccolo non potevo mai comprare dei dolci e, adesso che ho i mezzi per farlo, non ne ho più voglia”, ha detto una volta. In altre occasioni dichiarava: “Preferisco mangiare in un ristorante per camionisti che in uno di alta gastronomia”. E diceva infine che, se non avesse fatto il ciclista, avrebbe lavorato nei campi e sarebbe stato felice lo stesso.

Nell’estate del 1964, alla sua terza partecipazione al Tour, Poulidor confermò l’idea secondo cui i francesi non amano i vincitori. Convinzione falsa, in realtà: che dire dell’adulazione per Cerdan, Prost o Zidane? Sta di fatto che nel Tour dello straordinario duello sul Puy-de-Dôme si manifestarono tutti gli elementi che determinano la sua fama di figura drammatica. Sul colle d’Envalira, il passo dei Pirenei che separa Andorra e Francia, Poulidor fu sul punto di strappare la maglia gialla ad Anquetil. Ma mentre era in fuga bucò una ruota. Il meccanico della sua squadra, arrivato per aiutarlo, lo urtò facendolo cadere a terra.

Se il Tour de France di quell’anno gli sfuggì per 55 secondi – uno scarto molto ridotto all’epoca – fu forse a causa di una volata iniziata troppo presto nella nona tappa, a Monaco: dimenticatosi che gli rimaneva da percorrere un giro, non poté beneficiare del bonus di un minuto. L’ultimo giorno, durante la tappa a cronometro tra Versailles e Parigi che sembrava dominare, un giornalista televisivo commise un errore di calcolo e gli annunciò che aveva realizzato il miglior tempo, e quindi avrebbe conquistato la maglia gialla. Nell’arco di pochi secondi, Poulidor vide cambiare la sua vita. Prima di scoprire l’effettivo verdetto del cronometro e tornare a essere Poulidor. E dichiarando subito dopo: “Non è così grave”.

Il suo primo direttore sportivo raccontò di aver sottoposto Poulidor a un esame con il suo pendolino divinatorio

Nei bar della Francia, da poco passati dalla radio a transistor alle prime televisioni, e dove la classifica delle tappe veniva scritta a caldo su una lavagna, i suoi exploit al contrario suscitavano un interrogativo dopo l’altro. La sua era solo sfortuna? Era quindi un secondo per caso? Il suo primo direttore sportivo, Antonin Magne, tecnico dai princìpi elevati (“non c’è mai gloria laddove manca la virtù”) ma dalla scarsa inventiva tattica, raccontò di aver sottoposto Poulidor a un esame con il suo pendolino divinatorio. Ne era emersa un’implacabile maledizione: quell’atleta non avrebbe mai raggiunto il suo miglior rendimento nel mese di luglio. Può darsi. Alcuni suoi contemporanei ritenevano però che Magne e Poulidor, i due campagnoli, avrebbero ribaltato la situazione e ottenuto grandi trionfi se avessero accettato di spendere dei soldi per convincere gli avversari a correre con loro, pratica frequente tra i ciclisti professionisti e tuttora in voga.

Altri ritengono che Poulidor, che non ha mai ammesso di essersi dopato, avrebbe ottenuto maggiori successi se avesse assunto le stesse dosi di Anquetil, che invece ha ammesso di averlo fatto. Poupou deve certamente la seconda parte della sua carriera tanto al cambiamento di direttore sportivo che ai servizi dell’enigmatico Bernard Sainz, noto come dottor Mabuse, ma non è mai risultato positivo ai controlli. Né è mai stato descritto come un truffatore in un ambiente dove ciascuno conosce il valore reale dell’altro. E se avesse preso gusto alla sconfitta al punto di non rincorrere più la maglia gialla? È questa un’altra teoria che ha fatto la sua fortuna e quella dei bar dello sport per tre decenni.

Anquetil odiava quel rivale più amato (e meglio pagato) di lui, e si dedicò a farlo perdere anche quando non era più il re del circuito ciclistico, consigliando da vicino Felice Gimondi nel tour vinto dall’italiano nel1965 e vietando ai ciclisti della nazionale francese di facilitare il compito a Poupou nel 1967. Ma “maître Jacques” divenne in seguito il primo tifoso del suo avversario, addirittura suo amico intimo, aiutato dal fatto che dopo il ritiro era considerato una sorta di semidio. Dal suo letto d’ospedale Jacques apostrofò Raymond con una frase d’antologia: “Finirai di nuovo secondo!”.

Figlio di un produttore normanno di fragole, Anquetil invitava spesso Poupou nel suo castello, dove conduceva una vita da borghese quasi eccentrico, e fu durante una di queste cene che ebbe luogo una scena incredibile, sotto gli occhi di altri grandi nomi della cronaca ciclistica. L’alcool scorreva a fiumi. Qualcuno propose a Poulidor di indossare per una volta, solo “per vedere” che effetto faceva, una delle tante maglie gialle di Anquetil. Uno scherzo di cattivo gusto, al quale però Poupou non si era opposto. Vestito di giallo, aveva scherzato dicendo che quel colore non gli donava. Poi, nello stupore generale, con un gesto goffo aveva macchiato quella reliquia versandoci sopra del vino. Molti anni dopo Poulidor avrebbe detto che quella serata non ha mai avuto luogo.

La Francia in un uomo
Dopo Anquetil, Raymond Poulidor si trovò di fronte Eddy Merckx, altro distruttore di sogni. Nel 1975, a 38 anni, riuscì a distanziare il cannibale belga nella salita di Saint Lary, sui Pirenei, ma senza poter indossare la maglia gialla. Confermava l’immagine dell’uomo mai rassegnato, mai battuto, ribelle di fronte ai più grandi, anche se alla fine ammetteva la sconfitta e non contestava mai la sua condizione di “piccolo”.

Tre anni dopo Raymond Poulidor si ritirò dalle corse, con un palmarès di otto piazzamenti sul podio finale del Tour de France (record storico), di cui tre secondi posti, ma anche 189 successi, tra cui una Milano-Sanremo (1961), una Freccia Vallone (1963), un Giro di Spagna (1964), due Parigi-Nizza (1972 e 1973) e due Criterium del Delfinato (1966 e 1969). Libération commentò così la notizia del suo ritiro: “Da stamani siamo orfani di Poulidor. Dovremo imparare a vivere senza di lui. Senza il suo accento, le sue sconfitte, le sue sfortune. Era un uomo prezioso. Non per la sua pedalata, ma per quel che rappresentava. Tutta la Francia riassunta in un uomo, non è cosa da poco. Ce ne accorgiamo oggi, facendo la conta delle cose davvero nostre: il berretto basco, il beaujolais, la baguette, il camembert, il Concorde ma non più tanto. La Francia si riduce sempre di più”.

Come accade a ogni simbolo, vari presidenti della repubblica hanno cercato di appropriarsene. Georges Pompidou gli avrebbe riferito questa frase di Charles de Gaulle: “Poulidor, un nome da primo ministro”. Giscard d’Estaing a quanto pare lo adorava, e François Mitterrand avrebbe fatto riferimento a lui in occasione delle sue sconfitte tra il 1965 e il 1981. Emmanuel Macron lo ha salutato come eroe nazionale il giorno della sua scomparsa. “Raymond Poulidor non è più tra noi. I suoi exploit, il suo portamento, il suo coraggio resteranno impressi nelle memorie. Poupou, per sempre maglia gialla nel cuore dei francesi”. Gli scrittori conservatori, Antoine Blondin prima e Denis Tillinac poi, lo hanno venerato come amico e fonte d’ispirazione. Marion Maréchal – nipote di Jean-Marie Le Pen, fondatore del Front national – ha insistito per farsi fotografare con lui durante il Tour de France del 2016. Non era il suo candidato, e non era il suo mondo, ma Poulidor si era giustificato dicendo: “Non faccio politica”.

Un bel giorno, davanti a una tazza di cioccolato caldo, ci eravamo accordati per rievocare alcuni dettagli significativi, per separare il vero dal falso, che nella sua leggenda spesso s’intrecciano. Un esercizio che per molto tempo aveva rifiutato, ma a cui si era dedicato riprendendo il filo proprio dalla salita del Puy-de-Dôme. Chi era davvero Poulidor, proclamato “comunista” da alcuni per opposizione a un Anquetil inevitabilmente “gollista”? Si sapeva che il suo soprannome – Poupou – era stato inventato da Emile Besson, giornalista dell’Humanité, che gli aveva proposto invano di entrare nel Partito comunista. Ma si sapeva anche che i suoi ammiratori erano piuttosto conservatori, mentre quelli di Anquetil erano piuttosto di sinistra.

Poulidor aveva lasciato scorrere il giradischi e le lancette del suo orologio. Poi aveva assunto un’espressione molto seria. Le sue idee politiche non le ha mai del tutto chiarite: “Non posso dire niente, per non deludere la metà dei miei sostenitori”. Sul suo rapporto con Dio: “Quando vedo tutta la sofferenza che c’è nel mondo, mi chiedo se esista davvero”. Poi si era adagiato sullo schienale della sua sedia: “Sono domande che nessuno mi rivolge mai”.

Al momento di pagare, aveva cominciato a rovistarsi nelle tasche. Poulidor il contadino aveva un grande rispetto del denaro, un fatto che provocava le risate e la tenerezza dei suoi ex colleghi: aveva guidato la sua precedente Mercedes per 750mila chilometri, indossato per trent’anni le stesse scarpe, e pagava solo con assegni in un ristorante per camionisti di Châteauroux, sapendo che i proprietari non avrebbero mai incassato quell’autografo. Un principio di sopravvivenza: non si sa mai cosa può succedere domani. Il conto era di tre euro. Poulidor aveva continuato a rimestare nelle tasche e poi, all’improvviso, era uscito di corsa: “Credo che fuori le persone mi aspettino!”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito su Libération.

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