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L’Italia secondo il rapporto dell’Istat

Lavoro, ripresa, pil: il Rapporto annuale 2015 dell’Istat mette in fila le ragioni di un cauto ottimismo ma chiede che il sud d’Italia entri nell’agenda politica del governo

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Secondo l’Istat la ripresa c’è ma è per pochi

La lavanderia ItacLab, specializzata nel processo di lavorazione del denim, a San Benedetto del Tronto, Ascoli Piceno, maggio 2012.

In Europa l’occupazione è tornata ai livelli che c’erano prima della crisi. In Italia siamo sotto di tre punti rispetto al 2008 e di quasi dieci punti rispetto alla media europea. Detto in altre parole: per allinearci al tasso di occupazione medio dell’Unione europea, dovremmo conquistare tre milioni e mezzo di posti di lavoro. L’anno scorso, quando la crisi era ancora in pieno corso e ciò nonostante un piccolo aumento dell’occupazione c’è stato, ne abbiamo avuti 88mila in più. Come dire: il gap che ci separa dall’Europa, in termini di lavoro, di questo passo sarà colmato in 39 anni.

È solo una delle cifre, ma la più netta, che emerge dal Rapporto annuale 2015 dell’Istat. Il primo presentato dal nuovo presidente Giorgio Alleva, il primo a recessione ufficialmente conclusa. Il Rapporto elenca le ferite lasciate dalla crisi, mette in fila le ragioni di un cauto ottimismo sulla ripresa cominciata nel 2015 (più 0,3 del pil, e soprattutto i segnali positivi di marzo dall’export), e sceglie una parola d’ordine: diversità. Per dire che i territori italiani – i sistemi locali, alla cui geografia fa riferimento tutto il Rapporto – escono dalla recessione (quando ne escono) ed entrano nella fase nuova in condizioni assai differenti. Ci sono i forti, quelli in cui le imprese hanno innovato rispetto alle proprie specialità produttive e – soprattutto – si sono messe in rete; e ci sono i deboli, non riparati abbastanza neanche nelle tradizionali nicchie del made in Italy. Dei distretti industriali italiani, scesi in un decennio da 181 a 141, solo una minima parte (29) è riuscita a tenere, in termini di occupazione, restando nella stessa specializzazione che aveva; la metà, restando ferma dov’era, ha riportato consistenti perdite, mentre va meglio, con luci e ombre, tra gli altri che hanno preso a muoversi e a cambiare linee e prodotti. Quanto a dimensioni e struttura, il sistema produttivo italiano è rimasto, dopo sei anni di recessione, in gran parte inalterato: prevalenza di microimprese (le imprese con meno di 10 addetti sono più di quattro milioni, il 95 per cento del totale), frammentazione, isolamento, a parte le poche che hanno cominciato a mettersi in relazione tra loro (206mila aziende).

Uscendo fuori dal prudente linguaggio dell’Istat, s’intravede insomma una ripresa economica che è, per ora, poca e per pochi. I cui germogli sono spuntati solo su alcuni rami: tutti nel centro nord, ma non in tutto il centro nord. Il Mezzogiorno resta tragicamente fuori. Anche la leggera ripresa del lavoro del 2014 non ha interessato affatto le regioni del sud, che anzi hanno continuato a perdere: 45mila occupati in meno lo scorso anno, quasi 600mila dall’inizio della crisi. Il gap tra sud e resto d’Italia si è riaperto nella crisi, e rischia di approfondirsi nella nuova fase, nell’assoluta indifferenza della politica economica nazionale ed europea: “Il Mezzogiorno non può continuare a restar fuori dall’agenda politica”, chiede l’Istat.

A proposito di agenda politica. Colpisce, nella lettura dei numeri del 2014, una grande assenza. Il bonus Renzi, ossia lo sgravio fiscale di 80 euro per i lavoratori dipendenti a reddito medio-basso, è stato in vigore da maggio a dicembre. Ci si potrebbe aspettare di trovarne una traccia nel rendiconto statistico dell’anno. Eppure non è neanche menzionato. L’anno si è chiuso, com’è noto, con una riduzione del pil dello 0,4 per cento: un calo molto minore rispetto ai due anni precedenti, ma che sommato a tutti i guasti della lunga recessione ha portato il livello del pil al di sotto di quello del 2000, e il valore del prodotto pro capite al di sotto del livello del 1997. Il paracadute che si è aperto l’anno scorso è venuto dall’estero, dalle esportazioni, mentre nei nostri confini gli investimenti scivolavano giù, e i consumi delle famiglie venivano tenuti su (più 0,3 per cento nella media annua) da due aiuti: è scesa l’inflazione, e le famiglie hanno usato un po’ i risparmi che avevano da parte. L’effetto degli 80 euro in busta paga, se c’è stato, non viene rilevato dai sismografi dell’Istat. Più che Renzi hanno potuto gli emiri, insomma, con il calo del greggio; e Draghi, con la riduzione del costo del denaro. Sulla politica di alleggerimento monetario varata dalla Bce, l’Istat dà una stima interessante: il quantitative easing vale, da solo, 0,1 punti di pil quest’anno e 0,3 punti per l’anno prossimo.

Nonostante l’omissione sulla sua misura di politica economica più impegnativa – e anche più plateale – il governo in carica non riceve secchiate d’acqua ghiacciata dalle parole del Rapporto. Che preferisce parlare di diversità piuttosto che di diseguaglianze che si aprono e riaprono; e invita a valorizzare queste diversità, come “ricchezza del paese”. Lo fa soprattutto parlando delle imprese e delle loro scelte di produzione e di posizionamento. E valorizzando i segnali che vengono dagli investimenti, in aumento nel quarto trimestre dello scorso anno e nel primo del 2015. Su cosa si investe? Secondo le stime e le simulazioni dell’Istat, le imprese che investono stanno soprattutto comprando brevetti; segue l’investimento in macchinari e attrezzature; e solo più tardi, nel 2016, arriveranno quelli nell’edilizia, limitati al settore non residenziale.

Si capisce allora perché, per ora, l’occupazione non tenga il passo neanche ai ritmi lievi della ripresa che c’è. Anche nel lavoro ci sono vincenti e perdenti – e i primi sono pochi. Mentre fioccano dati e comunicati, nella febbre da misurazione degli effetti del jobs act, è utile tenere a mente l’altezza della montagna da scalare: i 3,5 milioni di occupati che si separano dalla media europea. Per la gran parte il gap dipende dal lavoro femminile: per arrivare ai livelli (medi) dell’Unione europea, dovrebbero lavorare 2,5 milioni di donne in più, in Italia. Siamo ancora molto indietro, anche se durante la crisi le donne se la sono cavata assai meglio degli uomini: dal 2008 al 2014 ci sono state 64mila donne occupate in più, mentre il bilancio dell’occupazione maschile è in rosso (875mila lavoratori in meno). Ma se è vero che l’occupazione femminile ha tenuto, è anche vero che si partiva da livelli che erano e restano assai bassi. Rispetto all’inizio della crisi, lavorano di più le donne over 50 (anche, ma non solo, per effetto della riforma delle pensioni), sempre più donne sono entrate al lavoro per supportare il reddito familiare, ed è in costante ascesa il numero delle famiglie donne bread winner (cioè che portano l’unico reddito in casa: 12,9 per cento nel 2014). Ma soprattutto, le donne sono le protagoniste del boom del lavoro part time, l’unico tipo di lavoro che è costantemente aumentato in tutti questi anni: nel 2014 i lavoratori a tempo parziale erano oltre quattro milioni (il 18,4 per cento del totale degli occupati, con un 32,2 per cento tra le donne e l’8,4 per cento tra gli uomini), ma quasi due su tre avrebbero voluto un lavoro a tempo pieno. Cioè, sono in part time involontario, non perché lo chiedono – per eventuali esigenze familiari, o per essere più liberi di fare anche altro – ma perché viene loro imposto. Se tutta la crisi è stata segnata dal boom del part time, speriamo che non sia a part time anche la ripresa.

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