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Il tecnico popolare deve fare anche scelte impopolari

Mario Draghi al Quirinale, Roma, 3 febbraio 2021. (Alberto Lingria, Corbis via Getty Images)

Mario Draghi non è il primo tecnico a essere chiamato a guidare un governo italiano e con tutta probabilità non sarà l’ultimo. Troppo profonda e strutturale è la crisi dei partiti politici per pensare che sia solo un traghettatore a una nuova fase nella quale il meccanismo della democrazia parlamentare tornerà a funzionare fluido, e troppo frammentato è il quadro della rappresentanza per prevedere che – quando prima o poi si tornerà a votare – ne uscirà come per magia un qualche quadro razionale. Ma l’esperimento Draghi si preannuncia profondamente diverso da quelli del passato: Dini, Ciampi, Monti.

In tutte e tre queste esperienze – lontane tra loro, al punto che forse non si può neanche annoverare Dini tra i governi tecnici, ministro del tesoro del primo governo con gli ex fascisti e i leghisti in maggioranza – l’ascesa di una persona scelta nel gotha dell’economia per le sue competenze e relazioni era legata all’emergenza economica e alla necessità di prendere decisioni impopolari, rispetto alle quali i partiti volevano restare un passo indietro, non metterci in prima battuta la faccia e le mani (non riuscendoci peraltro, ma questo è un altro discorso).

In questo caso, Draghi deve fare cose popolari: gestire il piano dei vaccini, ottenere l’approvazione europea al “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, cominciare a spenderne i fondi. Salute e soldi, laddove prima c’erano sacrifici e tagli. E stavolta non è che i partiti non vogliono metterci la faccia e le mani: le mani sono già pronte (a Salvini il merito di averlo detto sfacciatamente: non possiamo restare fuori dalla spesa del recovery plan), le facce sono troppe e in conflitto, talmente in conflitto da rischiare di far saltare tutto. E dunque, ecco il grande pacificatore, la negazione di tutti i capisaldi del populismo – l’antiscienza, l’anticompetenza, l’antieuropeismo, l’antiélite – tranne uno: un uomo solo al comando, l’eterna tentazione del leader che risolve tutto.

La formula è già pronta, nominata da Draghi stesso in tempi (forse) non sospetti, al meeting di Rimini dell’agosto 2020: il “debito buono”. Esiste un debito buono – e se lo dice un ex banchiere centrale, governatore di quella Bce che ha infierito contro i debiti pubblici dei paesi dell’Europa del sud (tutti cattivi), ma ha domato la dottrina Bundesbank per la quale i debiti sono tutti colpevoli – ci si può credere. Musica per le orecchie dei partiti, convinti che non esistano debiti cattivi, almeno nel breve periodo che poi è quello che per loro conta. Di qui le clamorose conversioni sulla via di Draghi: perché i populisti dovrebbero tagliare le gambe al tecnico popolare?

Qual è il debito buono?
Il punto è, e sarà nei prossimi mesi, decidere qual è il debito buono. Il primo passo è semplice, e lo dettano le regole fondamentali del piano Next generation EU: è quello che serve per pagare gli investimenti, non le spese correnti. Già il secondo governo Conte ci era arrivato, e fin qui tutto bene. La presenza di Draghi garantisce che non si facciano trucchi e non si segnino a investimenti quelle che sono spese correnti. Il secondo passo è più complicato: quali investimenti?

Anche qui va detto che l’Europa aiuta, dando linee guida e condizioni – molte condizioni, quelle che alcuni dei partiti che abbracciano Draghi rifiutano quando si parla di Meccanismo europeo di stabilità (Mes) – abbastanza precise: innovazione tecnologica nel digitale, transizione verde, inclusione sociale, e su tutto la garanzia del perseguimento della parità di genere. Ma sono solo titoli, e rischiano di restare generici se a ogni capitolo non si mettono soldi, date e programmi precisi. E soprattutto, se non si decide chi dovrà fare gli investimenti finanziati con il “debito buono”: lo stato? Le imprese pubbliche? Quelle private? Saranno investimenti diretti o incentivi a farli? Se tutti e due, con quali garanzie che il piano non si risolva – per citare una brutta parola cara al presidente di Confindustria – in un “sussidistan” per un sistema industriale, come quello italiano, che è agli ultimi posti per innovazione, produttività, spesa in ricerca?

Tutto ciò non si decide nelle prossime settimane, ma si possono mettere le basi per prendere decisioni migliori in futuro, per evitare che la solidarietà nazionale intorno al governo si trasformi in un’ammucchiata nazionale sui fondi, senza selezione e senza criterio. E anche per evitare che, mentre si programma il “debito buono”, si continui a spendere per quello “cattivo”, come gli incentivi all’energia non green.

Servizi nuovi
Un’altra scelta preliminare è sull’oggetto degli investimenti. Il fatto che nelle trattative per salvare il governo Conte sia ancora una volta rispuntato il ponte sullo stretto di Messina la dice lunga: nell’immaginario e negli appetiti delle imprese e della società italiane, c’è sempre l’idea delle infrastrutture fisiche gigantesche. Mentre da anni va avanti la definizione, e la quantificazione, delle infrastrutture sociali come una linea di investimento: purché, anche qui, si faccia non come una cosmesi contabile – chiamo “infrastruttura sociale” la vecchia spesa per i servizi sociali, e tutto va bene – ma costruendo dei servizi nuovi (o rivoluzionando quelli già esistenti), che diventino infrastruttura materiale o immateriale per il paese.

Un tribunale che accelera i tempi di soluzione delle controversie, un asilo nido che accoglie i bambini a tempo pieno e permette alle madri di non lasciare il lavoro, un sistema di telemedicina per gli anziani sono infrastruttura sociale. E investimenti come gli ultimi due citati hanno il grande pregio di contribuire alla riduzione dello squilibrio di genere, altro obiettivo che “ci chiede l’Europa”.

Ne viene fuori che, a mano a mano che si procede nella definizione del piano, i tanti “sì” popolari andranno specificati in modo che non sempre piacciono a tutti; e qualche “no” impopolare bisognerà dirlo. Parallelamente, c’è la questione della spesa corrente, che non è che scompare, anzi sarà sempre più necessaria per affrontare le emergenze e le diseguaglianze aggravate dalla pandemia.

Salario minimo e protezione universale
Da un lato, la gestione della fine – prima o poi – del blocco dei licenziamenti, che finora ha salvato i lavoratori italiani dalla catastrofe; dall’altro, l’allargamento delle tutele per coloro che sono stati protetti poco o male, o per niente. Il dualismo delle garanzie e del welfare è stato evidenziato dalla pandemia in misura socialmente ormai insopportabile. Per chi non pensa di risolverlo fomentando una guerra dei più poveri contro i meno poveri, si tratta di mettere mano a due temi che per molti sono tabù, come il salario minimo per chi lavora (peraltro chiesto da una direttiva europea) e una protezione universale per chi non lavora.

Il reddito di cittadinanza, che non è riuscito in quel che non poteva fare (cioè essere una misura di politica del lavoro), ha comunque ridotto la popolazione a rischio povertà, dal 27,3 al 25,6 per cento (Eurostat): si può partire da lì per depurarlo del peso burocratico di missioni impossibili, e riportarlo a quello che è, cioè una misura di welfare universale? Sono decisioni politiche, sulle quali è dubbio che uno schieramento che va da Liberi e uguali (Leu) alla Lega di Salvini possa reggere; e costose, per le quali una forma di finanziamento a carico di chi ha di più va introdotta.

Infine, anche la questione più “semplice”, garantire il vaccino a tutti, non è solo tecnica. Certo, si tratta di logistica, e di capacità delle amministrazioni di funzionare, ma stupisce che nella discussione di questi giorni nessuno metta in primo piano il vero fallimento nella gestione della pandemia, ossia il sistema regionale. Nessuno vede l’assurdità di un sistema nel quale se hai 81 anni nel Lazio sai già quando sarai vaccinato e dove, mentre in Lombardia no. E nessuno chiama alle loro responsabilità le classi dirigenti regionali che hanno sbagliato.

Ma oltre a questo non piccolo aspetto “italiano”, c’è quello internazionale, per cominciare europeo, dell’approvvigionamento dei vaccini: cioè, come garantire che si possa produrre la quantità di vaccini necessaria al mondo. Incidere sul sistema delle licenze, o sulla capacità produttiva, o su entrambi i fronti? La discussione è aperta negli organismi internazionali, nell’Organizzazione mondiale del commercio, nella Commissione europea: e in questo caso non è detto che la presenza di un tecnico che ha familiarità nel trattare con poteri economici a volte più forti degli stati non possa tornare utile.

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