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Senza la manodopera straniera il Regno Unito è in cortocircuito

Un allevamento di bovini a Rettendon, nel sudest dell’Inghilterra, 22 giugno 2021. (Chris Ratcliffe, Bloomberg/Getty Images)

C’è chi invoca l’intervento dell’esercito: almeno duemila autisti con le stellette, per sostituire i camionisti mancanti e portare rifornimenti alle catene di fast food. Chi chiede una revisione delle regole del dopo Brexit, per includere gli autisti dei tir tra i lavoratori altamente specializzati che possono entrare senza visto. Chi, dagli scranni del governo di Boris Johnson, si appella agli imprenditori perché assumano manodopera britannica. E chi già teme un Natale rovinato per scaffali vuoti o prezzi alle stelle (o entrambi).

Il doppio impatto del covid e della Brexit sta colpendo duro sui consumatori britannici, con una crisi di mezza estate esplosa sul trasporto delle merci, a partire da due beni di consumo quotidiano: polli e latte. Non è l’unico cortocircuito dell’economia postpandemica, che in tutto il mondo sta facendo saltare le catene del valore: dalla crisi dei microchip, che ha portato le principali case automobilistiche mondiali a chiusure temporanee delle fabbriche (in Italia, non riapriranno dopo le ferie gli stabilimenti di Sevel in Val di Sangro e di Stellantis a Melfi), al vertiginoso aumento dei prezzi del trasporto marittimo. Ma nel caso britannico, si aggiunge un terremoto sul mercato del lavoro, destinato a svuotare – insieme agli scaffali – molti luoghi comuni degli ultimi tempi.

Senza camionisti, polli e frullati
Le prime avvisaglie della crisi dei camionisti, nel Regno Unito, si sono manifestate all’inizio di luglio. La carenza di manodopera proveniente dai paesi dell’Europa dell’est ha fatto suonare l’allarme alle associazioni di settore e ha portato il governo, in un primo tempo, a permettere l’allungamento degli orari di lavoro. Un pannicello caldo, per un settore altamente deregolamentato, nel quale sfruttamento e autosfruttamento sono la norma e i turni già al limite della sopportazione fisica. In agosto, i primi effetti visibili, con i cartelli esposti fuori dai locali di Nando, la grande catena di fast food: chiusi in attesa di rifornimento. Carenza di polli.

A stretto giro, si è aggiunta McDonald’s, che ha dovuto togliere i frullati dai suoi menu per mancanza di latte: il 24 agosto ha annunciato che milkshake e bevande in bottiglia sono temporaneamente non disponibili nei ristoranti di Inghilterra, Scozia e Galles. Le catene di rifornimento di polli e latte sono tarate sul “just in time”, non possono fare affidamento su grandi volumi di scorte: fermi i camion, i fast food hanno dovuto semplicemente tagliare l’offerta.

Quel che sta succedendo è come un grande esperimento dal vivo sull’impatto della forza lavoro straniera sulle economie locali

Ma soffre tutta l’industria alimentare basata sul gigantismo di produzione e distribuzione: è di qualche giorno fa l’annuncio che 70mila maiali destinati al macello sono bloccati per mancanza di personale. Negli allevamenti e nella macellazione, la manodopera è prevalentemente straniera, e le nuove regole sull’immigrazione dovute alla Brexit, insieme alle più generali difficoltà di movimento per le restrizioni della pandemia, hanno portato a una sua forte riduzione.

Con la maggior parte delle famiglie in rientro dalle vacanze e la normale attività dell’autunno che si avvicina, molti temono che la crisi si allargherà a tutti i beni di importazione e alle produzioni in cui è alta la presenza di manodopera straniera, guastando il Natale ai britannici.

Come ha scritto sul Financial Times Sarah O’ Connor, gli oppositori della Brexit potrebbero cantare vittoria e gongolare: “Ve l’avevamo detto”. In effetti, quel che sta succedendo è come un grande esperimento dal vivo sull’impatto della forza lavoro straniera sulle economie locali: molti economisti hanno contestato, sulla base di modelli teorici o di verifiche empiriche, la teoria secondo cui “gli immigrati ci tolgono il lavoro”.

Uno dei casi storici più studiati è quello dell’arrivo dei marielitos, dal nome del porto cubano dal quale salparono 125mila cubani che nel 1980, improvvisamente, aumentarono la forza lavoro di Miami del 7 per cento: un afflusso improvviso e gigantesco, che però non ridusse né l’occupazione né i salari degli americani del posto. In quel caso, si dimostrò, più che la concorrenza al ribasso sull’offerta di lavoro prevalse l’effetto-domanda: vale a dire, gli immigrati si portano dietro famiglie e consumi, un’intera economia, dunque oltre a “togliere” lavoro ne creano anche. Ma cosa succede nel caso opposto? Ossia se improvvisamente gli immigrati spariscono da un mercato del lavoro già sofferente, con molte persone rimaste senza lavoro a causa della pandemia?

Una serie di incognite
La cronaca di questi giorni ci offre delle prime reazioni: gli imprenditori chiedono l’intervento del governo, per rilassare le regole, addirittura aiutare con l’esercito, e soprattutto spingono perché il Regno Unito riapra le porte ai lavoratori stranieri. Il governo guidato da Boris Johnson, ha sostenuto il sì al referendum, promosso la campagna per una Brexit dura segnata soprattutto dalla questione dell’immigrazione, vinto le elezioni su questo e firmato i protocolli finali con l’Unione europea.

Coerentemente, per ora il governo ha risposto picche e ha chiesto agli industriali di affrontare la crisi dei camionisti all’insegna dello slogan “british first”: assumete i britannici, ha scritto il segretario di stato per gli affari economici Kwasi Kwarteng in una lettera indirizzata alle associazioni degli imprenditori. Nella missiva, Kwarteng (londinese, figlio di immigrati dal Ghana) dice agli industriali che riaprire le frontiere ai lavoratori immigrati sarebbe una soluzione di breve termine, mentre invece il modo migliore per affrontare la crisi è assumere manodopera locale, tanto più che a fine settembre scadranno i sussidi ai disoccupati che hanno perso il lavoro per la pandemia e ci sarà molta gente in cerca di lavoro; se non sanno o non vogliono fare i lavori richiesti, dice Kwarteng agli industriali, formateli, pagateli di più e migliorate le condizioni di lavoro. Le lobby degli industriali hanno risposto che il reclutamento di manodopera britannica richiede tempo, e non può risolvere la grave emergenza nell’immediato. Intanto, in ordine sparso molte catene si sono affrettate a offrire paghe più alte a chiunque voglia e possa mettersi alla guida di un camion.

Tutto ciò apre una serie di altre incognite. La prima è l’impatto sui prezzi. Gli industriali hanno già fatto sapere che una “inflazione alimentare” è alle porte, se salgono i salari e si riducono gli orari, con i prezzi di cibo e bevande che potrebbero salire tra il 6 e il 9 per cento in autunno. La seconda è cosa faranno i lavoratori e le lavoratrici britanniche. Il mercato del lavoro è in forte cambiamento: è vero che c’è molta disoccupazione, ma è anche vero che molti si stanno guardando intorno, ci sono settori nuovi che assumono – tutti quelli legati all’online – e lo smart working sta ridisegnando tutto il mercato e le città. La terza è: cosa farà il campo progressista, Partito laburista e sindacati?

L’oppositore progressista della Brexit a questo punto potrebbe dover abbassare il suo canto di vittoria. È vero, la crisi dei camionisti evidenzia le bugie della Brexit e delle politiche antimmigrazione; alla fine, a essere colpiti dagli effetti della cacciata dei lavoratori stranieri a basso costo sono proprio coloro che hanno poco da spendere in beni di consumo, dato che i prezzi bassi sono possibili (anche) grazie ai camionisti dell’est. Ma la stessa crisi mette in luce pure l’insostenibilità di questo modello, fondato su un mercato del lavoro “guasto” (parole del capitalista Financial Times).

Se nel Regno Unito mancano almeno centomila camionisti, e quelli che ci sono hanno un’età media crescente, è perché paghe troppo basse e turni massacranti possono aver indotto una “fuga” anche prima della Brexit e del covid – che, certo, hanno aggravato la situazione.

Oltre a mostrare che le rivendicazioni economiche antimmigrazione possono avere un effetto boomerang, quel che sta succedendo svela il paradosso di un mercato del lavoro nel quale l’essenziale è invisibile; professioni cruciali per la tenuta delle catene produttive e distributive sono nascoste e mal pagate. Adesso sono diventate visibili, per assenza. E questo ci pone dilemmi che vanno ben oltre la mancanza del pollo nei nostri panini.

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