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In volo con due piloti dell’Alitalia per capire il futuro dell’azienda

Personale Alitalia durante la presentazione del nuovo marchio dell’azienda all’aeroporto Leonardo Da Vinci, Fiumicino, 2015. (Matteo Minnella, OneShot)

Planando su Cagliari in una limpida mattina di metà estate, la spiaggia del Poetto si mostra in tutta la sua bellezza. Visto che il cielo è terso e non c’è vento, i piloti del volo Alitalia partito da Fiumicino alle 7.10 decidono di accorciare la rotta, regalandosi quella vista. A bordo l’atmosfera è rilassata, l’aereo è per metà vuoto e, prima di cominciare la discesa, le hostess offrono a tutti una bevanda e uno snack. Un gruppo di turisti del Nordeuropa guarda il panorama dai finestrini alla loro destra.

Quando sono salito a bordo, alle 6.45, i due piloti non avevano ancora finito i preparativi per la partenza. Ho chiesto di accompagnarli in una delle loro tante tappe quotidiane per cercare di capire cosa significa lavorare per l’Alitalia e quali sono i problemi della compagnia. Hanno preferito non rivelare i loro nomi, ma mi hanno raccontato molto di sé e dell’azienda.

In cabina hanno controllato il quaderno di bordo per verificare se erano stati segnalati piccoli guasti, hanno programmato la navigazione e hanno aspettato che il computer di bordo indicasse la rotta, la velocità di crociera, il tempo di volo e il carburante necessario. Poi hanno dato un’occhiata alle condizioni meteorologiche del viaggio e visto che non erano previsti temporali, perturbazioni, vento o nebbia che potessero costringerli a girare in tondo sull’aeroporto prima di atterrare, hanno deciso di viaggiare con il minimo carburante previsto.

I cieli sono affollati come un’autostrada in un’ora di punta

Dopo questi passaggi, il personale di terra ha avvisato che non c’erano persone a cui serviva un’assistenza speciale e l’agente di rampa ha escluso problemi di bilanciamento. “Se i passeggeri e i bagagli si trovano tutti nella parte anteriore l’aereo potrebbe non alzarsi in volo, se invece sono tutti in fondo potrebbe impennarsi”, mi hanno spiegato i piloti mentre eseguivano gli ultimi controlli. Finita la preparazione, hanno stabilito la velocità di decollo. L’Airbus A330 del 1995, uno dei più vecchi in servizio in una flotta la cui età media dei velivoli è di tredici anni, non ha il tradizionale manubrio ma una cloche. Il comandante lo guida con una mano sola, come in un videogioco.

Durante il viaggio di andata, durato poco più di un’ora, ho scoperto che i cieli sono affollati come un’autostrada in un’ora di punta. La distanza minima tra un aereo e l’altro è di cinque miglia nautiche – circa otto chilometri da ogni lato – e di mille piedi – più o meno 300 metri – in verticale, distanze che due aerei in volo a 850 chilometri all’ora potrebbero impiegare venti secondi a percorrere. Quando il cielo è terso dalla cabina si può vedere chi è davanti e chi arriva di fronte, ma è solo osservando il radar di bordo che si percepisce davvero quanto traffico ci sia.

Fallimenti e salvataggi di stato
Da settimane sulle prime pagine dei quotidiani campeggiano titoli sul nuovo assetto dell’azienda e in quelle interne si forniscono indiscrezioni sul piano industriale. Il consiglio d’amministrazione delle Ferrovie dello stato ha bocciato le manifestazioni d’interesse della Toto Holdings; di Claudio Lotito, presidente della squadra di calcio della Lazio; e di Germán Efromovich, a capo della compagnia colombiana Avianca e già coinvolto nella bancarotta di Avianca Brasil.

A sorpresa le Ferrovie, a cui il governo aveva affidato il futuro dell’Alitalia, hanno scelto come partner il gruppo Atlantia – controllato dalla famiglia Benetton e concessionario dell’azienda Autostrade per l’Italia – finito nel mirino del governo M5s-Lega per non aver saputo evitare il crollo del ponte Morandi a Genova. L’azienda della famiglia Benetton, che gestisce anche gli Aeroporti di Roma, dovrebbe aggiungersi all’americana Delta airlines e al ministero dell’economia, tutti con il 15 per cento. Solo le Ferrovie avrebbero un 35 per cento per garantire – insieme alla quota in mano al governo – un controllo forte dello stato. Nonché una sorta di rinazionalizzazione a metà della compagnia di bandiera, o meglio: un salvataggio pubblico, il terzo in appena dieci anni. I giornali riportavano il commento favorevole dell’Associazione nazionale piloti (Anp), mentre il segretario della Filt-Cgil Fabrizio Cuscito chiedeva “un piano di investimenti”.

Ma nei cinque metri per due della cabina di pilotaggio dell’Airbus diretto da Roma a Cagliari serpeggia una palese inquietudine. Uno dei due piloti, il più giovane, è preoccupato per la sorte di Alitalia, mentre il collega più grande s’immagina già in prepensionamento. “Negli ultimi dieci anni ogni passaggio di proprietà si è tradotto in riduzioni di personale e di voli. C’è il rischio che succeda anche stavolta”, affermano all’unisono rievocando le diverse tappe della crisi dell’Alitalia.

Nel 2008 per sbarrare la strada a un’acquisizione francese – “se Alitalia cadesse nelle mani di Air France tanti turisti finirebbero a visitare i castelli della Loira invece che le nostre città d’arte”, affermò Silvio Berlusconi – l’allora presidente del consiglio chiamò in soccorso dei “capitani coraggiosi” che mandarono a casa 7mila lavoratori.

I debiti furono lasciati alla vecchia compagnia in liquidazione e fu costituita una nuova società, la Compagnia aerea italiana (Cai), dove entrarono come azionisti alcuni personaggi noti del capitalismo italiano, da Roberto Colaninno – che ne diventò presidente – ai Ligresti, dai Benetton a Caltagirone, da Marco Tronchetti Provera al gruppo Toto, che portò in dote la sua Air One, anche questa in difficoltà finanziarie.

Per riempire le casse vuote, il governo ci mise 300 milioni di euro, elargiti sotto forma di un prestito, che non è mai stato restituito, alla vecchia compagnia. Anche i sette anni di cassa integrazione furono addossati alla bad company. L’Air France, che aveva presentato un piano con 2.100 licenziamenti, fu messa alla porta.

Nel 2014, con perdite superiori a un milione e mezzo al giorno e il fallimento sempre più vicino, l’azienda è finita nelle mani della Etihad, la compagnia di bandiera degli Emirati Arabi Uniti. L’amministratore delegato James Hogan si è presentato con uno slogan accattivante: fare dell’Alitalia “la compagnia più sexy d’Europa”. Ma nei successivi tre anni la quota di mercato della compagnia di bandiera in Europa non ha superato la soglia del due per cento, e in Italia l’azienda si è fatta scavalcare da EasyJet e RyanAir. Hogan è stato mandato via e il nuovo amministratore delegato Cramer Ball nel marzo 2017 ha proposto un piano di risanamento che prevedeva una riduzione di costi per un miliardo e ulteriori duemila licenziamenti. Questa volta, però, i lavoratori si sono opposti e hanno bocciato la proposta con un referendum interno, spianando la strada al commissariamento dell’azienda.

Un’assistente di volo a bordo di un aereo Alitalia, Fiumicino, 2015.

Così, nel maggio del 2017 il ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda ha nominato commissari l’allora amministratore straordinario dell’Ilva di Taranto, Enrico Laghi; l’ex presidente della Rai ai tempi del governo Monti, Stefano Gubitosi; e Luigi Paleari, numero uno dello Human Technopole, il centro di ricerca interdisciplinare sul cancro e sulle malattie neurodegenerative nato nell’area dell’Expo a Milano. Il governo guidato da Paolo Gentiloni ha garantito inoltre un finanziamento di 900 milioni per evitare che gli aerei rimanessero a terra senza benzina. Il secondo salvataggio di stato dopo quello dei “capitani coraggiosi” ha consentito di evitare che la compagnia affondasse.

Negli ultimi due anni, i commissari hanno riportato i ricavi sopra i tre miliardi di euro all’anno, trasportando 21,3 milioni di passeggeri nel 2018, ma non sono riusciti a far andare i conti in attivo. Ora la consegneranno ai nuovi padroni con 486 milioni di liquidità, i 900 milioni del prestito da restituire e 500 milioni di disavanzo.

Precariato
Tra i tanti tagli di cui si è letto sui giornali ci sono quelli al personale (740 esuberi), alla flotta (con una riduzione degli aerei da 118 a 102) e alle tratte intercontinentali, da cedere alla Delta Airlines. I piloti dovrebbero subire un taglio del 5 per cento al salario: da 138 mila a 131 mila euro lordi. L’equipaggio dell’Airbus A330 con cui viaggio verso Cagliari sorride parlando di quelle cifre.

Dopo l’atterraggio, durante la pausa nello scalo cagliaritano, il più giovane mi spiega che le retribuzioni variano di molto e che quello citato dai giornali, corrispondente a 8.500 euro netti al mese, è il compenso massimo di un comandante a fine carriera. La paga base dei piloti dell’Alitalia – 1.400 su un totale di 11.500 dipendenti – è compresa tra i 1.700 e i 3.500 euro netti al mese. A questi soldi si possono aggiungere poi degli extra, come i 42 euro di diaria per le spese di pranzo e cena, su cui non si versano i contributi per la pensione. Il tutto per un lavoro che secondo la legge è da considerare usurante. Inoltre, bisogna considerare che la formazione – fatta dalle scuole di volo approvate dall’Enac o dal corso dell’Alitalia, che offre un canale privilegiato per l’assunzione – costa 130mila euro e “devi pagartela tu, direttamente o facendo un mutuo da restituire con trattenute sugli stipendi”, chiarisce il pilota più giovane.

Il problema è che, come in altri settori, i salari sono in continua erosione e a farne le spese sono, come al solito, i più giovani. I piloti assunti dalla CityLiner – la compagnia low cost dell’Alitalia che gestisce i voli regionali – cominciano con uno stipendio base di 550 euro lordi, a cui vanno aggiunti 500 euro di rimborsi per i pasti e i trasporti, più un bonus orario di sei euro per chi supera le trenta ore di volo al mese.

Il trattamento e le garanzie offerte sono migliori rispetto a quelli di compagnie come la Volotea o la Ryanair, dove gran parte dei piloti è assunta con contratti a termine attraverso agenzie interinali, ma le condizioni sono meno vantaggiose di quelle delle altre compagnie di bandiera o della EasyJet.

Il mercato dei piloti è florido, una stima della Boeing ha previsto una domanda di 637mila piloti in più nei prossimi vent’anni, il numero dei passeggeri cresce a una media del 5 per cento all’anno e per un pilota esperto non è difficile ricollocarsi. Per questo nel 2018 duecento piloti hanno deciso di lasciare l’Alitalia, accettando offerte più vantaggiose all’estero, e la compagnia di bandiera è stata costretta a chiedere soccorso all’Aeronautica militare, storico serbatoio di piloti per l’azienda e un tempo principale canale d’accesso alla professione.

Albe, fusi orari e fatica
I piloti con cui parlo non si lamentano né del trattamento economico né dei possibili tagli allo stipendio. Piuttosto mi dicono di aver paura del progressivo ridimensionamento della compagnia e del peggioramento delle condizioni di lavoro.

Quando li ho incontrati, prima di decollare per Cagliari, si erano alzati alle 4 ed erano arrivati in macchina a Fiumicino: uno ci ha messo mezz’ora senza traffico, l’altro quarantacinque minuti. Al parcheggio dell’aeroporto hanno preso una navetta che, impiegando un’altra mezz’ora, li ha portati allo scalo e infine sono saliti sull’aereo. È un bel tragitto per chi poi deve pilotare un aereo, anche se è peggio al rientro, “quando sei stanco dopo ore di volo e devi metterti alla guida nel traffico della capitale”, affermano concordi. “Non dovrei dirlo, ma spesso riesco a rilassarmi solo quando sono in cielo”, mi dice il pilota più giovane.

Il turno peggiore, mi spiegano, è quello che prevede quattro tratte regionali in una giornata: questo significa non solo altrettanti decolli e atterraggi, ma la solita trafila di preparazione del volo e controlli, a cui vanno aggiunte le attese in aeroporto e gli spostamenti da casa o dagli hotel, che a volte sono lontani dallo scalo. “A Lamezia l’albero si trova sull’autostrada, a Milano è in tangenziale, a Bari e Torino invece alloggiamo in centro”, prosegue il più giovane.

Durante i preparativi per la partenza del viaggio di ritorno, i due piloti squadernano una lunga serie di lagnanze. Al mattino la sveglia è spesso prima dell’alba, anche per più giorni di fila, mentre qualche giorno si finisce per pranzare o cenare a bordo. “Se decolli alle 15 finisci di lavorare alle 23, e sei in albergo a mezzanotte e mezza”, dice il pilota più anziano.

Il “turno choc”, secondo il più giovane, è invece quello in cui per tre giorni di fila non ti svegli mai alla stessa ora e “vivi con un continuo jet lag”. Quando voli da Roma al Cairo perdi l’intera notte, e ancora peggio succede per la tratta Roma-Algeri: partenza alle 21, arrivo previsto alle 22,10 ora locale, ripartenza alle 4,25 “con una sosta troppo lunga per rimanere in aeroporto di notte e troppo breve per avere il tempo di riposare davvero in albergo”, si lamenta. Lui di solito preferisce aspettare nello scalo invece di fare ulteriori spostamenti.

Il contratto prevede dieci giorni di riposo al mese, otto fissi e due che l’azienda può spostare “per esigenze di servizio”. I turni sono generalmente di cinque giorni, ai quali seguono quattro o tre di riposo. “Un pilota non può organizzarsi la vita, durante i turni non torna a dormire a casa e se nei weekend è di riserva non può andare da nessuna parte”, mi spiega uno dei due prima di ripartire per Roma. Non tutte le compagnie gestiscono l’attività allo stesso modo. La RyanAir e la EasyJet hanno dei turni molto rigidi, la seconda ogni sera fa tornare i piloti a dormire a casa; mentre alla Blue Panorama il giorno di riposo è la domenica, ma può essere sempre revocato dall’azienda e spostato in un altro giorno della settimana.

Non va meglio per i voli a lungo raggio, dove si rimane in aereo anche dodici o tredici ore di seguito. Un pilota esperto di tratte intercontinentali – anche lui ha accettato di parlare, ma anonimamente – racconta cosa può succedere: “Parti per New York, una volta che sei atterrato hai giusto il tempo per mangiare e dormire, poi riparti, arrivi a Roma con il jet lag e due giorni dopo riparti per Tokyo, attraversando così tutti i fusi orari in pochissimi giorni”.

Il turno più temibile è però quello diretto ad Amman, in Giordania. Lo riassume così: “Mi sveglio la mattina per portare i figli a scuola, nel pomeriggio cerco di fare un riposino in vista della partenza serale ma difficilmente riesco a dormire a comando, anche perché non posso prendere nulla per addormentarmi, neppure la comune melatonina, che ai piloti è vietata. Devo trovarmi in aeroporto alle 21.30, perciò ceno a casa ed esco alle 20.45. Parto alle 22.40, atterro alle 3.10 ad Amman, alle 4.20 riparto e sono a Roma alle 7, dove riprendo la mia vita normale. La sera, diminuita l’adrenalina che mi ha sorretto la notte precedente, sono spento”.

La patologia medica più comune tra i piloti è la fatigue. Indica uno stato di affaticamento legato all’accumulo di cicli circadiani interrotti. Quando un pilota si sente troppo stanco può comunicare in qualsiasi momento all’azienda di essere unfit to fly (non idoneo a volare), e rimanere a riposo per quel turno. Dovrà solo motivare, entro 24 ore, le ragioni della sua richiesta.

Dopo una sosta di un’ora a Cagliari rientriamo a Roma. Scesi dall’aereo alle 10.20, entrambi i piloti aspetteranno due ore a Fiumicino prima di imbarcarsi su un altro aereo diretto a Catania, dove arriveranno nel primissimo pomeriggio. Lì, finito il turno, andranno in albergo a riposare. La mattina dopo voleranno da Catania a Roma e da qui partiranno per Atene. Nella capitale greca raggiungeranno un altro albergo per riposare. Alle 2 di notte si sveglieranno, andranno in aeroporto con un pulmino e si rimetteranno di nuovo in viaggio.

Tornati a Roma a mezzogiorno, prenderanno le loro auto e si immergeranno nel traffico della capitale per arrivare il prima possibile a casa dopo due giorni di assenza. Prima di lasciarmi, sintetizzano così il loro lavoro: “Poche ore di sonno, tante di servizio”.

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