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Non c’è posto per la cultura nella campagna elettorale a Roma

Davanti al teatro India, Roma, 18 settembre 2021. (Kimberley Ross per Internazionale)

“Come è triste la prudenza”: era la scritta su uno degli striscioni che un gruppo di lavoratrici e lavoratori dello spettacolo portarono all’interno del teatro Valle, uno dei più antichi teatri di Roma, dieci anni fa, il 14 giugno 2011, quando decisero di occuparlo per salvarlo dalla chiusura e dall’abbandono e per denunciare l’assenza di politiche culturali di lungo respiro nella capitale e nel paese. L’occupazione del teatro doveva durare tre giorni invece andò avanti per tre anni. Tutto era cominciato con la dismissione da parte dell’Eti, l’Ente teatrale italiano, in favore di privati e l’annuncio dei tagli al Fus, il Fondo unico per lo spettacolo.

I lavoratori dello spettacolo volevano denunciare la mancanza di finanziamenti adeguati per il cinema, per il teatro e per le arti in generale, le difficoltà di accesso ai fondi, la precarietà dei lavori legati allo spettacolo, la discontinuità di quel tipo di contratti, l’assenza di un reddito di base o di intermittenza e la progressiva chiusura degli spazi culturali nella capitale. “Questa chiusura c’è tutt’ora, anzi ora è stata accelerata per via della pandemia”, spiega Benedetta Cappon, una delle occupanti del Valle. “Quest’anno molti di quelli che dieci anni fa occuparono il Valle hanno occupato il Globe theatre di villa Borghese per chiedere misure di sostegno ai lavoratori dello spettacolo dopo la crisi sanitaria”, spiega Cappon.

All’epoca gli occupanti chiedevano che non si lasciasse in uno stato di abbandono uno dei teatri più antichi di Roma, all’interno di palazzo Capranica, dove era andata in scena nel 1924 la prima di Sei personaggi in cerca di autore, di Luigi Pirandello. “Una nazione civile di questo teatro ne avrebbe fatto un monumento nazionale”, aveva detto Andrea Camilleri, commentando l’occupazione. Lo slogan del Valle era: “Un teatro vivo, in un paese vivo”. “Ci incontrammo a largo Argentina ‘vestiti’ da turisti, poi grazie al custode del teatro entrammo, salimmo sul palco, fu una grande emozione”, ricorda Cappon. In quei giorni c’era stato un referendum molto partecipato che chiedeva di non privatizzare i beni comuni come l’acqua e quella riflessione sui beni comuni fu uno dei cardini delle attività del teatro occupato che per anni fu attraversato da esperienze diverse, laboratori, dibattiti, sperimentazioni.

Spazi abbandonati
Le contingenze internazionali erano favorevoli: c’erano state le primavere arabe nei primi mesi del 2011. Da Tunisi al Cairo, fino a Gezi Park, in Turchia, i giovani scendevano in piazza per chiedere libertà e democrazia; a Madrid migliaia di giovani avevano occupato la Puerta del Sol e negli Stati Uniti gli attivisti si erano accampati a Zuccotti park, dando vita al movimento Occupy Wall street, con l’obiettivo di chiedere conto della crisi economica a quelli che l’avevano creata. “Gestivamo il teatro Valle attingendo a tutta la riflessione di quegli anni sui beni comuni: ci sembrava che i beni artistici, gli spazi culturali andassero gestiti per il loro valore sociale e non in base alla proprietà”, spiega Cappon. L’11 agosto 2014 dopo un lungo negoziato finì l’occupazione e il teatro fu restituito al Teatro di Roma, che aveva preso l’impegno di restaurarlo e di rimetterlo in funzione.

Il Maxxi, Roma, 17 settembre 2021.

Ma dieci anni dopo il teatro è ancora chiuso, ha cambiato nome: ora è il Teatro Franca Valeri, in onore dell’attrice italiana che aveva tra l’altro seguito e appoggiato l’occupazione del Valle. Ma come tanti altri spazi culturali a Roma, dopo il restauro è stato aperto sporadicamente, solo per delle mostre o delle attività temporanee. “Sicuramente l’occupazione di dieci anni fa impedì che il teatro fosse privatizzato, ma purtroppo non riuscì a imporre che fosse intrapreso un percorso di gestione condivisa e partecipata dello spazio”, conclude Cappon, che continua a lavorare nel mondo dello spettacolo. Il vecchio teatro del quartiere Sant’Eustachio non è l’unico a essere stato chiuso negli ultimi anni: gli spazi culturali che hanno avuto una sorte simile sono molti. E di loro non si parla nella debolissima campagna elettorale per le amministrative della capitale.

L’ultimo in ordine di tempo è stato il cinema Palazzo, a San Lorenzo, sgomberato nel pieno della pandemia, il 25 novembre 2020. Per fermare lo sgombero non è servita l’iniziativa che era stata attivata nell’ottobre del 2019, affinché il municipio acquisisse la struttura. Il cinema era stato occupato per salvarlo da una speculazione edilizia che lo voleva trasformare prima in una sala bingo poi in un casinò. Ma per quasi dieci anni ha offerto iniziative culturali, festival, proiezioni cinematografiche, mostre, dibattiti. “A Roma le occupazioni abusive non sono tollerate. Torna la legalità”, aveva commentato la sindaca Virginia Raggi poche ore dopo il blitz che aveva messo i sigilli al cinema Palazzo. Ma qualche mese dopo Raggi ha fatto marcia indietro, manifestando alla proprietà l’interesse ad acquistare il cinema per restituirlo alla città.

Il Maam, museo dell’altro e dell’altrove, Roma, 18 settembre 2021.

La lista degli spazi culturali chiusi o sgomberati negli ultimi anni nella capitale è lunga: c’è il Rialto al ghetto, il cinema Astra nel terzo municipio, il cinema Horus. Dopo lo sgombero, sono rimasti vuoti e in uno stato di abbandono. Il Brancaleone di via Levanna, nato nel 1996 come centro sociale, era stato dato in concessione agli occupanti, ma vent’anni dopo era stato messo sotto sequestro perché accusato di morosità in seguito all’applicazione della delibera 140, quella sul riordino del patrimonio capitolino, che ha portato alla chiusura di molte altre realtà nella capitale. Il tribunale del riesame nel 2016 aveva dato ragione agli occupanti, ma il centro sociale è rimasto chiuso per le lentezze burocratiche fino al 2019, quando è stato restituito al gruppo di attivisti che lo gestisce.

Secondo la rete Reter, che ha compilato una mappa online, sono stati almeno 35 gli sgomberi di spazi sociali eseguiti dal comune tra il 2016 e il 2017, senza una valutazione del loro valore sociale. “Il sospetto, corroborato dall’analisi degli elenchi degli immobili di proprietà comunale, in cui molti stabili sono letteralmente spariti, è che si voglia svuotare gli spazi per riclassificare i beni da patrimonio indisponibile (e non alienabile) a patrimonio disponibile da mettere a bilancio”, scrivono gli attivisti. E al di là degli spazi occupati, Roma non sembra più puntare sulla cultura e neppure sugli eventi, come era avvenuto invece negli anni ottanta, quando assessore alla cultura era Renato Nicolini, e in uno spirito diverso con le giunte degli anni duemila, che hanno impresso dei cambiamenti urbanistici importanti alla città, come la costruzione di poli culturali di rilievo come l’Auditorium, il Maxxi, il Macro, la riqualificazione di diversi spazi come l’ex Mattatoio a Ostiense e il Teatro India. L’idea era che Roma vivesse anche della sua immagine, del rapporto con la sua rappresentazione, ma quel momento sembra ormai tramontato.

Nessun programma
I candidati che si sfidano per le amministrative per guidare la città non citano quasi mai la questione nei loro programmi: la sindaca uscente, che dedica molto spazio all’ambiente, ai trasporti e ai rifiuti si limita a menzionare il sostegno “ai musei di comunità”, la creazione di nuove formule museali e “la rigenerazione urbana con progettualità culturali di comunità”. Lo sfidante del Partito democratico, Roberto Gualtieri, è quello che dà più spazio alla questione, ma in termini molto generici: parla di creazione del consiglio della cultura di Roma, del completamento del polo delle arti all’Ex mattatoio, vuole rilanciare Cinecittà, sostenere le librerie indipendenti, valorizzare l’Estate romana e il Tevere, istituire il museo della Storia di Roma e come sede indica l’edificio comunale dell’ex pastificio Pantanella a via dei Cerchi.

Il centro sociale Brancaleone, Roma, 19 settembre 2021.

Anche Carlo Calenda dedica più spazio nel suo programma alla questione, ma anche lui è molto vago: pensa di “riformare la governance della cultura, assumere più giovani, organizzare festival diffusi in città, decentrare l’offerta culturale della città, incentivare progetti di street art, promuovere le notti bianche della cultura e le feste di quartiere culturali”. Invece nel programma di Enrico Michetti, candidato del centrodestra, la questione è assente, si fa soltanto riferimento alle feste di piazza: “A Natale sarà rilanciata la festa della Befana a piazza Navona”, poi si festeggerebbe il carnevale romano e verrà organizzata la festa della luce l’8 settembre.

Raggi e Michetti parlano esplicitamente di sgomberi nel loro programma. La città immaginata dai candidati sindaco non punta su progetti culturali, come invece era avvenuto in passato, ma non è neanche capace di valorizzare le esperienze di autogoverno che come funghi sono nate nel corso degli anni sul territorio per riempire i vuoti lasciati dalla politica. A Roma è come se ci fosse una città nella città che in parte dialoga con le istituzioni, in parte ne fa le veci e in piccolissima parte ci entra in conflitto. Ma in ogni caso le istituzioni sono così poco in relazione con queste realtà che al massimo immaginano nei loro programmi di aprire delle case della cultura in cui fare dialogare le diverse associazioni.

Infine c’è un’altra questione storica che non è affrontata dai candidati sindaco: la distribuzione disuguale all’interno delle diverse zone della città di cinema, teatri, spazi culturali e biblioteche. Il centro storico e i quartieri semicentrali rimangono i beneficiari dell’offerta culturale romana, mentre la gran parte delle aree periferiche della città è priva di spazi.

L’Auditorium parco della musica, Roma, 22 settembre 2021.

Come hanno ricostruito Keti Lelo, Federico Tomassi e Salvatore Monni nel libro Le mappe della disuguaglianza “l’offerta culturale di cinema, teatri e biblioteche è massima in molti quartieri centrali, che superano la soglia di una struttura ogni mille abitanti (centro storico, Trastevere, Testaccio, XX Settembre, Celio)”. I valori sono elevati nelle zone universitarie (San Lorenzo, Ostiense e Giardinetti-Tor Vergata), in altre zone benestanti della città come Aventino, Prati, Flaminio, Parioli, Salario e Appia antica nord.

“Appare invece grave che in molti quartieri non esista nessuna delle tre strutture considerate: si tratta di aree soprattutto a ridosso o esterne al grande raccordo anulare (solo per citarne alcune Fidene, Serpentara, Settebagni, Settecamini, La Rustica, Torre Maura, Morena, Mezzocamino, Vallerano-Castel di Leva, Malafede, Acilia Nord, Ponte Galeria, Casalotti, Ottavia, Prima Porta, La Storta), ma anche di quartieri della periferia storica (Conca d’Oro, Casal Bertone, Pietralata, Casilino, Valco San Paolo, Pian Due Torri) e persino di aree benestanti come Medaglie d’Oro, Infernetto e Acquatraversa”, scrivono.

Per far fronte a questo squilibrio, l’assessore alla cultura del terzo municipio Christian Raimo, scrittore e insegnante, autore del libro Roma non è eterna, quando è stato nominato nel 2018 ha promosso un’iniziativa di cultura partecipata chiamata Grande come una città, seguendo i princìpi che lui stesso definisce di “pedagogia pubblica”. “La prima iniziativa che ho promosso nel 2018 è stata una lezione del linguista Luca Serianni alla fermata della metropolitana, a cui hanno partecipato in pieno agosto centinaia di persone”, racconta.

“A quel punto, anche sulla scorta dell’esperienza del Valle, abbiamo pensato di promuovere un’assemblea permanente in cui i cittadini stessi potessero proporre temi e iniziative culturali: la risposta è stata straordinaria”, continua l’assessore. “Da quel momento sono state organizzate centinaia di iniziative nel municipio e a partire da quegli eventi sono nati molti gruppi di lavoro, un collettivo femminista, un gruppo di lettura, fino a un’iniziativa di portierato sociale”.

Per Raimo, sono necessari soldi e spazi per rilanciare la cultura a Roma. Ma non è soltanto una questione di finanziamenti, né si tratta solo di mettere in rete quello che già c’è. È necessario invece coinvolgere i cittadini nella costruzione della programmazione culturale a partire dal territorio e dalle sue esigenze. “‘La cultura non può essere un elemento di distinzione deve essere un elemento di emancipazione’, diceva il sociologo Pierre Bourdieu. A partire dall’esperienza di Grande come una città, credo che sia fallimentare pensare qualsiasi iniziativa culturale che non sia concepita insieme ai cittadini. Inutile pensare che siano solo dei fruitori o semplice pubblico, è necessario che siano invece coinvolti anche nelle decisioni, nella programmazione, in quello che definirei attivismo culturale”, conclude Raimo. Ma l’impressione è che la pandemia abbia contribuito a considerare la cultura un tema secondario, quando invece sarebbe proprio un investimento sull’immaginario ad aprire delle possibilità di rinascita dopo la crisi.

Da sapere
Le elezioni a Roma
  • Le elezioni amministrative a Roma sono in programma domenica 3 e lunedì 4 ottobre 2021.
  • I seggi saranno aperti dalle 7 alle 23 di domenica e dalle 7 alle 15 di lunedì.
  • Sono 21 i candidati sindaco che si sfideranno per il Campidoglio, con quattro favoriti: Enrico Michetti, Roberto Gualtieri, la sindaca uscente Virginia Raggi e Carlo Calenda.
  • Secondo gli ultimi sondaggi nessun candidato riuscirà a superare la soglia del 50 per cento più uno dei voti e quindi sarà necessario il secondo turno.
  • L’eventuale ballottaggio è previsto per domenica 17 e lunedì 18 ottobre.
  • Il 3-4 ottobre si rinnovano anche le giunte dei 15 municipi della capitale.

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