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Kiev si prepara all’assedio

Nei vagoni della metropolitana di Kiev, Ucraina, 12 marzo 2022.

La Bielorussia è pronta a invadere l’Ucraina, Putin sta reclutando mercenari stranieri in Siria e in tutto il Medio Oriente per combattere nel paese, le truppe russe si sono disperse nella foresta intorno alla capitale e sono pronte ad attaccare da tutte le direzioni.

Le notizie si rincorrono nella notte di Kiev, si fa fatica a verificarle. Si diffondono soprattuto nei gruppi di Telegram a cui è iscritta la maggior parte degli ucraini. Intanto le sirene suonano di continuo, sono allarmi che si fanno via via più intensi, hanno lo scopo di avvertire le persone che ci potrebbe essere un bombardamento aereo o un attacco missilistico.

Dovrebbero servire a spingere chi è ai piani alti di un palazzo o per strada a cercare rifugio in uno scantinato o in qualche bunker, ma dopo più di due settimane di guerra, nessuno si mette a correre quando a orari imprevedibili si attivano quei suoni metallici. Anche la guerra ha le sue routine: a Kiev per evitare di fare su e giù dai rifugi di notte sono in molti ad avere deciso di trasferirsi nei sotterranei.

Le cantine, i garage, le stazioni della metropolitana sono diventate una città parallela: in superficie la capitale ucraina è semideserta, i negozi chiusi, tutte le attività sospese, il coprifuoco dalle cinque del pomeriggio alle sette di mattina. La vita si è nascosta sotto terra. Mentre più della metà della popolazione se n’è andata, l’altra metà si è trasferita nel sottosuolo.

Uno degli effetti della guerra è la scomparsa dei bambini: la maggior parte è emigrata con le madri e le nonne. Gli altri sono nei rifugi

Katarina Dikoriuk è un’insegnante di economia dell’università di Kiev e con la figlia Tania di cinque anni e la bassotta Agata dorme da giorni nella stazione della metropolitana del Palazzo delle arti della città. Tra due piloni ha montato una tenda, gonfiato un materasso da campeggio, sistemato le riserve di cibo e di acqua. C’è perfino un vaso di fiori in mezzo alla tavola, per rendere l’alloggio sotterraneo più simile a una casa vera.

Mentre Tania gioca con il cane, vestita con una tuta da sci, Katarina spiega che i sotterranei della metro sono gli unici posti caldi e sicuri nella città e che solo in questo modo per loro è possibile continuare a vivere senza impazzire. Ma come ci si può preparare a un assedio? “Se vogliono prendere Kiev, prima ci dovranno uccidere tutti”, dice la donna con un’espressione dura.

Le immagini di altre città ucraine che a partire dal 24 febbraio sono state colpite da pesanti bombardamenti russi come Charkiv o che sono sotto assedio come Mariupol agiscono come fantasmi nella mente di molti abitanti di Kiev, che temono di andare incontro a un destino simile. “Vinceremo”, si ripetono. “Vinceremo”, ripete il presidente Volodomyr Zelenskyj parlando ogni giorno in tv. Ma la paura si è presa la parte più grossa dei loro pensieri: “Quando sei spaventato non hai più tempo per pensare”. Tutto si riduce a una reazione, il disperato tentativo di sopravvivere.

Uno degli effetti della guerra sulla città è la scomparsa dei bambini: la maggior parte di loro è emigrata insieme alle madri e alle nonne. Quelli che sono ancora in città sono tenuti il più possibile al riparo dalla guerra, nei rifugi. “Tania non esce mai da qui sotto, ci sono anche alcuni dei suoi amici che si sono trasferiti”, racconta Katarina. Gli adulti escono per andare a fare la spesa, per lavorare e qualche volta tornano a casa per farsi la doccia e cambiarsi.

Invece i bambini dal rifugio non escono quasi mai. Katarina non se l’è sentita di lasciare la famiglia per emigrare come hanno fatto in molti. La madre è medico e continua a lavorare e i nonni sono anziani e non possono affrontare il viaggio. “Non tutti possono andarsene. Ma non potevamo nemmeno continuare a vivere nel nostro appartamento, non dormivamo più, eravamo stremati dalla fatica e dalla paura, soprattutto i bambini”, racconta.

La mattina del 12 marzo un razzo ha colpito un edificio nel centro della capitale e un altro ha distrutto l’aeroporto di Vasylkiv, a sud di Kiev, mentre diversi bombardamenti hanno provocato incendi a Velyka Dimerka, a nordest della capitale ucraina. I colpi di mortaio si sentono ormai anche da piazza Maidan, la piazza centrale di Kiev, simbolo delle proteste filoeuropee del 2014. Una colonna di fumo nero si alza dalle città di Irpin, Buča e Hostomel, a nordovest della capitale, in parte occupate dai russi, mentre si combatte anche a Brovary, un quartiere a nordest di Kiev.

Secondo le immagini satellitari, i carri armati russi sono a 25 chilometri dalla città e l’area urbana che circonda la capitale si è trasformata in uno dei campi di battaglia più violenti della guerra. Gli abitanti di queste aree sono rimasti isolati per settimane con il timore di essere uccisi dai cecchini e dall’artiglieria russa se provavano a scappare.

In fuga
Kiev non è ancora sotto assedio, si entra e si esce dalla zona meridionale della città, ma tutti temono che presto avverrà quello che è successo in altre aree del paese. Cioè che Kiev sia prima accerchiata, poi isolata, infine distrutta dai bombardamenti. Come ci si prepara a una possibilità come questa? Chi non è scappato si dice pronto a combattere, anche chi non è mai stato un militare chiede di prendere le armi. Si preparano scorte di cibo e acqua, si attrezzano rifugi riscaldati adeguatamente. Ma può bastare? Dalle zone occupate arrivano racconti dell’orrore.

Nella stazione della metro, Eugenuo non si dà pace. Da giorni non ha più notizie di sua moglie Ematerina e dei suoi tre figli: Varrara di otto anni, Tatiana di quattro e Ivan di un anno e mezzo. Vivono a Hostomel, una delle città bombardate e poi occupate dai russi a nord di Kiev.

L’ultima volta che si sono sentiti gli hanno detto che si sarebbero rifugiati nella cantina, ma non hanno né connessione né elettricità e non riescono a comunicare. Eugenuo è molto preoccupato. Il 24 febbraio, quando è scoppiata la guerra, era a Kiev per lavorare e non è più riuscito a tornare a casa. Ha gli occhi cerchiati dalla stanchezza. Ora dorme nei sotterranei della metropolitana, in un sacco a pelo. Usa come tavolino per mangiare una cassetta di legno per la frutta. Passa le giornate a chiedersi che stiano facendo i suoi familiari, se e quando li rivedrà vivi. “Se gli succedesse qualche cosa non me lo perdonerei, avrei dovuto essere lì a difenderli”.

Da Buča Dmytro Tkachuk è riuscito a scappare l’8 marzo per arrivare finalmente a Kiev, che dista pochi chilometri. “Quando sono arrivato in città mi sono messo a piangere”, racconta. I bombardamenti hanno distrutto Buča, costringendo i civili a trasferirsi nei sotterranei, ma nelle cantine delle case le temperature di notte scendevano sotto lo zero. Intanto i carri armati russi sono entrati nella città a nordovest di Kiev, sparando sulle case e danneggiando la cupola di una chiesa.

“È stato come se tutte le campane del mondo suonassero all’unisono”, racconta Tkachuk. A un certo punto la sua famiglia ha deciso di scappare insieme ai vicini di casa, passando per le stradine laterali della città ed evitando i checkpoint dei russi. Si sono rifugiati nella chiesa di Irpin, prima di attraversare il fiume. Appena sono usciti allo scoperto per raggiungere il ponte che collega Irpin a Kiev, hanno sentito degli spari e delle esplosioni. La nonna è caduta, Tkachuk l’ha presa in braccio e l’ha portata fino al fiume, con la paura che i cecchini gli sparassero. “Cos’è l’inferno, se non questo?”, ancora si chiede. Ora è a Kiev, ma presto potrebbe non essere al sicuro nemmeno qui.

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